Il figlio di Saul

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Un film di László Nemes. Con Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn, Todd Charmont.
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Titolo originale Saul Fia. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 107 min. - Ungheria 2015. - Teodora Film uscita giovedě 21 gennaio 2016. MYMONETRO Il figlio di Saul * * * * - valutazione media: 4,04 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Il sentimento paterno della pietŕ nella Shoah. Valutazione 5 stelle su cinque

di GreatSteven


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sabato 15 luglio 2017

 IL FIGLIO DI SAUL (UNG, 2015) diretto da LàSZLò NEMES. Interpretato da GéZA RöHRIG, LEVENTE MOLNAR, URS RECHN, SANDòR ZSòTER, TODD CHARMONT
Premiato con l’Oscar al migliore film straniero, eguale riconoscimento pareggiato col Golden Globe e il David di Donatello nella medesima categoria, insieme al Grand Prix de la Giurie a Cannes, è uno dei capolavori inconfutabili dell’ultimo decennio, un film di nicchia che ha usufruito d’un distributore indipendente e brilla di luce propria nella categoria cui appartiene, la pellicola storica di ambiente ebraico in piena Seconda Guerra Mondiale. Lo dirige Nemes, classe 1977, nato a Budapest, apprendistato a Parigi e New York e buona parte degli studi cinematografici spesa in Francia, il quale, dopo numerosi cortometraggi che fecero incetta di premi, è approdato col film in questione al lungometraggio. Storia di Saul Ausländer, Sonderkommando ungherese, incaricato di rubare dai cappotti degli israeliti gli effetti preziosi dopo che essi son stati denudati per fare la doccia nella camera a gas. (Il termine tedesco ritrae appunto il prigioniero nella condizione particolare di fare da aiutante e strumento volontario d’appoggio alle SS, che lo mantengono in vita soltanto per qualche mese per poi sterminarlo alla stregua degli omologhi deportati). Terminato un eccidio, un bambino rimane inspiegabilmente vivo. Il medico soffoca il suo respiro e lo sopprime. Saul, che non ha figli, finge di riconoscere nel giovanissimo defunto un figlio, ne trafuga il corpo e si mette a cercare un rabbino per dargli onorata sepoltura con esequie da celebrare. La sua ricerca è però molto difficoltosa, lo porta ad infrangere numerose regole sia all’interno che all’esterno del suo campo di concentramento (Auschwitz), lo fa spostare tra Birkenau e Biederman fra spalatori di cenere e ribelli in rivolta e gli costa specialmente tanto l’astio dei gerarchi nazisti quanto lo sdegno dei detenuti che mirano a sovvertire l’ordine costituendo preparando una protesta armata contro i crudeli carcerieri. Scovato il rabbino di cui necessita, Saul fugge dal campo di lavoro dopo aver pagato una donna ebrea addetta alla pulizia delle mense, ma perde il bambino infagottato mentre traversa il fiume fra una sponda e l’altra della foresta esterna, e muore durante una rastrellata ad opera delle SS accortesi della comitiva fuggiasca, causa un bambino biondo zittito all’istante cui rivolge il suo ultimo sorriso, eterna e pacifica manifestazione d’affetto per la generazione nuova costretta a subire orrori e barbarie indesiderati. La coppia Nemes-Röhrig è la carta vincente che fornisce la foltissima linfa vitale ad un’opera costituente un punto d’approdo e un mito da caposcuola che racconta un frammento arcinoto dell’evento storico da sempre più rappresentato al cinema, con lo sguardo disincantato di una sceneggiatura che denuncia la brutalità bellica andandola a colpire nella sua zona più labile: la sottomissione di un’intera razza. Non c’è pietà per i nazisti, beninteso, ma nemmeno, e questo anche un po’ inaspettatamente, compassione per il popolo semita: si cerca insomma di evitare i sentimentalismi (trappola sempre ricorrente, in tali frangenti) per narrare una storia non certo originale, ma ricca di un repertorio che ha ancora un bagaglio vasto cui attingere, e che viene svuotato con l’espletamento di numerosi significati profondi, dalla paternità simulata ai fini di sopravvivenza alla lotta organizzata con le armi per contrastare il dispotismo, dall’istituzione totale che giustifica la tirannia di chi si ritiene intellettualmente superiore al bisogno del cameratismo amichevole e virile allo scopo di fuggire un’ingiusta, reiterata prigionia senza scopo. Il regista adotta  lo stratagemma geniale di riprendere, per tre quarti della durata, il protagonista di spalle, mettendone bene in risalto il segno a croce rosso sulla casacca consunta, la nuca pelosa e il berretto macilento, mentre, quando viene inquadrato il suo viso, traspare a fiotti commoventi il suo smarrimento, unito ad un odio inveterato e ad una rabbia compressa. Elementi che gli danno l’acqua della vita, che forniscono al personaggio principale la ragion d’essere di perseverare in una missione che comunque ha già molti motivi di non andare in porto, ma che in effetti fallisce dopo che Saul s’è impegnato anima e corpo per trasgredire un regolamento intero (anzi, due) affinché il bimbo da lui salvato ottenga ciò che gli spetta cristianamente e umanamente. Apologo umanistico sul perché della guerra, funziona con meravigliosa potenza espressiva anche come racconto pessimistico sulla condizione umana: Saul, insieme al compagno connazionale Abraham, altro personaggio descritto e recitato con puntigliosa dovizia ed eccellente rigore stilistico, è un prigioniero involontario che si presta ad appoggiare i suoi feroci detrattori ritagliandosi due mesi in più di vita prima di esser passato a sua volta per le armi, ma non asseconda ciò che gli suggerisce la sua condizione per combattere con obiettivi da raggiungere ben precisi e delineati. Un brandello significativo nel quadro del cinema d’autore di stampo nazionale, il che fa onore all’Ungheria e trasporta Nemes nell’albo dei cineasti ormai non più emergenti e che meritano l’attenzione della critica, non tanto quella (inutile) dei mass media. Una scenografia che sa ritrarre con crudo realismo le stanze buie, fredde e sporche del peggior luogo di dolore della Storia umana, assieme alla natura incontaminata e accogliente, ma fino a un certo punto, che ne circonda il perimetro esteriore. Se abbinati, divengono entrambi una pietosa caverna di raccoglimento in cui sofferenza e disperazione si tramutano in ragioni inequivocabili per sollevarsi dal fango, rifiutarsi di spalare nel torrente la cenere di coloro che son stati appena bruciati nei forni crematori e ribadire la propria inalienabile umanità di fronte alle urla, alle botte, ai fucili puntati. Saul doppiato da Stefano Santerini, Abraham da Andrea Lavagnino. Centotré minuti di ammirevole e spietato spettacolo da gustare in sala per poi ripetere l’esperienza una seconda volta col lettore DVD a casa. 

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