ladruga
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giovedì 2 marzo 2017
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certe "barriere" non andrebbero abbattute
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Dai primi cinque minuti di film ho capito dove il caro vecchio Denzel Washington sarebbe andato a parare: con Barriere il suo intento è quello di proporre una "pièce cinematografica" che, in realtà, di cinematografico ha ben poco, dato che ogni aspetto, dalla regia alla recitazione, alla scenografia, alla sceneggiatura, rimane ancorato ai canoni del teatro e agli elementi che, ripeto, "a teatro", creano il tipico rapporto di empatia tra pubblico e attori che si muovono, live, sul palcoscenico.
Un simile lavoro di "trasposizione" è, in generale, sempre molto difficile e rischioso, specie se si affrontano tematiche già di per sé complesse e multisfaccettate come quelle dell'opera del 1987 firmata da August Wilson, vincitore del premio Pulitzer e già ripresa a Broadway in un omonimo musical.
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Dai primi cinque minuti di film ho capito dove il caro vecchio Denzel Washington sarebbe andato a parare: con Barriere il suo intento è quello di proporre una "pièce cinematografica" che, in realtà, di cinematografico ha ben poco, dato che ogni aspetto, dalla regia alla recitazione, alla scenografia, alla sceneggiatura, rimane ancorato ai canoni del teatro e agli elementi che, ripeto, "a teatro", creano il tipico rapporto di empatia tra pubblico e attori che si muovono, live, sul palcoscenico.
Un simile lavoro di "trasposizione" è, in generale, sempre molto difficile e rischioso, specie se si affrontano tematiche già di per sé complesse e multisfaccettate come quelle dell'opera del 1987 firmata da August Wilson, vincitore del premio Pulitzer e già ripresa a Broadway in un omonimo musical.
Ora, giuro che entrata al cinema con l'intento di vedere Barriere, spinta dalla vittoria agli Oscar di un'attrice che stimo molto, ossia Viola Davis, la sottoscritta non sapeva nulla della trama né dell'esistenza dell'opera teatrale di Wilson.
Fatto sta che più andavo avanti con la visione o, più che altro, con l'ascolto dei dialoghi e dei lunghissimi monologhi del protagonista Troy Maxon, più mi convincevo che il film che stavo vedendo non aveva ragion d'essere, o perlomeno, non in quella forma, in quei termini.
Mi sono d'un tratto resa conto di assistere più che ad un film ad una "ripresa teatrale", alla ripresa, cioè, di scene che, esattamente per come erano proposte, avrebbero dovuto essere rappresentate in un teatro piuttosto che in una sala cinematografica.
Washington, cioè, non si è per nulla sforzato di rielaborare il racconto in chiave cinematografica, lavoro a mio avviso essenziale affinché si possa affrontare il rischio di portare il teatro al cinema.
Il cinema è un altro linguaggio, di sicuro non coincidente con quello teatrale. A partire dalla sceneggiatura. In passato abbiamo assistito ad abili trasposizioni cinematografiche di opere teatrali (mi viene in mente Carnage) ma in quei casi guardando la pellicola si toccava con mano il lavoro di "riadattamento" (parola chiave di tutta questa storia) che giocoforza deve interessare la sceneggiatura, lo stile recitativo, la regia.
Lavoro che, in Barriere, appare pressocché inesistente. E più lo guardavo più mi arrabbiavo (in modo figurato) con Denzel Washington perché a mio avviso ha sprecato una grande opportunità. Con le risorse economiche giuste e una maggiore volontà di sperimentazione avrebbe potuto fare di questa pièce un film davvero di spessore ed emozionante. E invece no.
La regia è statica, con zero guizzi, i personaggi sono altrettanto statici, i dialoghi lunghissimi, resi quasi insostenibili da infiniti primi piani sui personaggi, la scenografia ancor più statica che si articola a malapena in 3 ambienti, la casa, il cortile e qualche rara e breve scena in città.
