Ave, Cesare!

Si può parlare male dei fratelli Coen?
In realtà non posso dire che il film non mi sia piaciuto, come neanche che mi sia piaciuto.
Ci sono delle scene indovinate, altre francamente noiose, per cui la media inglese finale è un pareggio stentato.
La domanda che suscita in prima istanza è perché si realizza un film. A chi serve, a cosa mira, se si debba concentrare sull’intrattenimento oppure se debba “cambiare qualche testa”, come sostiene uno protagonisti, nel gruppo degli sceneggiatori anti capitalisti. È una questione che finisce per coinvolgere lo stesso film, non si capisce per chi o per cosa sia stato messo in scena questo strampalato racconto, che richiama in molti punti il mitico “Helzappoppin”. Viene il dubbio che i fratelli Coen si siano divertiti a girare esagerate scene interminabili, come il balletto dei marinai, solo per il proprio personale piacere più che per trasmettere un messaggio originale. È evidente che si tratti di un omaggio ai gloriosi tempi delle grandi produzioni cinematografiche, nel bene e nel male. Si respira infatti, la nostalgia per un cinema patinato fuori e vuoto dentro, per la leggiadra nuotatrice che fa rima con meretrice, per l’acrobatico cow boy capace di cantare ma incapace di parlare, incapace di insomma, per un mondo realmente finto.
Il tutto affastellato su sterminate scenografie di produzioni sempre all’opera, come l’instancabile eroe della pellicola, in un vorticoso saccheggio di qualunque idea che possa essere filmata, senza fermarsi nemmeno davanti al figlio di Dio.
Esiste un limite o almeno qualche regola da rispettare perché un film possa chiamarsi tale? Qual è la parte che siamo chiamati a recitare? Dobbiamo inchinarci davanti al genio dei fratelli registi come spettatori deliziati, forse ammaestrati, oppure stracciare il velo delle loro sontuose scenografie e scoprire il vuoto che c’è dietro? Nel primo caso ci piegheremmo alla dinamiche hollywoodiane, denunciate proprio nel loro film, plaudendo alle meraviglie della loro inventiva. Quindi forse conviene considerare la seconda ipotesi, senza per questo rischiare di finire fra le fila di chi si ribella ottusamente al sistema, buttando in mare quanto di buono se ne può ricavare.
In conclusione si può dire che è un film modesto eppure eccessivo, che riempie di simpatiche citazioni le carenze della sceneggiatura, che porta gli spettatori a spasso nel fantastico mondo della vecchia Hollywood come allocchi su di un autobus per turisti. Con un po’ di buona volontà ci si può divertire, ma rimane la vaga sensazione di fondo di essere stati presi in giro, come se in realtà lo spettacolo fossero le facce perplesse di chi guarda il film in attesa di qualcosa che non succede. Come l’ultima battuta chiave del film "Ave, Cesare", che sul più bello il grande attore dimentica.

Elettra Fracco