Spoiler-Alert:
Come spettatrice e amante del genere sci-fi premetto che sono rimasta un poco delusa dal encomiato Arrival di Villeneuve del quale mi aspettavo qualcosa di diverso, probabilmente di più magnetico e coinvolgente. Ma come linguista io stessa ho particolarmente apprezzato in questo film la tematica. Il modo in cui si approccia alla tematica del linguaggio e della comunicazione, ed infine del modo in cui per la prima volta nel corso di un film fantascientifico, il linguaggio vada interpretato come il dono e contemporaneamente l'arma per aprire e quindi dominare il Tempo. L'aspetto che mi ha intrigato di più è l'importanza che viene data alla comunicazione, che è l'aspetto più essenziale e basilare della nostra esperienza umana ma anche un bisogno innato. Comunichiamo i nostri sentimenti, i nostri pensieri e desideri, le nostre idee. Le società più evolute (umane ed aliene, come mostra il film) si basano sul concetto di comunicazione. Una comunicazione che si effettua attravverso il linguaggio, quel meraviglioso sistema di simboli arbitrariamente scelti per codificare messaggi complessi e astratti da comunicare al prossimo. Infatti, qualsivoglia forma di comunicazione prevede l'uso del linguaggio, sia che esso sia articolato e complesso come quello scritto, orale o ambedue delle nostre lingue oppure quello visuale, verbale, concettuale e simbolico come quello cinematografico al quale assistiamo.
In tale contesto, troviamo Louise Banks, linguista di fama mondiale che viene reclutata dall'esercito degli States per aiutarli a tradurre e comprendere i messaggi e le intenzioni degli alieni appena approdati nel Montana a bordo di un'astronave ovoidale, prontamente rinominata come "il guscio". Quelli del Montana però non sono gli unici alieni ad essere arrivati sul pianeta Terra; altre 11 navicelle infatti sono atterrate in punti diversi del pianeta e la domanda cruciale che interessa i governi di tutto il mondo e': "Cosa vogliono?" "Sono venuti in pace o vogliono dichiarare una guerra?" "Da dove vengono?". Ovviamente per rispondere a queste domande è indispensabile che esista un common ground sul quale avvenga la comunicazione, e quindi la reciproca comprensione. Questo è l'altro elemento interessante del film: l'altro, il diverso ed estraneo si cerca di comprenderlo, lo si avvicina e lo si approccia senza pregiudizi. O almeno ciò è quello che fa Louise e Ian, il fisico teorico del team a lei assegnato. La dottoressa ben presto capisce che i due alieni a bordo della peculiare navicella (all'interno del quale le leggi fisiche vengono a meno) comunicano attravverso una forma di linguaggio scritto che si basa su dei peculiari simboli circolari, dei logogrammi affascinanti ed enigmatici, che lei deve riuscire a tradurre per potersi mettere in contatto con loro nel minor tempo possibile.
Il linguaggio diventa di nuovo la chiave per aprire e aprirsi all'Altro. Comprenderlo e comprendere meglio noi stessi, dato che come direbbe Wittgenstein i limiti della nostra lingua sono i limiti del nostro mondo. E come dichiara l'ipotesi Sapir-Whorf, esplicitatamente citata nel film, la nostra lingua condiziona il nostro modo di pensare, vedere e approcciare il mondo.
Ma mentre Louise supera questi ostacoli linguistici, fisici e materiali per mettersi a contatto col diverso, inizia ad avere delle strane visioni che man mano si fanno sempre più intense e vivide. Quello che appare essere il passato, in realtà si rivela essere il futuro che aiuta Louise a cambiare il corso delle cose nel presente. Sotto tale aspetto il film rivela anche la sua vena più intima, umana e sentimentale, intrecciando la storia al presente di una scienziata dedita anima e corpo allo studio del linguaggio a quella del futuro che vede una madre amorevole e premurosa colpita da una tragedia terribile, indicibile: quella di perdere la propria figlia per un male precoce ed innarestabile. Ricalcando i passi e il linguaggio cinematografico lanciato dal visionario Christopher Nolan con Interstellar, Villeneuve torna a parlarci degli elementi del tempo e del amore che negli ultimi anni interessano la narrativa sci-fi dal polso intelletuale e dalle venature intrinsicamente antropocentriche e filosofiche.
L'amore anche qui assume la forma di linguaggio universale, l'elemento motivante che non impedisce a Louise di mettere al mondo sua figlia, nonostante sappia anticipatamente cose le succederà. Il tempo assume invece la forma di un dono (oppure di un'arma, a seconda del punto di vista) che gli alieni vogliono regalare all'Umanità, ma del quale infine solo Louise potrà usufruire. Il tempo, che secondo Nolan assume la forma di una quarta dimensione, qui resta un elemento al quale gli esseri umani potranno accedere attraverso la conoscenza della lingua aliena, quella lingua universale e circolare in grado di sbloccarlo. Quello che quindi costituisce il maggior nemico dell'uomo, a sua volta smette di essere lineare e dove passato presente e futuro si intrecciano, proprio come i logogrammi.