Ma la cosa che più di tutte mi ha lasciata amareggiata è stata che alcuni personaggi, che avrebbero potuto dare un apporto fondamentale alla storia, come quello di Alberta (chi ha visto il film ha capito) non sono per nulla presentati in scena, ma sappiamo della loro esistenza dai soli "racconti" di Troy.
Oppure ancora, l'azione di limita ad uno specifico periodo di tempo, quando invece si sarebbe potuto, attravero un prologo per esempio, indagare più a fondo sul passato di Troy e della moglie, i quali, sempre attraverso infiniti racconti, rivelano al pubblico di aver avuto dei passati familiari difficili.
Tutto questo l'ho trovato inaccettabile, soprattutto perché da uno come Denzel Washington, che non è propriamente l'ultima ruota del carro di Hollywood, mi aspettavo grandi cose, specie per questo film. Il risultato, invece, è stato per me disastroso: contavo i minuti che mi separavano dall'uscita dalla sala.
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loland10
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lunedì 27 febbraio 2017
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blue: la voce di una famiglia
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“Barriere” (Fences, 2016) è il terzo lungometraggio del regista-attore Denzel Washington.
Ecco come il teatro si immerge nel cinema e resta se stesso senza eccessivi movimenti di macchina e con una delicatezza di ripresa che quasi si erge a pulizia tra lo spettatore e l’adattamento della pièce di August Wilson (che, con , ha sceneggiato il suo testo).
Sequenza iniziale: un camion con due netturbini al lavori, de amici di vecchia data. E’ uno dei tanti venerdì quando Troy Maxson e Jim Bono tornano a casa dalle loro mogli. E Troy ‘ferma’ Jim per una chiacchierata serale.
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“Barriere” (Fences, 2016) è il terzo lungometraggio del regista-attore Denzel Washington.
Ecco come il teatro si immerge nel cinema e resta se stesso senza eccessivi movimenti di macchina e con una delicatezza di ripresa che quasi si erge a pulizia tra lo spettatore e l’adattamento della pièce di August Wilson (che, con , ha sceneggiato il suo testo).
Sequenza iniziale: un camion con due netturbini al lavori, de amici di vecchia data. E’ uno dei tanti venerdì quando Troy Maxson e Jim Bono tornano a casa dalle loro mogli. E Troy ‘ferma’ Jim per una chiacchierata serale. La casa, la vita anni cinquanta, una strada e i suoi ragazzi, una storia e i suoi vicini.
Denzel Washington barcolla sullo schermo con quello stile tra il gusto attoriale e il feticcio di se stesso, come il teatro che rappresenta o la messa in scena del suo corpo. Penzolante, volitivo, gradasso, inutile, appesantito, sottrattivo, magnetico e, alquanto, stantio. E’ un padre che rimescola agli altri per mai guardarsi: è il livore del nulla (in vita) e di una (qualsiasi) dipartita. Che resta oltre il cortile.
Mentore di un sogno americano impossibile, di una famiglia impietrita e di un’appartenenza sempre in prima fila. Tutto sembra inscalfibile. La Patria e il suo marine, la razza e la sua protezione, l’orchestra e la sua musica, il baseball e il football: tutto per non vincere mai. Il colore della pelle segna e chiude ogni strada: oltre le barriere e dentro le barriere.
“Quando finirai il tuo recinto comprerò il frigorifero a mia moglie’ dice Jim a Troy. E quando si chiude la recinzione arriva il vuoto dentro il cortile di casa mentre l’amico di sempre si ritrova a compiangere la sua casa (che non vediamo) vuota del ‘moderno’. Il loro gioco e la loro amicizia si chiudono dentro una sospesa conoscenza.
“Blue” sono i versi di Troy che ammoniscono ogni figlio e qualunque desiderio di volare: una profonda malinconia e una sconfitta certa. Il fratello di Troy trova allegria in un quadro familiare desolato e oppresso. Un film convulso e minimo, demente e minoritario. Un recita senza pubblico.
