(analisi con possibili spoiler) ::
Ormai amo alla follia Villeneuve: è uno di quei registi che hanno un fascino visionario e un'ispirazione registica tali che prima o poi si aprono da soli, meritatamente la strada verso la grandezza, al di là del riscontro critico e contro ogni aspettativa di un cinefilo in quanto ad apprezzamento di pubblico, nonostante tutte le incomprensioni e i limiti della fruizione delle sue opere migliori (tra cui vi sono già dei capolavori, a mio avviso), frustrate a volte da un'accoglienza fredda, confusa o avvilente a livello di 'senso' del cinema e dell’ambizione. Le sue atmosfere sono intrise di dramma, cariche di presagi, in un certo qual modo ‘pesanti’ ed enigmatiche almeno stilisticamente, con significativi influssi latenti di tragedia del destino come non se ne vedevano più da tanti anni (‘Incendies’ e l'insospettabile, tremendo risvolto edipico, sussulto di genio da cui si può dire esser nato quest'autore in quanto tale). Ammiro l’impronta che riesce a dare ad ogni punto nevralgico degli eventi dei suoi film (a vario titolo) attraverso l'uso narrativo e intertestuale dell'agnizione, del dettaglio di un "riconoscimento" scatenante, che si è visto declinare finora in tutte le migliori intuizioni ed esiti possibili (da Incendies al cliffhanger 'perturbante' di Enemy fino ad Arrival, nel finale) e così pure in questa sua affascinante rilettura di Blade Runner, sequel di un capolavoro a tutti gli effetti e a sua volta degno portatore di riflessioni di un certo spessore. Autoriale, moderno, con un'architettura tematica, estetica e visiva a dir poco invidiabile e nonmeno intuizioni seminali sul deperimento della memoria e la sua virtualità, con tanto di momenti da cineteca (penso subito alla sovraesposizione tra l’incarnato e l'ologramma, rielaborata forse a partire da una mezza buona idea di Spike Jonze ma intesa qui come una intercessione visiva mozzafiato). Una fantascienza importante e 'interessante' nel senso più lato della parola, che ragiona sulla ‘filiazione’ e l'assenza di destino, piena di spunti sul filo della differenza tra "creazione" (artificiale) e "procreazione", tra umano e replicante, codice binario e genetico, alla base della malriposta speranza da parte del protagonista, di un'esistenza 'spartiacque' tra due mondi. Al di là delle notevoli, intelligentissime nuove velleità mitopoietiche e filmografiche, (l'argilla creaturale, Rachel come la Rachele biblica, oggetto del miracolo della fertilità, gli interni della Wallace corp. che ricalcano scenograficamente una piramide egizia, o ancora il rimando alla sezione archivistica di Quarto Potere, a cui è accomunato anche dall'idea di una ricerca/indagine su una 'chiave' dell'identità lungo i fili tagliati della vita e della memoria) anche qui, come già in Enemy e Incendies, vediamo la trama sciogliersi, tutt' a un tratto, in una meravigliosa deduzione 'agnitiva' e psicodrammatica riguardante l'agente K (Ryan Gosling, secondo me un'ottima scelta di casting) di cui non ha senso che sveli nulla - tranne sottolineare che è speculare alla velata incertezza dell'agente Deckard nel film precedente. C'è abbastanza materiale per un trattato breve su questo film, e non mi spiego ancora come sia potuto passare, tutto sommato, quasi un po’ sottotraccia col senno di qualche anno di distanza. Originale, profondo, quasi amletico, un'opera che scava fino alla radice dell'essenza umana fondata sul ricordo, riprendendo anche in orbita di argomento la loro autenticità, sulla scorta degli ‘innesti’ del padre putativo Ridley Scott (scelta felice che si sia fatto da parte sulla regia su questo progetto, per più di una ragione). Rischia poi di passare inosservato soprattutto il personaggio di Niander Wallace, demiurgico e misterioso ma non meno fondamentale degli altri per intercettare i significati e le complessità che sfumano meravigliosamente nel film, ben oltre gli aspetti legati alla stesura e i dialoghi che lo vedono 'artefice' deluso dall’entità del suo ‘pascolo sterile’ fuori dell’intervento di un creatore, salvo quella scintilla di impossibilità che è la stessa di una rivoluzione delle premesse, delle prerogative di un 'umano' tanto quanto di un “lavoro in pelle sentimentale”. Due piccole esattezze visive: la scoperta 'accidentale' del numero seriale nel reperto riesumato a inizio film (lo scheletro della donna che si desume essere morta di parto), che ne rivela anche il paradosso cruciale contronatura, è di una fedeltà impressionante al film precedente sul piano dell’analisi fotometrica dell’autopsia (è una delle cose che a un primo sguardo mi era parsa forzata, poi invece ho apprezzato molto). Un'altra finezza: le piccole sfere di lettura trasparenti in giacenza negli uffici Wallace come dispositivi di memoria archiviata contengono una specie di 'sinapsi' vera e propria. Infine, ennesimo scoglio di riflessione, l’ingegneria genetica come dilemma di portata esistenziale nella violazione del postulato del genoma per il quale due esseri umani non possono avere un corredo di dna identico, da cui tutte le diverse oscillazioni di senso e i capovolgimenti di indizi e idee sulla natura ‘unica’ ed eccezionale del protagonista - anche in relazione alla creatrice dei ricordi cui si rivolge come a un oracolo per saggiarne l'autenticità, ingannato. Oltre a questo, gli splendidi voli panoramici in presa dall'alto, altra cifra riconoscibile di Villeneuve, che si ripropongono qui dopo Sicario ed Enemy. Colonna sonora pseudo-Vangelis abbastanza azzeccata, pur se avrei preferito più tonalità intimiste e meno ambient alla 'Atlantique' di Fatima Al Qadiri (sarebbe stato davvero la perfezione). Nutro grandissime speranze nel remake di Dune, ma ci troviamo già davanti a un talento indiscutibile.
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