A Ciambra

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Coraggioso anti-romanzo di formazione calabrese Valutazione 4 stelle su cinque

di Eugenio


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sabato 23 dicembre 2017

Inizia con il livore di un cielo grigio, il cupo incedere della macchina da presa su una steppa su cui si stagliano verdi montagne.  Poi un uomo ripreso di spalle dinanzi a un cavallo immobile nell’erba. L’uomo si appoggia alla testa del cavallo e ne accarezza teneramente la criniera.
Non è l’Anatolia o la Russia di un cinema di autore ma la Calabria di Gioia Tauro, crocevia di comunità rom, africane e italiane, lo sfondo di questa pellicola.
Cronache di povere memorie di raccoglitori di arance, di pomodori nella piana tra Rosarno e Gioia, sfruttamento e lavoro nero, illegalità bruciante in un’Italia piegata dalla manodopera clandestina e da tanta connivenza.
Dalla dimensione onorica a quella reale. Ambiente appunto “di strada”, inquadratura su baracche e un ragazzino che urla buttandosi avventatamente contro la porta. Camera alla sua altezza, stacco e montaggio verso un inizio: A Ciambra.
A Ciambra ovvero unmicrocosmo alla periferia di Gioia Tauro. Casermoni popolari con due comunità: i rom “calabresizzati” da un lato e gli africani (definiti “marocchini” dagli stessi rom) dall’altra. Ognuno vive accanto all’altro, ma non comunica. Ognuno è dedito alla sua professione, furti e ricettazione ma non ha rapporti con l’altro, indifferente.
Ognuno campa come riesce alla Ciambra. E si fa i fatti suoi.
Pino è uno di questi rom. Un quattordicenne intelligente fumatore, che segue le gesta del padre e del fratello, finiti in carcere dopo l’ennesimo furto. Pino è ambizioso, vuol badare alla famiglia ma non è un paranzino, uno di quei futuri “boss” di cui ci ha tanto abituato Saviano nei suoi romanzi.
Pio non brama il potere, vuole che la sua (numerosa) famiglia possa vivere dignitosamente. E i mezzi in quel territorio per farlo onestamente scarseggiano. Allora, col padre e il fratello dentro,  Pio si arrabatta come può, come meglio riesce, nell’unico modo che conosce ovvero rubare.
Sale sui regionali di Gioia Tauro diretti alla fertile Villa San Giovanni; con un veloce quanto astuto sguardo individua la sua “preda” e la priva del bagaglio prima ancora che il treno parta. Poi si appropria di qualsiasi cosa di “rubabile”, ovvero tablet e altri oggetti  personali come computer portatili.
A piazzarli tra i vari ricettatori gli dà una mano Ayiva (Koudous Seihon, già protagonista in Mediterranea), immigrato del Burkina Faso con il quale, ben presto, il giovane rom  costruisce un vero rapporto d’amicizia, che gli consente di integrarsi senza problemi con l’intera comunità africana del luogo.
Riuscirà Pio a preservare la sua facciata di fanciullo imberbe, mantenendo quel sottile legame di fiducia che lo lega ad Ayiva?
Potrà salvarsi da un mondo in cui il furto degli affetti conta più dei puri sentimentalismi accedendo alla dolorosa maturità cui brama?
Jonas Carpignano, giovane italo-americano, classe 1984, come in Mediterranea, pone l’accento sul mondo dell’integrazione e della dinamica quotidiana di una famiglia Amato (realmente esistente), ripresa dal basso degli occhi di Pio, in un singolare cammino di anti-formazione come certe pellicole francesi dei Fratelli Dardenne.
Il cineasta  è abile a mescolare finzione con documentario, intenti sociali con il neorealismo moderno di una realtà degradata ma mai squallida.  C’è una certa dignità anche nei furti, nelle rapine, nell’indigenza in A Ciambra priva di un’esaltazione sociologica della realtà ma oggettiva proprio nel (raro) intento di non giudicare nulla ma semplicemente mostrare, permettere allo spettatore di “farlo riflettere”.
Carpignano mette sullo stesso piano esseri umani, oggetto di odio e diffidenza da parte del popolino perbenista, rom e africani in una fotografia patinata, onirica ma sempre profondamente cupa, in un crepuscolo o un’alba quasi sospesa che mai diventano notte o giorno.
In essa, noi spettatori siamo partecipi attivi di un sentimento strano, una profonda empatia che ci rende vicini ai reietti della vita, Pio- Ayiva  e alla comunità circostante, coacervo di culture in cui è possibile una convivenza, seppur sofferta, un vago cenno di assenso in delicati periodi dove la parola tolleranza scade nel clichè della demagogia popolare.
A Ciambraè un film coraggioso in cui riusciamo a vedere vittime e carnefici sullo stesso piano, senza una retorica sentimentale, senza crismi. Con un dialetto spontaneo da farlo sembrare casuale nei dialoghi (anche se frutto di un attento lavoro di sceneggiatura), con una forza visiva non consueta al cinema italiano, con protagonisti “presi dalla strada” e alla strada consegnati.
Pollice alto.
 

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