Finestra con cortile, scale sul retro, cortile con diatribe, ostacoli e perditempo, jazz e gioco: senza oasi e perditempo le parole del padre (padrone) sono ferree ma la vita nasconde un respiro mai domo.
Esplicito scontro, verbale e con le mani: tra Troy
Nullo, inconsistente, sedato, inorridito e morto: ecco che Troy non riesce a fare in vita quello che riesce dal cielo. Il destino di uomo burbero, pesante, ingombrante e salomonicamente fastidioso che riesce a far rimpiangere il suo esserci sempre e troppo.
Cortile come ritrovo e luogo da proteggere, recinzione di ogni destino, schemi imperscrutabili e disegni esterni mai trafitti: i figli sconosciuti e da rimproverare comunque. ‘Sì signore’ vuole il capo.
Esistenza ma doma, vivere fuori dal cortile, amare un’altra, una figlia che cerca qualcuno e una moglie che cerca i suoi figli. Tutto appare primo e dispari.
Scorre il destino dei Maxson, tra scadenze e regole, conflitti e illegittimi, monologhi e menzogne. Immaginiamo (forse) l’oltre della recita ma non si vede nulla. Il set non è mai sul ‘campo’: siamo fuori e lontani. Una pallina penzolante in cortile è la foto dei tempi in palco. Il recinto è ancora senza platea.
Sembra un film logorroico e opprimente, mentre (quasi all’opposto) è una storia di un vuoto finale prima dell’epilogo, della tristezza e di un sermone che all’unisono indicano plagio della vita e addio ad un sogno mai fatto (veramente). La(e) recinzione(i) sono uno sentiero per chiudere ogni atto di ripresa e per riaprire ogni atto successivo fino a che la fine di Troy non è fine per noi che aspettiamo risposte che arrivano solo in parte.
La prova di Denzel Washington (Troy) come quella di Viola Davis (Rose) sono degne di una prova teatrale all’aperto dove melò, retro-retorica, toni e gesti scaraventano, assiduamente, gusto per il racconto e manifesto segno del palco come ovazione di una vita in morte e di un sorriso infausto. La famiglia in essere è solo amore indigesto o meglio affetto rimasto solo nella perdita.
Regia ogivale, alleggerita e solo di sottrazione. Una carrellata finale (minima e avvolgente) schiude ogni parola da un padre in compagnia seduto sullo scalino in cortile. Una carrellata che è uno sguardo svanito al piccolo sentiero che va verso la via (datata) di una Pittsburgh (provinciale e leale).
Voto: 7½/10.
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fabiofeli
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sabato 4 marzo 2017
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il blues nelle scarpe
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Negli anni ’50 negli Stati Uniti gli afroamericani occupano gli ultimi gradini della scala sociale. Troy (Denzel Washington) è stufo di vuotare i bidoni della spazzatura assieme al suo amico Bono (Stephen Henderson) per l’azienda di igiene urbana per la quale lavorano. Possibile che nessun conducente dei camion sia un “coloured”? Inopinatamente la sua lamentela viene accolta e viene promosso autista, ma perde il contatto umano con i compagni di lavoro. Con Bono scambia confidenze scherzose e questi ha notato che Troy si è invaghito di una donna della middle class mettendo a repentaglio la sua unione con Rose (Viola Davis); con lei ha avuto il secondo figlio Cory (Jovan Adepo), un diciassettenne che sogna di sfondare nel football per entrare in un college universitario.