Se però il film si pone subito su un piano molto intelletuale e filosofico non è esente da alcune, talvolta grossolane, pecche che mi impediscono di assegnarli un punteggio maggiore e che mi hanno fatta uscire dal cinema molto perplessa (i famosi mixed feelings).
Primo, un linguista non conosce tutte le lingue del mondo come invece farebbe presumere il film. Quello è uno stereotipo alquanto ingenuo da proporre al pubblico. Un bravo linguista (dipende dalla specializzazione) potra conoscere la struttura morfo-sintattica delle lingue ma difficilmente potrà comprendere e produrre in esse, potendo scrivere, parlare e tradurre.
Secondo non ho apprezzato affatto la rappresentazione visiva degli alieni, come dei giganteschi polipi i quali sono perennemente avvolti da un banco di nebbia ma contemporaneamente si tengono a debita distanza dall'uomo dietro un vetro dalla luminosa ma asettica luce bianca che crea un notevole contrasto visivo col resto dell'interno. Ma aldilà della notevole estetica che il regista crea, la rappresentazione di esseri extraterrestri evoluti come degli eptapodi, l'ho trovata poco creativa e molto deludente.
La terza e ultima cosa che non ho apprezzato , è il fatto che il film non spiega niente sulla provenienza di queste creature, su chi siano e su quale sia la minaccia che entro 3000 anni avrebbero dovuto affrontare insieme all'uomo. Volendo poi esercitare in modo inverso l'abilità di pensiero, gli alieni essendo più evoluti e conoscendo il futuro (essendo per loro il tempo ciclico e non lineare) dovrebbero sapere in anticipo che gli Uomini non usufruiranno del loro dono e che solo Louise si farà portatrice di quest'abilità (conoscere ed imparare la loro lingua quindi sbloccare il tempo) rendendo vano il loro tentativo. Il film cade così in alcuni -inevitabili del resto- plot holes.
Benchè poi sia evidente che come tutti i film di fantascienza che si rispettino, Arrival utilizza un linguaggio scientifico (che qui è proprio quello linguistico) e la stessa simbologia sci-fi come metafora, per portare la narrazzione sul piano dei sentimenti umani, quelli che in fin dei conti sono i motori che ci permettono di vivere e di evolverci. Il film fa quindi leva sull'interiortà del'essere umano utilizzando una intensa Amy Adams per porre uno sguardo su quesiti filosofici che ci attanagliano, come appunto "cosa faremmo se potessimo vedere in anticipo il futuro?".
Ma eccetto i contenuti dei quali il film abbonda, non offre qualcosa di più originale, innovativo o visionario nè in termini di tematica nè in termini di spettacolarità, eccezione fatta per la resa della navicella. Non è facile ricreare un immaginario fantascientifico nuovo come osò fare Nolan nel 2014 (unendo i tasselli della fisica teorica, del tempo, dei sentimenti umani in un potentissimo action-drama fantascientifico). Arrival in tal senso appare piuttosto statico come film, monocorde e a tratti monocromatico. La suspense e il mistero, elementi fondamentali nel genere sci-fi, qui sono appena percepibili. Anche la mancanza di colpi di scena eclatanti e la staticità della location dove si svolge l'azione (all'interno della navicella e all'interno della base militare) potrebbero far venir meno l'attenzione degli spettatori e talvolta annoiare.
Sulla recitazione di Amy Adams invece c'è poco da dire: è perfetta, fragile, intelligente, umana ed empatica anche col ignoto che la circonda. Praticamente da sola la Adams regge il peso della pellicola impegnativa e complessa. Jeremy Renner e Forest Whitaker risultano poco più che comparse al suo cospetto.
In definitiva, Arrival è un film di stile e di maniera che rievoca alcuni classici del cinema come Odissea 2001, Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo e più recentemente si ritrovano elementi di Interstellar. Niente fraintendimenti: Arrival è un film letterario e intelletuale ma non si rivolge ad un pubblico d'elite. Ciononostante non riesce mai pienamente a coinvolgere ed emozionare, non ti trasporta nel suo viaggio alla conoscenza dell'Altro ed infine fatica ad entusiasmare ed estasiare come ci si aspetta da uno sci-fi firmato dal regista pluri-elogiato come Villeneuve. Essenziale, misurato ed estraniato da pomposità visive purtroppo non mi ha convinto pienamente. 3/5.
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