La solitudine può condurre l’uomo ad azioni ribelli, al coraggio della scelta, al bisogno della partenza, alla pazzia.
Un uomo naufraga su un’isola deserta dopo una tempesta. Sotto lo sguardo attento e curioso di piccoli granchi, cerca in tutti i modi di fuggire con una zattera costruita sfruttando il legno della foresta ma viene sempre fermato da una tartaruga rossa che ne distrugge una, due, tre volte l’imbarcazione del naufrago senza tuttavia mai piegarne lo spirito .
Subisce la sconfitta l’uomo, subisce lo scontro con l’immane mammifero, percepisce la natura e la sua immensa forza, titanicamente cerca di ergersi a baluardo della potenza della razionalità ma viene sopraffatto e sconfitto dalla dirompenza della natura.
E quando infine l'uomo ha il sopravvento sulla tartaruga, spiaggiata nel primo terzo del film, ecco che dal guscio spezzato del mammifero, si apre il volto di una ragazza misteriosa, l’Eva primordiale. Come Adamo nel Paradiso Terrestre, il nostro naufrago si adatterà alla sua nuova vita immergendosi nella rinascita con il suo alter ego femminile, che gli donerà un figlio.
Sarà solo l’inizio di una nuova vita, orchestrata dai tempi dell’amore della Natura (con la N maiuscola) benigna e matrigna al tempo stesso, capace di avvicinare l’uomo alla sua dolcezza e di respingerlo amaramente nel silenzio della morte.
Poesia e dramma nel colore del mare, nel profumo della sabbia bagnata. Vita nei colori, vita benedetta di nascita, amore, lotta, solitudine, caduta, rimpianto, sopravvivenza e infine rinascita, il binomio imprescindibile di uno scontro metafisico anima l’ora e venti di puri suoni (senza dialoghi) de La tartaruga rossa, ultimo puro esercizio di design dello Studio Ghibli (di Miyazaki).
Non è la Walt Disney, non è la DreamWorks. Non ci sono effetti speciali in questo piccolo capolavoro d’animazione, non ci sono famosi attori a doppiare duetti di protagoniste afflitte da qualche trauma, non ci sono luci inebrianti e colori sgargianti in stile occidentale dove tutto si muove ed è dinamico a discapito di un messaggio di fondo frivolo e scontato. No, La tartaruga rossa è lo studio Ghibli costantemente alla ricerca di dettagli poetici e non estetici che vanno a toccare le corde dell'anima in gocce di bellezza che arrivano fino al cuore e fanno emozionare, gioire, commuovere.
Dirige il semplice gioiello di animazione l'olandese Michael Dudok de Wit (vincitore dell’Oscar nel 2001 per il miglior cortometraggio animato, Father and Daughter, Padre e figlia) che con la partecipazione di Isao Takahata e Hayao Miyazaki in acquerelli e carboncino, realizza un racconto contemplativo sulla bellezza della Natura e in particolare sulla (in)capacità dell’essere umano di riuscire a preservarla.
La malinconia e i suoni in tutti i sensi, dallo scroscio della pioggia torrenziale, al temporale, dal rumore delle foglie al soffio del vento, scorrono lenti in un luogo avulso dal tempo, quella dell’isola per definizione, in cui la tradizione realistica giapponese rende il film d’animazione un documentario, preciso e ineluttabile del grande rapporto esistente tra uomo e natura, tra piccolezza e panteismo.
In una fiaba che ricorda il cinema francese, in particolare il tratto di Hergè, La tartaruga rossa mette a contatto lo spettatore con la magia dei sensi, con l’aria, l’acqua, la luce, che pur con un didascalismo di fondo legato all’enfatizzato significato finale, è capace di comunicare concetti universali, impreziositi da uno stile grafico di alto livello, interamente manuale, e dialogare con un mondo, la natura, da cui ci sentiamo attratti e grati ma che per converso, cerchiamo di dominare, assoggettandola ai nostri biechi fini di sopravvivenza, senza comprendere ancora una volta, che solo la necessità di un’unione con lei potrà salvarci.
Vincitore della sezione Un certain regard al Festival del Cinema di Cannes e candidato agli Oscar come miglior film d’animazione, La tartaruga rossa uscirà nelle sale per (ahimè) soli tre giorni, dal 27 al 29 marzo.
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