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Negli anni ’50 negli Stati Uniti gli afroamericani occupano gli ultimi gradini della scala sociale. Troy (Denzel Washington) è stufo di vuotare i bidoni della spazzatura assieme al suo amico Bono (Stephen Henderson) per l’azienda di igiene urbana per la quale lavorano. Possibile che nessun conducente dei camion sia un “coloured”? Inopinatamente la sua lamentela viene accolta e viene promosso autista, ma perde il contatto umano con i compagni di lavoro. Con Bono scambia confidenze scherzose e questi ha notato che Troy si è invaghito di una donna della middle class mettendo a repentaglio la sua unione con Rose (Viola Davis); con lei ha avuto il secondo figlio Cory (Jovan Adepo), un diciassettenne che sogna di sfondare nel football per entrare in un college universitario. Troy è stato campione nel baseball, ma anche in questo sport aveva subito la discriminazione per il colore della sua pelle e teme per Cory la stessa deludente sorte. Il suo primo figlio Lyons (Russel Hornby) cerca di diventare famoso con il jazz, ma è sempre senza il becco di un quattrino. Troy non ama il jazz: preferisce il blues ed è sempre in contrasto anche con Lyons, facendogli sudare i pochi dollari chiesti in prestito. Una vita non semplice, quella di Troy, impegnato nei momenti liberi a costruire lo steccato che vuole Rose per il giardinetto di casa. Ma è uno steccato per tenere fuori le persone o per chiuderle dentro? …
Il tema razziale del film fotografa i tempi in cui un afroamericano non poteva neanche sedersi su un autobus urbano ed anche le fontanelle nelle toilette erano separate per le persone di colore. Già negli anni ’50 le affermazioni sportive erano viste dagli afroamericani come l’unico mezzo per raggiungere una vita agiata e cresceva la voglia di diritti. Questo tema si salda con una certa efficacia con il conflitto tra i sessi e tra generazioni. Troy è un uomo intelligente e sensibile, ma non riesce a vedere l’egoismo dei suoi comportamenti: rivendica per sé uno spazio che non concede alla moglie ed al figlio; alza una barriera che impedisce l’accesso a chi pure ama. La recitazione di Denzel Washington è di valore e quella di Viola Davis è anche migliore, valorizzata dal ruolo drammatico che le ha valso il recente premio Oscar; i collaudati protagonisti dell’omonimo dramma teatrale hanno tenuto il cartellone a Broadway per più di un anno. Nonostante questo, a nostro avviso, la pellicola non attinge a livelli di assoluta eccellenza perché riflette troppo l’impianto teatrale dal quale è nata: più che cinema è teatro filmato, anche se resta un’opera da vedere.
Valutazione ***
FabioFeli
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[+] una parabola morale e sociale
(di antonio montefalcone)
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mauriziomeres
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domenica 5 marzo 2017
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il peccato dell'emarginazione
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Anni cinquanta,nella città di Pittsburgh in un quartiere dove vive solo gente di colore,si vive ai margini della società se così si vuole chiamare,tutto è fatiscente,il lavoro per quel poco che c'è significa emergere da un torpore esistenziale,soldi pochi ma la dignità e al di sopra di tutto,l'emarginazione si vede in tutto e quasi l'isolamento completo,ma soprattutto diventa nella mentalità di chi la subisce quasi una rassegnazione,che purtroppo vuole essere tramandata anche nella generazioni future,le giornate diventano per i più giovani lezioni di sopportazione e rassegnazione,questo peccato umanitario sarà incancellabile,non ci sarà mai una redenzione,non può un peccato essere cancellato da un'altro peccato.
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Anni cinquanta,nella città di Pittsburgh in un quartiere dove vive solo gente di colore,si vive ai margini della società se così si vuole chiamare,tutto è fatiscente,il lavoro per quel poco che c'è significa emergere da un torpore esistenziale,soldi pochi ma la dignità e al di sopra di tutto,l'emarginazione si vede in tutto e quasi l'isolamento completo,ma soprattutto diventa nella mentalità di chi la subisce quasi una rassegnazione,che purtroppo vuole essere tramandata anche nella generazioni future,le giornate diventano per i più giovani lezioni di sopportazione e rassegnazione,questo peccato umanitario sarà incancellabile,non ci sarà mai una redenzione,non può un peccato essere cancellato da un'altro peccato.
