“Le cose che verranno” (L’avenir, 2016) è il quinto lungometraggio della regissta-sceneggiatrice parigina Mia Hansen Love.
Un film di ‘nuovi giorni’ dove il quotidiano ora di routine, ora di pranzo in famiglia, ora di scontri, ora di lezione, ora di figlio e ora da genitori pare tutto in un concentrato di cose che forse t’aspetti e aspetti dove il sogno della piacevolezza pare un disincantato mondo di fruscii primaverili contornati da languidi sguardi autunnali.
Nathalie è una donna, che a quasi sessant’anni, vive di impulso senza novità, tra insegnamento (di filosofia) e famiglia, studenti e sua madre. Tutto in ansia commisurata e con un cerchio di allegorica solitudine. In fondo l’ambiente è di una umanità avulsa e fuori da ogni chiosa di partecipazione. I grandi (che si nominano a lezione) del pensiero appaiono un collante e un appael.
Una prima parte, parigina, precisa, incisiva e focosamente ‘chic’, poi diventa pilotata facilmente quella della campagna e della casa ‘autoriale’ (con una secondo ritorno ammiccante e alquanto inutile); la parte finale (e il finale) abbastanza consono e importante (dove l’ultima recita di una nonna libera prende in braccio la vita che vorrebbe riavere in se). E’ un distacco dagli altri: Nathalie non si scompone: appare solo attratta da un pianto liberatorio, quello di un neonato e quello suo, libero e lasciato da tutti.
Accudire una madre come il proprio vivere che pare insulso ad ogni estraneo: è il silenzio delle parti.
Vivere con dovizia di cose giornaliere, con un cibo già fatto e solo da riscaldare: è tutto ormai cotto.
Esternare emozioni in una bassa marea costante: quando il tradimento interviene pare già scritto.
Non senza paura Nathalie contatta altri lasciando i suoi luoghi: Pandora rimane solo metafora.
Ironica, con anche il cognome, il resto tutto pare dispersivo e di ieri: il domani è interessante.
Ricca di animo, incompresa, pare raggiungere la libertà desiderata: o è forse solo parvenza di una compagnia ancora da studiare.
Ecco un film, come tanti fuori dai nostri confini, dove una storia e delle vite sono rappresentate con una certa coerenza e con certo senso di appartenenza alla realtà.
Un invito ad entrare nei meandri, più o meno riusciti, di un camminare interiore ed esteriore, tra culture varie, radicalismi imborghesiti, filosofie di verità e famiglie compiaciute.
Ecco una donna al centro, la moglie acculturata, una mamma che sognava la figlia insegnante e il pensiero di Rosseau che scandisce la rivoluzione 'culturale' d’oltralpe.
Ecco che il marito dice alla moglie durante un pomeriggio a casa: '…Ha sempre l'ultima parola…'. L'ultima parola. E chi sa se di una donna che crede alla libertà in tutto dove il suo radicalismo giovanile e studentesco s'affloscia oramai da tempo come un sentore dischiuso di un razionalismo becero e inconcludente.
L’emisfero femminile sarcasticamente vitale, intimidito, forviante e lungi dall’abbandonare ogni pensiero di oggi come del divenire ‘presocratico’: l’avvenire come simbolo dell’esserci, senza stracci e con il sarcasmo di un mondo esteriore privo di molte cose. Sua madre recita la sua insicurezza familiare e riesce a convincerla che il marito dei suoi figli non era per lei. Donne che attendono risposte mentre già le hanno vicine senza accorgersene. Nathalie soffre della separazione ma come se ne avesse già il sentore: la filosofia giornaliera non è puro razionalismo ma un sentore putrido di giochi invisibili e di facezie invereconde. Quando sente la libertà dentro di se (almeno cosi manifesta il suo passo) gioisce in modo sottrattivo ma si scompone quando il suo uomo (o quello che ne rimane) prende i libri desiderati dai suoi scaffali o è con l’altra donna (un attimo, un istante minimo) per una solitudine di scontro. Nathalie appare vincente sul parlare di altri e sul silenzio attorno: preferisce le lacrime di un neonato e la sua dolcezza.
Pandora, una gatta nera, con occhi fulminei come una donna mortale a cui il mito non interessa, importante è recidere il cordone ombelicale dalla madre Yvette e dal suo non luogo. I Pensieri (e Pascal) fanno capolino come ‘spiegazione’ da fare mentre il buon Descartes scorge la lezione appeso alla parete tra una finestra e la Parigi che qualcuno/a vuole sognare.
Isabelle Huppert(Nathalie) è un’attrice che non perde mai il ruolo: riesce anche nella sbavature della sceneggiatura a far rendere tutto (maledettamente) credibile.
Regia piena d’arguzia e fascinosa perché priva di ogni inutile ‘sovrappiù’.
Voto: 7/10.
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