L'opera afferma la sbilenca autorialità di Villeneuve, che sembra realizzare ogni film per spiazzare i fan del precedente. Al cinema.
di Roy Menarini
Viene sempre da sorridere quando i film di fantascienza vengono definiti "derivativi". Arrival non fa eccezione, poiché è stato giudicato troppo simile a Interstellar nei suoi contenuti morali e segnato profondamente da Incontri ravvicinati del terzo tipo quanto a tipologia dell'incontro - il tutto senza scomodare l'originale struttura narrativa.
È un'accusa ingenua, dal momento che la fantascienza vive di piccoli spostamenti progressivi, di imitazioni e rielaborazioni: è uno dei generi più chiusi e al tempo stesso più sperimentali che esistano. Si tratta di un codice dell'immaginario che prevede una tipologia di destinatari competenti e appassionati, per i quali vige da sempre una sorta di standard precedente, un canone che alcuni film definiscono e che, negli anni successivi, deve essere rispettato fino a che un nuovo paradigma non si afferma.
I film-chiave della fantascienza sono noti, da quello che probabilmente ha avuto più influenza su tutti gli altri (Metropolis) a quello che ha traghettato il genere nella sua età adulta (2001 - Odissea nello spazio), dall'opera che ha segnato la contemporaneità (Blade Runner) a quelle che hanno cambiato per sempre le modalità di visione popolare (E.T. - L'extraterrestre). Il fatto che una manciata di capolavori abbia modificato la percezione comune della fantascienza non significa che tutti gli altri prodotti che se ne nutrono - appunto come si fa con un modello letterario - siano da considerare di second'ordine. Del resto, nessuno lo ha pensato di fronte al caso Stranger Things di Netflix, che pur sembra non possedere nemmeno un'inquadratura totalmente "indipendente" dall'immaginario anni Ottanta che cita.
Arrival fa parte della nidiata di film che nutrono la fantascienza degli anni Duemila, un genere cui si richiede meno spettacolarità (supereroi e saga di Star Wars fanno storia a sé) e maggior intimismo, come ben esemplificato da Gravity, Sopravvissuto - The Martian o Passengers. Il film afferma la sbilenca autorialità di Denis Villeneuve, che sembra realizzare ogni film per spiazzare i fan di quello precedente (eppure la sua protagonista è eguale e contraria a quella di Sicario, una accede al cielo, l'altra agli inferi), e al tempo stesso trova una sua nicchia dentro il genere fantascientifico.
Ovviamente la parte del leone la fa il linguaggio, con la più appassionante seduta di traduzione che il cinema recente ricordi (e decrittare i segni, come nella trilogia tratta da Dan Brown, sembra essere diventata un'ossessione della nostra era iper-comunicativa).
Tuttavia, a suo modo, Arrival è anche un film politico, laddove invece sembra riportare tutto a una dimensione salvifica intima e famigliare. È politico perché, nello svolgimento dei fatti - oltre a mettere in scena la consueta ottusità militaresca del potere - racconta qualcosa del mondo contemporaneo, del multilateralismo internazionale, della fine di ogni primato imperiale americano, di come (ancora una volta parlando altre lingue) ci si apre alle culture lontane e si cerca di salvare il mondo.
Pie illusioni in un mondo dominato da risentimenti, frustrazioni e populismi? Forse. Ma il compito della fantascienza è sempre stato quello di immaginare il futuro analizzando il presente. Se per una volta, invece che catastrofi e abomini, Villeneuve ci racconta una storia dove le scienze (umane, come lo sono tutte) dell'intero universo cooperano per cercare di comprendersi, che male c'è?