Il racconto si sviluppa su Troy,netturbino contento del suo lavoro,una moglie,due figli con mentalità aperte che cercano di emergere ma uno solo riesce ,un amante e tutta una vita di tribolazioni e umiliazione,tradisce la moglie e diventa padre per la terza volta di una splendida bambina ,tre figli con tre mogli diverse,diventa quasi un paradosso ma non lo è,perché è nella sua indole generazionale,anche il padre era di facili conquiste.
Denzel Washington è il grande ed irresistibile mattatore,con una interpretazione teatrale per più di metà film diventa un suo monologo,detta i tempi di quasi tutte le scene,la sua disinvoltura e la grande capacità di recitazione attraverso i suoi unici sguardi,sono le sue più grandi doti,essendo anche il regista si può capire il perché della concentrazione recitativa sul suo personaggio,ritengo ben riuscita.
Stupenda interpretazione del premio Oscar Viola Davis,impeccabile.
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elgatoloco
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venerdì 29 settembre 2017
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grande film teatrale
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"Fences"di Denzel Washington(2016), trasposizione del dramma di August Wilson (scritto 33 anni prima) è in qualche modo un film perfetto, nel senso dell'"Ontologie du cinéma"di André Bazin. In effetti , appunto in coerenza con quanto affermato, il film di Washington non nega mai, anzi dichiara la propria origine teatrale, esibendola: scene nel giardino, in casa, pochissimi esterni ma tutti assolutamente coerenti con la scena teatrale, assolutamente afferenti alla stessa. Nella migliore tradizione del "film teatrale"(pensiamo a"A Streetcar named desire"di Elia Kazan dall'assolutamente formidabile omonimo dramma di Tennesse Williams, ma anche ai film shakespeariani di autori come Orson Welles, Tony RIchardson, Franco Zeffirelli, Lawrence Olivier, Tom Stoppard, Kenneth Branagh etc.
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"Fences"di Denzel Washington(2016), trasposizione del dramma di August Wilson (scritto 33 anni prima) è in qualche modo un film perfetto, nel senso dell'"Ontologie du cinéma"di André Bazin. In effetti , appunto in coerenza con quanto affermato, il film di Washington non nega mai, anzi dichiara la propria origine teatrale, esibendola: scene nel giardino, in casa, pochissimi esterni ma tutti assolutamente coerenti con la scena teatrale, assolutamente afferenti alla stessa. Nella migliore tradizione del "film teatrale"(pensiamo a"A Streetcar named desire"di Elia Kazan dall'assolutamente formidabile omonimo dramma di Tennesse Williams, ma anche ai film shakespeariani di autori come Orson Welles, Tony RIchardson, Franco Zeffirelli, Lawrence Olivier, Tom Stoppard, Kenneth Branagh etc.. Nessun orpello"accattivante", nessuna zeppa, ma l'essenziale, incentrato soprattutto(oltre che sul blues e il baseball, temi forti del dramma e del film, ovviamente, oltre all'amore, al sesso, alla morte, semb) sulla recitazione e l'interpretazione, con Washington e Viola Davis che danno una straordinaria"prova d'attore"(e attrice, ça va de soi...), Stephen Hendersohn, l'amico mulatto che era"thera di rientrare in Bataille e in Marcuse, comunque non ne siamo molto lontani...), other"già ne dramma di Wilson, ossia era Wilson stesso trasposto in scena non come protagonista ma come"secondo", confidente, amico etc.. Una sfida importante che Washington vince senza problemi, potremmo dire, coronando il sogno di una vita, potremmo dire senza troppo timore di essere smentiti. El Gato
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aldiquadeisogni
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mercoledì 12 aprile 2017
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l'unica vera barriera è in noi
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...la storia di quest' uomo è la storia di ciascuno di noi... Celate dietro il lieve velo delle discriminazioni palpitanti, ancora vivide nel dopoguerra di metà secolo scorso, questo film parla delle BARRIERE che ognuno di noi costruisce fuori e dentro di sé, mentre percorre i contorti viali della propria vita. Non valuteremo né gidicheremo la qualità dell'interpretazione dei due protagonisti Viola Davis e Denzel Washington, poiché non "interpretano" i personaggi principali del Film, essi VIVONO letteralmente le vite di questi ultimi; ne assimilano le emozioni ed i sentimenti rendendoli propri ed esternandoli a noi con tutta la loro fragilità e con le paure dalle quali essi rifuggono. Il fatto è che ciascuno di noi ritroverà qualcosa di sé in quei sorrisi, nelle risate, nella sofferenza.
