Come ho già ampiamente spiegato in altre recensioni, è sbalorditivo quanto l'America del 2016 sia tutt'oggi ancorata alla retorica dell'eroismo a stelle e strisce, come si compiaccia di tenere alta la bandiera di questo mito vivente dell'eroe americano che si sacrifica per la sua nazione ed è pronto a tutto pur di difenderla da vere o presunte minaccie. Il patriottismo americano è una componente che forse non perderà mai del tutto il suo fascino, sopratutto non quando si tratta di confezionare pellicole come questa, che trattano di soldati, marine, navy seal o qualsiasi altra divisione militare e paramilitare made in USA.
Ecco allora che non ci stupisce trovare in 13 Hours tutti gli elementi già descritti dal utente minleo: testosterone a profusione, muscoli super palestrati, uno spiccato senso di patriottismo unito a coraggio e disprezzo della morte (ma anche della vita umana) e un amore incondizionato per gli ambienti bellici, le situazioni di pericolo, l'artiglieria pesante che supera quello per le proprie famiglie che li attendono indietro. Di come questa passione possa diventare una fonte di assuefazione se ne parla soltanto alla fine, con uno scambio di battute tra Rone e Jack, i due principali protagonisti, ma il film di Bay non ha le intenzioni o la forza narrativa della Bigelow in The Hurt Locker e nemmeno il palese messaggio antibellico sulla dipendenza che la guerra può creare in questi individui; un messaggio che poi verrà ribadito da Clint Eastwood nel suo finissimo ma controverso American Sniper.
Bay, pare mettere da parte le importanti considerazioni etico-morali sugli effetti della guerra in questi veterani che continuano a cercare il rischio e il pericolo, intrappolati mentalmente in un limbo che non gli consente più di frenarsi davanti alla necessità di ripartire in missione. Ecco dunque che il regista mette in scena un serratissimo action movie (che a tratti ricorda il più riuscito Act of Valor del 2012), con personaggi abbastanza stereotipati ma funzionali al racconto, puntando il tutto sulla spettacolarizzazione delle scene d'assalto, nello scontro tra 'noi' e 'loro', tra i buoni e i cattivi come semplicisticamente ribadiscono i personaggi principali.
Certamente non manca una buona resa, realistica e tragica, della realtà libica post-Gheddafi: quella d'una nazione frantumata, piegata da una guerra civile che si dispiega su tutto il territorio favorendo l'ascesa del gruppo terroristico più violento e temuto degli ultimi anni, l'ISIS.
Tuttavia Bay non approfondisce mai questo aspetto sociale e prudentemente evita di addentrarsi nelle acque territoriali di un altro stato raccontando per conto loro l'aftermath post-Gheddafi. Soffermandosi dunque a raccontare nel modo più nitido e realistico possibile tutto ciò che gravita attorno ai suoi contractor giunti in Libia, nel pieno di una guerra civile, per aiutare in caso di pericolo l'ambasciatore USA. Collocati in una dependance a circa due km di distanza dalla casa del ambasciatore, insieme ad una ventina di agenti e dipendenti federali, si ritroveranno sotto attacco la notte dell'11 settembre e allora gli ex soldati saranno chiamati a resistere e difendere la dependance (e i suoi operatori) per 13 ore senza alcun altro aiuto, nè dai loro connazionali e nemmeno dai gruppi di ribelli locali, alleati, denominati 17 febbraio.
Ecco allora che il regista seguendo uno script e uno schema semplice e lineare, tipico dei film d'azione, riesce abilmente a mettere in piedi un buon prodotto di genere che intrattiene e si concede a qualche fugace momento di riflessione, pur senza snaturarsi o tentare di essere quello che non è. Ovviamente la caratterizzazione dei personaggi locali non è esente da stereotipi, tuttavia Bay riesce a schivare le critiche razziste dato che implementa personaggi locali positivi rappresentati dai 17 febbraio, gli agganci degli operatori e da Hamal, il quale è dichiaratamente un loro alleato, si presta ad aiutarli anche quando potrebbe farsi indietro e il suo personaggio si mantiene intransigente per tutta la durata del film. Ovviamente a questi personaggi manca un'adeguata caratterizzazione psicologica approfondita ma tutti i personaggi presenti risultano alquanto superficiali. Questi elementi comunque riscattano, almeno in parte, la rappresentazione tout-court degli 'altri' come cattivi a priori. Anche alla fine, Bay si concede a rappresentare la scena delle madri che piangono i loro figli, gli stessi che poche ore prima scambiavano colpi di arma da fuoco con i soldati americani. Questa è una scena simbolica che ristabilisce minimamente l'equilibrio e rievoca una sorta di umanità precedentemente sepolta sotto macerie, rpg e cadaveri provenienti da entrambe le schiere.
Rimanendo dunque fermi sul fatto che il cinema di Bay non è un cinema politico o sociale ma sensazionalistico e spettacolare, dove la trama e le considerazioni etiche lasciano il più spazio possibile all'immagine e all'azione, possiamo ammettere che Bay firma un buon prodotto intriso di autocelebrazione, di eroismo e coraggio a profusione, impersonificate dai maschi alfa, con una rappresentazione stereotipata ma non del tutto scontata dei suoi personaggi. Non è destinato a entrare nella storia ma rappresenta un buon action movie, con effetti speciali molto curati, che si colloca a testa alta tra gli altri film del genere. Potremmo dire che rappresenta tutto quello che stereotipicamente ci aspettiamo di vedere da una pellicola a stelle e strisce di serie b ma qui il tutto si amalgama e funziona alla perfezione risultando gradevole da seguire. Fermo restando che la retorica dell'eroismo soffoca questa storia vera, palesemente romanzata ai fini di renderla un appetibile prodotto d'azione. 2,5/5.
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