enrico danelli
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sabato 10 ottobre 2015
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sangue del mio sangue
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La valenza del film già sarebbe enorme se ci si chiudesse nel solo microcosmo della storia raccontata. Se poi si allarga l'esemplarità della vicenda appena e non oltre il fenomeno sociale sottostante si trovano infiniti spunti di discussione, nonostante la umiltà degli autori che non divagano mai e nella breve durata del film cercano di circoscrivere la tematica trattata a quell'aspetto ben specifico che è la influenza culturale dei padri e delle madri sui figli. Con un ulteriore sforzo tuttavia si riesce a cogliere una valenza universale (di certo non limitata alla sola Calabria) e cioè la analisi e la inevitabile condanna di una patologica degenerazione del rapporto genitori figli, per cui i secondi diventano obbligatoriamente un clone dei primi secondo un percorso evolutivo obbligato in un mondo sclerotizzato che è capace solo di replicare se stesso.
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La valenza del film già sarebbe enorme se ci si chiudesse nel solo microcosmo della storia raccontata. Se poi si allarga l'esemplarità della vicenda appena e non oltre il fenomeno sociale sottostante si trovano infiniti spunti di discussione, nonostante la umiltà degli autori che non divagano mai e nella breve durata del film cercano di circoscrivere la tematica trattata a quell'aspetto ben specifico che è la influenza culturale dei padri e delle madri sui figli. Con un ulteriore sforzo tuttavia si riesce a cogliere una valenza universale (di certo non limitata alla sola Calabria) e cioè la analisi e la inevitabile condanna di una patologica degenerazione del rapporto genitori figli, per cui i secondi diventano obbligatoriamente un clone dei primi secondo un percorso evolutivo obbligato in un mondo sclerotizzato che è capace solo di replicare se stesso. E questo, appunto, non accade solo in Calabria. Non esiste nel film una analisi delle cause del fenomeno "giudiziario" : la politica deviata e connivente, la disoccupazione, il degrado del meridione e tutto il resto della solita litania nel film non esiste, facendo con ciò acquisire maggior evidenza all'unico aspetto che il film tratta, cioè l'eredità culturale (deviata) tramandata nei secoli da padre (e madre) in figlio. Attraverso gli occhi di un magistrato (la bravissima e bellissima Valeria Solarino) lo spettatore entra nella piaga ("No, non abbiamo perso. Siamo entrati nella piaga"). Il messaggio di speranza che il film vuole lanciare è tuttavia (volutamente ?) abbastanza debole: la conversione di una delle donne malavitose non avviene. La collaborazione con il magistrato è solo imposta dal desiderio di riottenere il figlio. Gli effetti del distacco del figlio stesso dai genitori non sono raccontati. Per il resto, recitazioni intense da parte di tutti. Solarino molto credibile sia nei panni del magistrato di ferro (nei colloqui con gli indagati esprime una forza e durezza inaspettate per poi, una volta, lasciarsi andare in un abbraccio inverosimile, ma fortemente simbolico) sia nei panni della donna tormentata da mille dubbi umani ed etici sulle azioni da intraprendere. Ritmi serrati. Qualche sottotitolo nei passaggi di dialetto più stretto, avrebbe giovato alla comprensione, ma avrebbe reso meno aspro il film, cosa che probabilmente non era voluta dagli autori. Socialmente: da verificare. Artisticamente : memorabile.
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fabio_66
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mercoledì 20 aprile 2016
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gran bel film
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Gran bel soggetto da giocare, originale vedere la mafia calabrese da un punto di vista, quello di una donna, moglie e madre di mafia. E sì, la vera protagonista è Daniela Marra, praticamente esordiente dopo molto teatro. Da donna del sud ci fa entrare nella mentalità famlistica che alimenta la mafia, un ruolo tragico perfettamente interpretato. Sceneggiatura molto curata, fine, parole e sguardi soppesati una per una; non ricordo di aver visto qualcosa fuori posto, di troppo. La Solarino a suo agio nel ruolo del giudice in bilico difficile da reggere fra eleganza e antipatia. Ottima anche Lorenza Indovina nel ruolo della "cattiva", uno sguardo tragico e vuoto non semplice da interpretare.