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...la storia di quest' uomo è la storia di ciascuno di noi... Celate dietro il lieve velo delle discriminazioni palpitanti, ancora vivide nel dopoguerra di metà secolo scorso, questo film parla delle BARRIERE che ognuno di noi costruisce fuori e dentro di sé, mentre percorre i contorti viali della propria vita. Non valuteremo né gidicheremo la qualità dell'interpretazione dei due protagonisti Viola Davis e Denzel Washington, poiché non "interpretano" i personaggi principali del Film, essi VIVONO letteralmente le vite di questi ultimi; ne assimilano le emozioni ed i sentimenti rendendoli propri ed esternandoli a noi con tutta la loro fragilità e con le paure dalle quali essi rifuggono. Il fatto è che ciascuno di noi ritroverà qualcosa di sé in quei sorrisi, nelle risate, nella sofferenza...nelle vite descritte così magistralmente dallo stesso regista, ancora lui...Denzel Washington. Il fatto è che questo film ci costringe a chiedere a noi stessi quanti e quali comportamenti siano stati davvero giusti, inevitabili o errati, nella nostra vita, e se l'amore, il vero amore, quello che si prova per un figlio, ad esempio, possa davvero giustificare la sofferenza che spesso generiamo negli altri, col pretesto di aver agito per il loro bene o in nome dei sentimenti che proviamo verso chi abbiamo al nostro fianco... Spesso ignoriamo però, accecati da noi stessi, più o meno inconsciamente, che dietro tutto ciò, può nascondersi un narcisistico senso di egoismo, l'amor proprio, il bisogno di attestare sé stessi dinanzi al cospetto del mondo e che, tutto ciò si traduce in un irrefrenabile "desiderio di evasione, di libertà..."nella ricerca sfrenata della felicità, di qualcosa o di qualcuno che invece abbiamo già accanto e di cui, ci accorgiamo solo quando ormai può essere troppo tardi. È la morte a donarci la serenità ricercata, quella pace a cui da sempre abbiamo anelato nel corso della nostra esistenza... Sarà solo la morte a renderci felici, se non avremo imparato ad amare gli altri con maggiore altruismo, comprendendo che le vite di chi ci sta a cuore...NON CI APPARTENGONO. Nel momento in cui riusciremo a lasciar percorrere ai nostri cari le proprie strade, con le difficoltà e le cadute che ne conseguono, liberi da ogni vincolo e costrizione, bhé...in quello stesso momento essi avranno amato, ricambiati per davvero e saranno divenuti Nostri, per Sempre. (AdQdS) By F.
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vanessa zarastro
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venerdì 29 settembre 2017
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come un blues
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Barriere è un film intenso, molto parlato, ben recitato ma irrimediabilmente teatrale. Infatti, il film è tratto dall’opera teatrale Fences di August Wilson, uno dei maggiori autori del teatro afroamericano e vincitore per quest’opera del premio Pulitzer del 1983. Denzel Washington è l’interprete maschile principale e, per la terza volta anche alla regia e Viola Davis è sua moglie Rose che vince anche l’Oscar per la sua interpretazione.
Tutto si svolge negli anni ’50 nel giardino della modesta casa Maxson nell’Hill District, il quartiere nero dove è cresciuto anche August Wilson, di Pittsburgh, la famosa “Smoky ol’ Town” cantata da Pete Seeger, città simbolo delle acciaierie e delle fabbriche del secolo scorso.
