Nel respiro di una terra sconfinatamente dura sta il muto grido del redivivo. Ed è un’eco di dolorosa vendetta western quella che ci rimane conficcata come una lama nella carne. La determinata rivalsa in un duello che mai avvenne nella vera storia di Hugo Glass, protagonista del romanzo costruito nel 2002 da Michael Punke e dal quale è tratto il film di Alejandro González Iñarritu. Ma non importa la verità dell’esploratore che guidò la spedizione americana del 1823 negli sconosciuti territori di Montana, North Dakota e South Dakota.
Quel che conta è la verità di una storia trasposta sullo schermo dal regista messicano, il cuore insanguinato di un epico confronto tra l’uomo che è stato ferito (Hugo Glass / Leonardo DiCaprio) e l’uomo che ha tradito (John Ftizgerald / Tom Hardy). L’epicedio imbastito da chi non vuol morire come caposaldo di una ferina lotta degli uomini contro gli uomini (nell’uno contro uno, nello scontro di civiltà, nel fratricidio fra tribù indigene) e dell’uomo contro la natura.
Di un uomo che nei bianchi campi lunghi assume i contorni di un fantasma perduto; di un uomo che nel sanguinario agone contro la bestia diventa un corpo dilaniato, un corpo che il nostro sguardo fatica a sostenere mentre Glass lotta per rimanere aggrappato alla vita, mentre è lì con la faccia nel fango e un grizzly da tre quintali che gli frantuma la schiena.
Noi siamo lì con lui, giacché Iñarritu ci fa vivere un’esperienza che raramente si è potuta fare in una sala cinematografica, nemmeno con l’epocale 3D di Avatar. E ogni suo movimento dietro la macchina da presa è misurato, essenziale, ancestrale. Come il respiro che offusca ripetutamente la camera e che sale nel cielo del freddo Ovest per confondersi con le nuvole, pronte ogni volta a disegnare i tempestosi destini degli uomini. Almeno di uno in particolare: di quel Glass quasi ucciso dall’orso e sul quale rimangono a vegliare il figlio meticcio Hawk (Forrest Goodluck), il giovane Bridger (Will Poulter) e l’infido John Fitzgerald, che ammazzerà proprio Hawk davanti agli occhi impotenti del padre.
Così, Glass/DiCaprio giace abbandonato, solo, dimenticato eppure vivo. E deciso ad avere la sua vendetta. Così ha inizio il suo viaggio, e l’opporsi di due visioni della vita: da un parte i doveri, la dedizione, i legami famigliari di Glass; dall’altra l’egoismo, il cinismo, la mera volontà di sopravvivere di Fitzgerald. Ed è anche il nostro viaggio, un viaggio che compiamo sotto un cielo che sembra in perenne movimento, scrutando un orizzonte che pare infinito, nella fredda luce di un paesaggio sapientemente illuminato da Emmanuel Lubezki.
Scortati dal perpetuante gorgoglio dell’acqua che si accoppia col rantolo schiumoso di Hugo Glass, che fluisce ininterrotto coi sognanti bisbigli Pawnee di un amore annientato, che ci abbraccia insieme alle avvolgenti musiche di Alva Noto e Ryuichi Sakamoto, noi procediamo come fossimo corpi nudi tornati alle origini: da nutrire e scaldare. Procediamo nell’immensità di una natura ostile, dentro un film che misura ogni azione sulla bilancia della violenza: quella rancorosa dei locali Arikara contro le altre tribù; quella vergognosa dei francesi sulle donne locali; quella predatoria degli occidentali sulle genti del posto; infine, quella di un’atroce forza che sulla neve del West lascia strisce di sangue intrise di vendetta. La spietata vendetta di un redivivo, che guardandoci ci rimane attaccato alla pelle, come lembi di carne al midollo osseo di un animale svuotato.
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