Più che un horror, una versione al femminile di Io sono leggenda, Rod Blackhurst avrebbe voluto, forse, realizzare, un drammatico incentrato sui sensi di colpa di una madre, ma, indeciso tra i due generi, alla fine non riesce a collocare il suo Here alone in nessuno dei due e non porta a termine efficacemente né l’uno né l’altro film che aveva in mente.
Ciò che prevale sulla tensione, sulla recitazione e finanche sul plot, è la cura della fotografia, con lunghe ed insistite inquadrature dei boschi, del laghetto immerso nella vegetazione, della cascatella e del torrente, che rompono il ritmo narrativo e smorzano sul nascere la suspense, che dovrebbe costituire l’essenza di un film post apocalittico, ambientato in un mondo popolato da zombies affamati di carne umana.
Tutta la drammaticità della situazione, mancando quasi del tutto l’azione, si concentra sull’attrice protagonista, Lucy Walters, la sopravvissuta, che purtroppo risulta assolutamente incapace di esprimere la tragedia che ha vissuto e l’incubo ad occhi aperti in cui sta vivendo.
La sceneggiatura presenta delle falle macroscopiche. Alcuni dialoghi sono talmente incongruenti da apparire ridicoli, come quando l’uomo racconta che la moglie zombizzata ha tentato di scuoiare a mani nude la figlia, che però è lì presente e senza nemmeno un graffio, e non si riesce a capire perché gli zombies dovrebbero abitare un casale abbandonato ed ogni volta fermarsi davanti ad una rete di recinzione mentre rincorrono la protagonista che va a cercare cibo.
L’ultima sequenza, di un certo impatto emotivo, potrebbe risultare interessante, ma arriva troppo tardi per salvare lo spettatore dalla noia che lo ha assalito durante tutto il film, in cui non accade nulla o quasi, e, peraltro, inaspettata nella visione di un film di questo tipo.
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