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Barriere è un film intenso, molto parlato, ben recitato ma irrimediabilmente teatrale. Infatti, il film è tratto dall’opera teatrale Fences di August Wilson, uno dei maggiori autori del teatro afroamericano e vincitore per quest’opera del premio Pulitzer del 1983. Denzel Washington è l’interprete maschile principale e, per la terza volta anche alla regia e Viola Davis è sua moglie Rose che vince anche l’Oscar per la sua interpretazione.
Tutto si svolge negli anni ’50 nel giardino della modesta casa Maxson nell’Hill District, il quartiere nero dove è cresciuto anche August Wilson, di Pittsburgh, la famosa “Smoky ol’ Town” cantata da Pete Seeger, città simbolo delle acciaierie e delle fabbriche del secolo scorso. Lì Troy ha appeso una palla di baseball a un albero. Era stato un ottimo giocatore ma per questioni razziali aveva dovuto giocare in una squadra secondaria nella Negro League. Ha lavorato e lavora ancora come netturbino per il Comune insieme a Jim Bono che è il suo unico amico e con cui ogni tanto si fa qualche bevuta (di troppo). Troy Maxson è un uomo onesto che tutti i venerdì consegna la sua paga alla moglie. Il fratello Gabe, a causa della guerra, non ci sta più con la testa e Troy si prende cura di lui cercando di tenere in piedi tutta la sua famiglia, anche se in modo un po’ troppo autoritario. Troy e Rose sono, infatti, i genitori di Cory e Gabriel, mentre suo figlio Lyons è nato da una relazione precedente. I figli hanno fatto scelte diverse da ciò che lui avrebbe voluto: Lyons suona ed ha una sua band mentre Cory vorrebbe giocare professionalmente a football. A entrambi Troy cerca di imporre il lavoro fisso come modello dell’unico modo di guadagnare onestamente e star lontano dai guai.
Dopo diciotto anni di duro lavoro e matrimonio felice, Troy comunica alla moglie di aspettare un figlio da Alberta, una trentenne con cui da un po’ di tempo ha un rapporto. Ciò fa scatenare una inequivocabile ribellione nei componenti della famiglia a cominciare, ovviamente dalla moglie tradita, e perderà perciò il rispetto dei figli. Cory se ne andrà di casa dopo un litigio furibondo con il padre e si arruolerà nella Marina. L’Alberta successivamente morirà dando alla luce una bambina che Troy chiederà a Rose di crescere. Lei lo farà con grande amore e generosità, ma contemporaneamente allontanando per sempre dal suo cuore Troy.
Questa in sintesi tutta la storia narrata: splendidi sono i monologhi di Rose sul senso dell’amore e del matrimonio e degni di nota gli animati scambi di opinione tra il padre e i suoi figli. Il film mostra il cambiamento sostanziale nel rapporto tra genitori e figli e nel lento inserimento dei neri nel sociale. Troy e Rose diventano il simbolo di due persone che, per trovare una seppur modesta sicurezza sociale, rinunciano alle proprie personali aspirazioni. Denzel Washington propone una regia minimalista a servizio del testo come un blues, e al posto di Viola Davis sembra di vedere Billie Holiday con la sua immancabile gardenia bianca tra i capelli.
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ilcritico89
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lunedì 6 marzo 2017
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interpretazione da oscar ma...
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Purtroppo e a malincuore più di 3 stelle non posso dare a questo film.
Se da un lato l'interpretazione degli attori come Washington e la Davis sono da Oscar dall'altro lato il film è un pò troppo lento con alcuni dialoghi portati troppo per le lunghe.
La storia è ambientata negli anni 50 degli Stati Uniti ma le tematiche trattate come discriminazione,famiglia,lavoro e rapporti padre-figlio ecc... sono anche di attualità non solo in America.
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nalipa
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martedì 25 aprile 2017
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troppo teatrale e poi
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Il regista e protagonista mi e' parso un po' troppo sopra le righe .
Ora dire che si tratta di un brutto film sarebbe un peccato, ma non e' nemmeno un capolavoro. La vicenda del razzismo gia' molto portata al cinema interessa sempre ma .....
