Beatrice e Donatella non potrebbero essere più diverse. Beatrice è snob, arrogante, logorroica, pettegola, invadente; Donatella è muta, scontrosa, ferina. Beatrice, aristocratica, passeggia con l’ombrellino parasole come una damina dell’800; è florida, indossa vestitini di seta ed ha il comodino pieno di creme e profumi. Donatella ha un solo abituccio, è magra come un osso e ha la pelle martoriata da cicatrici e tatuaggi. Ma Beatrice e Donatella hanno una cosa in comune: sono entrambe pazienti psichiatriche. “La pazza gioia” è la loro storia: la storia di un’amicizia toccante, di una fuga folle, di una ricerca disperata. Una storia che insegue lampi di gioia sopra un oceano di dolore. Dove ci sono personaggi detestabili nel loro squallore e figure cariche di umanità; e in mezzo loro: le pazze.
Tutto inizia a Villa Biondi, un centro di recupero immerso nel sole della campagna toscana. Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi) si aggira fra le pazienti dispensando giudizi taglienti su tutti; rivendica amicizie potenti, si sente vittima di un complotto, tormenta il giudice che l’ha condannata. Un giorno arriva per essere ricoverata Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), dietro di lei un passato oscuro e terribile. Beatrice si interessa subito alla nuova ospite e indaga: nella sua borsa trova una vecchia foto ripiegata di una bambina col padre, un ritaglio di giornale, un telefonino che contiene solo due messaggi senza risposta ed una vecchia canzone. Il legame fra le due si instaura con molta fatica. Ma un giorno Beatrice, iperattiva, alla prima occasione spingerà Donatella a fuggire con lei.
Viaggeranno, fra mille avventure e disavventure, alla ricerca della felicità. La cercheranno ancora dove non devono, dove l’hanno sempre cercata invano: nei genitori, negli uomini della loro vita. Perché se Beatrice e Donatella sono donne “sbagliate”, il loro solo errore è di aver scelto riferimenti sbagliati, la loro malattia crearne una rappresentazione completamente avulsa dalla realtà. Così Beatrice continua a sognare l’amore dell’uomo becero che l’ha sfruttata o si aggrappa, come a uno scoglio scivoloso, all’ostentazione della ricchezza in cui è vissuta, mentre Donatella coltiva l’immagine fallace di un padre affettuoso, da cui invece è stata abbandonata e ascolta ossessivamente la canzone (“Senza fine” di Gino Paoli) che non gli è mai stata cantata.
Per contro è il mondo che ha con loro la più grave colpa: gli ha negato l’amore, quello dovuto, quello obbligatorio: di un padre, di una madre, di un compagno. Erano fiori delicati (“sono nata triste” dice Donatella in una delle scene più toccanti), sono stati calpestati. E si sono ammalate. Cos’è l’invadenza di Beatrice, se non una disperata ricerca di riconoscimento; cosa l’ermetica chiusura di Donatella, se non il rinchiudersi in una tana finalmente sicura? Nel loro viaggio ricevono ancora tanto male, in maniera talora ripugnante. Ma la meta sarà la scoperta salvifica: l’amicizia che le lega, ciò che hanno costruito da sole, può salvarle.
“La pazza gioia” non è solo un’indagine sul disagio psichiatrico, ma soprattutto un racconto sulla ricerca della felicità. Bene che può talora apparire irraggiungibile, soprattutto per chi parte svantaggiato, ma missione che riguarda ognuno di noi. Infatti che differenza c’è fra noi e un folle? Solo una linea sottile, una gradazione di intensità. E dove c’è più dolore e più bruttura, se non nel mondo dei “sani”? Ma la visione di Virzì non è qui senza speranza, il quadro che dipinge non è uniformemente cupo come quello di “Il capitale umano”. Assieme a padri cinici, madri anaffettive, compagni indegni ci sono, stelle brillanti sul cielo nero, un universo di anime belle: operatori amorevoli, un tassista gentile, una coppia comprensiva.
Una precisazione: non si ride in “La pazza gioia”: le esuberanze di Beatrice (che le fanno pronunciare battute memorabili), per chi ne ha compreso la genesi, suscitano piuttosto un sorriso di tenerezza. Bensì si piange, a fiotti, ma di quel pianto sano che purifica e scalda il cuore. Questo è il prodotto della fruttuosa collaborazione, nella stesura della sceneggiatura, fra Paolo Virzì e Francesca Archibugi.
È noto come il regista toscano sappia tirar fuori il meglio dai suoi attori; ed anche stavolta le sue protagoniste sfoggiano una performance eccezionale. Micaela Ramazzotti, che ha accettato di mortificare la sua bellezza con una magrezza scheletrica, conferma il suo versatile talento, calandosi con efficacia in un ruolo estremo ed oscuro. Vera dominatrice della scena, in maniera forse sorprendente per la qualità della sua interpretazione, è però Valeria Bruni Tedeschi, che riempie ogni fotogramma con una presenza pervasiva e travolgente come il suo personaggio. Ma si deve dar rilievo, fra gli interpreti non principali, alla confermata e indiscutibile bravura di Valentina Carnelutti, capace di creare una sentita compartecipazione emotiva intorno al personaggio della appassionata terapeuta.
10 minuti di applausi a Cannes: che siano il decollo verso le sale mondiali del nostro cinema, rappresentato da uno dei suoi più autorevoli portabandiera. ”La pazza gioia” è talmente superiore a tanti film stranieri che arrivano nelle nostre sale con suono di fanfara, che ci resta ancora incomprensibile la scarsa diffusione delle nostre opere all’estero.
A noi che, usciti dalle sale, abbiamo asciugato le lacrime; a noi che abbiamo amato Beatrice e Donatella e ne abbiamo abbracciato la follia, riprendendo il nostro cammino resta un dovere inderogabile: rincorrere la felicità.
Che sia pazza, ma che sia comunque gioia.
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