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Gran bel soggetto da giocare, originale vedere la mafia calabrese da un punto di vista, quello di una donna, moglie e madre di mafia. E sì, la vera protagonista è Daniela Marra, praticamente esordiente dopo molto teatro. Da donna del sud ci fa entrare nella mentalità famlistica che alimenta la mafia, un ruolo tragico perfettamente interpretato. Sceneggiatura molto curata, fine, parole e sguardi soppesati una per una; non ricordo di aver visto qualcosa fuori posto, di troppo. La Solarino a suo agio nel ruolo del giudice in bilico difficile da reggere fra eleganza e antipatia. Ottima anche Lorenza Indovina nel ruolo della "cattiva", uno sguardo tragico e vuoto non semplice da interpretare.
Certamente film a basso budget (lo si vede da attori bravissimi ma quasi sconosciuti, dai costumi, la scenografia ecc.) che non poteva ambire a chissà quali riconoscimenti da botteghino, ma che durerà nel tempo come tutte le cose ben fatte. Una produzione indipendente che questa volta è riuscita a sopperire alla mancanza di budget e di distribuzione con un ottimo mestiere da parte di tutti.
Una notazione sulla fotografia che personalmente non ha convinto; la scelta registica è stata una sottrazione di colore quasi un bianco e nero a sottolineare il grigio delle anime. Non mi convince, un film è tante cose ed è, anche, un fatto estetico; lo spettatore deve non solo poter dire "interessante", "bravo", "perfetto", ecc. ma anche "bello". Rimane un gran bel film! Ne aspettiamo presto un altro.
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carloalberto
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martedì 12 gennaio 2021
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il dramma dietro i fatti di cronaca
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Un’opera interessante di Fernando Muraca che lascia aperta la strada ad una produzione futura più matura e completa. Il film sembra avere il carattere di un cortometraggio o meglio di più corti assemblati, in cui i personaggi sono tratteggiati per avere una vita breve e non idonea allo sviluppo complesso di un lungometraggio, rimanendo in sospeso, come se attendessero, statue appena abbozzate, di essere rifinite. Tuttavia il fascino del film sta proprio in questa sua indefinitezza e nonostante l’impostazione da film Tv, dovuta forse all’influenza delle pregresse esperienze professionali del regista, ed il cast, seppur ottimo, adatto più alle fiction, in cui spicca Ninni Bruschetta, un attore teatrale, televisivo e cinematografico serio e versatile, che meriterebbe, oramai giunto all’apice della carriera, un ruolo diverso da quello dell’eterno comprimario, La terra dei santi riesce perfettamente nella resa drammatica di un ambiente, quello ostico, asfittico ed omertoso della ‘ndrangheta calabrese, soprattutto grazie all’interpretazione delle due donne di mafia, Lorenza Indovina e Daniela Marra, rispettivamente nel ruolo della complice degli affari sporchi di famiglia ed in quello di ostaggio-vittima di un sistema criminale.
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Un’opera interessante di Fernando Muraca che lascia aperta la strada ad una produzione futura più matura e completa. Il film sembra avere il carattere di un cortometraggio o meglio di più corti assemblati, in cui i personaggi sono tratteggiati per avere una vita breve e non idonea allo sviluppo complesso di un lungometraggio, rimanendo in sospeso, come se attendessero, statue appena abbozzate, di essere rifinite. Tuttavia il fascino del film sta proprio in questa sua indefinitezza e nonostante l’impostazione da film Tv, dovuta forse all’influenza delle pregresse esperienze professionali del regista, ed il cast, seppur ottimo, adatto più alle fiction, in cui spicca Ninni Bruschetta, un attore teatrale, televisivo e cinematografico serio e versatile, che meriterebbe, oramai giunto all’apice della carriera, un ruolo diverso da quello dell’eterno comprimario, La terra dei santi riesce perfettamente nella resa drammatica di un ambiente, quello ostico, asfittico ed omertoso della ‘ndrangheta calabrese, soprattutto grazie all’interpretazione delle due donne di mafia, Lorenza Indovina e Daniela Marra, rispettivamente nel ruolo della complice degli affari sporchi di famiglia ed in quello di ostaggio-vittima di un sistema criminale. Meno convincente l’interpretazione del giudice da parte della pur brava Valeria Solarino, che, nello sforzo di riprodurre realisticamente un vero magistrato al lavoro, appare un po’ troppo rigida ed inespressiva. Plauso finale ad uno dei pochi registi che affronta un tema difficile come quello della criminalità organizzata nei suoi risvolti umani, sepolti dai fatti di cronaca, ancora tutti da indagare e rappresentare artisticamente, rifuggendo dai facili successi delle commediole da cassetta, che affliggono purtroppo il cinema italiano contemporaneo.
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