Le storie scritte per il teatro ..portarle al cinema non sempre si rivela una scelta felice.
Gli attori ottimi ma il film ... molto pesante!
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carloalberto
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martedì 6 ottobre 2020
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la questione razziale non merita questo
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Trasposizione cinematografica claustrofobica di una piece teatrale. Il film è girato quasi tutto nel piccolo giardino sul retro di una villetta, realizzato ad uso e consumo della performance attoriale drammatica di Denzel Washington, che se la canta e se la suona autoproducendosi e autodirigendosi. I ripetuti, insistenti, compiaciuti primi piano uniti alla prorompente e irrefrenabile logorroicità del protagonista, soprattutto nell’interminabile monologo iniziale, che il doppiatore Pannofino, con tono di voce monocorde e stucchevole, non fa nulla per rendere meno noioso, risultano al limite della sopportabilità.
Il testo di un acclamato e pluripremiato drammaturgo afroamericano, August Wilson, grondante retorica e pietismo da ogni parte, finisce per sotterrare la tematica centrale, che dovrebbe essere quella delle barriere razziali, che hanno impedito al protagonista di emergere nello sport nel quale eccelleva da giovane, sotto una caterva di situazioni drammatiche che lo coinvolgono, dal fratello handicappato, per colpa di una scheggia che gli si è conficcata in testa durante la guerra, al figlio disoccupato che lo va a trovare soltanto per spillargli qualche dollaro, fino all’amante che muore durante il parto.
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Trasposizione cinematografica claustrofobica di una piece teatrale. Il film è girato quasi tutto nel piccolo giardino sul retro di una villetta, realizzato ad uso e consumo della performance attoriale drammatica di Denzel Washington, che se la canta e se la suona autoproducendosi e autodirigendosi. I ripetuti, insistenti, compiaciuti primi piano uniti alla prorompente e irrefrenabile logorroicità del protagonista, soprattutto nell’interminabile monologo iniziale, che il doppiatore Pannofino, con tono di voce monocorde e stucchevole, non fa nulla per rendere meno noioso, risultano al limite della sopportabilità.
Il testo di un acclamato e pluripremiato drammaturgo afroamericano, August Wilson, grondante retorica e pietismo da ogni parte, finisce per sotterrare la tematica centrale, che dovrebbe essere quella delle barriere razziali, che hanno impedito al protagonista di emergere nello sport nel quale eccelleva da giovane, sotto una caterva di situazioni drammatiche che lo coinvolgono, dal fratello handicappato, per colpa di una scheggia che gli si è conficcata in testa durante la guerra, al figlio disoccupato che lo va a trovare soltanto per spillargli qualche dollaro, fino all’amante che muore durante il parto. Per non parlare del suo vissuto tragico, la fuga da casa a 14 anni a causa di un padre violento, trascorsi di vagabondaggio e di rapine e, dulcis in fundo, il carcere duro per un omicidio. Non mancano spunti shakespeariani con dialoghi immaginari del netturbino di colore addirittura con la Morte.
Il finale strappalacrime, coi fratellastri che cantano la canzonetta stonata che amava canticchiare il padre, appena defunto, ovviamente, nel giardinetto dietro casa mentre si allenava con una mazza da baseball, completa il quadro.
Il cast dignitoso, con Viola Davis, nella parte della moglie, premiata con l’Oscar quale migliore attrice non protagonista, non è sufficiente, tuttavia, a risollevare le sorti di una pellicola che sconta l’errore di aver messo in scena un soggetto, intriso di un sentimentalismo melenso e autocommiserativo, che non soltanto non rende giustizia alla causa dei neri in America, ma anzi denota un’inconscia omologazione alla cultura popolare bianca riproponendo i tipici topoi hollywoodiani dei buoni sentimenti e dei valori familiari che alla fine prevalgono sul male.
La questione razziale non merita questo.
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d'accordo? |
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