Il ritratto negato

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Il testamento di Wajda omaggia l'arte

di Roberto Nepoti La Repubblica

È un film su cui si possono spendere molti aggettivi Il ritratto negato, opera postuma del grande regista Andrzej Wajda (deceduto il 9 ottobre 2016): nobile e austero, fiero e appassionato. E anche un po' deprimente. A causa della storia, che è quella - autentica - degli ultimi quattro anni (dal 1948 al 1952) di vita del pittore polacco Wladyslaw Strzeminski, nome meno noto di Malevich, Kandinsky e Chagall, con i quali lavorò, e tuttavia di assoluto spicco nell'avanguardia artistica del XX secolo. Privo di un braccio e di una gamba (per ragioni che scopriremo a film avanzato), lo troviamo professore alla scuola di Belle Arti di Lodz dove insegna un concetto personale dell'arte, espresso nel trattato Teoria della visione, a studenti innamorati del suo eloquio appassionato e non solo. Per lui l'arte è pura soggettività, nata dalle tracce della visione particolare di ogni occhio. Il che confligge in toto con la rigida normativa del realismo socialista, che in quel periodo celebrava le vittorie di operai e contadini con la retorica di immagini tronfie e trionfalistiche. Wajda esprime metaforicamente il contrasto in una delle scene iniziali: quando un telone col ritratto di Stalin viene issato davanti alla finestra di Wladyslaw, impedendogli di dipingere, e lui lo lacera, subendo un'immediata rappresaglia. Ha inizio così la via crucis dell'artista che, espulso dall'università, radiato dal sindacato, vedrà sparire le proprie opere - assieme a quelle di altri costruttivisti - dalla sala "neoplastica" del Museo di arte moderna di Lodz. Senza un lavoro e perfino senza buoni alimentari, finirà socialmente annientato, ma sempre deciso a non piegarsi. L'ammirazione dello spettatore per l'indomito Strzeminski è accompagnata da un persistente senso di disagio perché l'uomo rinuncia a occuparsi, oltre che di sé stesso, anche di Nika, l'infelice bambina avuta dalla scultrice Katarzyna Kobro. Ma tant'è: aspettarsi altro sarebbe pretendere che Wajda non sia Wajda. Strenuo difensore della libertà, il regista polacco non mette in scena un biopic d'artista, ma un film politico. Lo fa attraverso il ritratto di un martire (nel senso etimologico del termine, il "testimone" di una fede), che combatte il fanatismo delle autorità con, anche lui, una dose di fanatismo. Un santo laico protettore di chi non si conforma ai dettami del potere totalitario. Non è neppure simpatico per definizione ma è empatico e finisce per produrre una forte compassione.
Da La Repubblica, 11 luglio 2019


di Roberto Nepoti, 11 luglio 2019

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