Quante volte in Italia abbiamo assistito a scene di ordinaria povertà dove a preclusi dalla vita, con malattie e problemi viene negato il necessario sussidio?
Quante volte passando da centri assistenziali come Pane Quotidiano di Milano abbiamo visto, nell’indifferenza generale, file di persone in attesa del proprio turno per accedere in mensa?
Tante, troppe.
Ken Loach, acclamato regista inglese, dallo stile più rivolto al documentario e alla denuncia sociale che alla commedia di finzione, pare leggere con spirito attento nel suo nuovo film Io, Daniel Blake il malessere che alberga dietro la compiacente connivenza col potere dei semplici impiegati, volutamente irrigiditi sul rispetto delle regole disumane (studiate a tavolino per annientare i cittadini).
Siamo a Newcastle in Inghilterra nei giorni nostri. Daniel Blake, vicino ai sessant’anni, a seguito di un attacco cardiaco, è impossibilitato a svolgere la sua mansione di carpentiere e viene pertanto messo in mobilità obbligata. Tuttavia, la richiesta di riconoscimento dell’invalidità, non va a buon fine e Daniel si vede negata la possibilità di ricevere i sussidi assistenziali dello Stato, lo stesso a cui ha versato per quasi quarant’anni contributi assistenziali.
Parallelamente, il suo destino si incrocia con la storia di una giovane ragazza madre di due figli –Daisy- che sfrattata dal suo appartamento londinese perché incapace di riuscire a pagare l’affitto per indigeenza, accetta l’offerta di un piccolo quanto lurido bilocale a Newcastle, a basse spese, che gli permetta quantomeno di avere un tetto sopra la testa per iniziare a pensare al suo futuro e soprattutto a quello dei suoi figli.
Stranieri entrambi in una città che li avvinghia sempre più in una morsa di privazione e sofferenze, l’anziano Daniel e la giovane Daisy inizieranno a solidarizzare, entrando in contatto con un mondo a cui entrambi, pur non appartenendo, cercano di rivendicare con forza il loro diritto alla vita e soprattutto alla loro dignità di esseri umani.
Ken Loach, dopo Jimmy’s hole, realizza un altro capolavoro, giustamente consacrato con la palma d’oro al Festival del Cinema di Cannes l’anno scorso. Un film in cui lo stesso titolo appare testimonianza di una personalità violata e non riconosciuta, in cui il protagonista lotta per mantenere la propria identità di cittadino contro uno stato sociale in disintegrazione.
E per farlo, il regista non nasconde una vena di grande documentazione, frutto del sostegno dello sceneggiatore-amico Paul Laverty, che, vecchio stile, con steady cam sulle spalle si muove in un universo tristemente noto del confronto tra chi ha uno straccio di misero potere e lo esercita per aiutare e chi, diversamente, lo usa per esprimere l'aridità d'animo e la cattiveria. Scopo di Loach è mettere in risalto non tanto la disumanità dei grandi poteri, quanto la sudditanza a tale regime attraverso gente comune, impiegati d’ufficio il cui unico vantaggio è lo sfoggio di una targhetta che alimenta il divario tra il cittadino denudato,svilito proprio da questi “poteri piccoli” e la disumanità di una legge che tanto ricorda il “processo kafkiano”.
Parimenti, tra un corso di aggiornamento professionale sulla scrittura di un efficace curriculum, il processo di comprensione di una digitalizzazione sofferta che coinvolge forzatamente Daniel, lui sempre abituato a “operare manualmente” non sapendo nemmeno come si utilizza un computer, il film segue parallelo il lento “declino” di Daisy che vorrebbe studiare all’università ma che per converso non ha nemmeno i soldi necessari al pranzo. Daniel le darà una mano a sistemare le faccende manuali di casa, lei dal canto suo gli restituirà quell’armonia perduta dopo la morte della moglie donandogli parte di quella serenità mai avuta con l’affetto dei suoi figli.
Tragico e amaro, questo film di Loach. Pur mantenendosi un film di finzione colpisce per la credibilità dirompente degli attori e per una sceneggiatura coinvolgente che senza remore, Io Daniel Blake torna alle condizioni descritte da Dickens nell’800, in un contesto sociale ahimè scottante di diseredati (forte e intimista la scena del centro alimentare) abbandonati da tutti e tutto. E’ un film amaro per l’annullamento di una società in cui dominano i tagli alla spesa sociale e i funzionari appaiono rigidi tutori sadicamente compiacenti ma al tempo stesso commovente per un riscatto sociale tradotto in un nulla di fatto che ribadirà la natura dell’identità, malgrado l’umiliazione e la perdita del lavoro, guadagnata e degna di questo nome.
Anche a sacrificio della vita.
[+] lascia un commento a eugenio »
[ - ] lascia un commento a eugenio »
|