Un’epica della terra, della famiglia, della casa ancestrale diventati realtà devastate e negate ne “La tierra y la sombra” di César Acevedo. Nel film la terra è quella della Valle del Cauca, in Bolivia, dove la monocultura latifondistica della canna da zucchero ha devastato il suolo azzerando le colture e i modi di vita tradizionali. Terra ormai grigia, piatta e polverosa sotto un cielo di piombo, percorsa dai fuochi e dalle ceneri degli incendi periodici delle stoppie, simbolo trasparente di una situazione globale di sfruttamento insensato e desertificazione avanzante. E l’ombra? Nel film l’ombra – a sua volta simbolo di un’altra natura, fatta di campi verdi, di frutteti, di uccelli, protettiva e consolatoria, è quella, assediata da tutte le parti, del grande albero frondoso sopravvissuto accanto ad una casa contadina, che una vecchia madre difende con le unghie e con i denti – contro ogni logica – dalla marea avanzante: rifugio fragilissimo di pace, di ricordi, di momenti ‘umani’ in un contesto disumano. Miti e archetipi della grande letteratura latino-americana tornano in questo film fatti cenere e morte: il padre, che da anni ha abbandonato la casa e torna in extremis dal figlio malato e dalla moglie, sente ancora la forza di quei valori che lo hanno riportato indietro, ma sa anche che il ritorno è inutile, che il figlio morirà soffocato da quei fumi velenosi, che l’unica soluzione sarà quella di raccogliere quel che resta della giovane generazione, la nuora, il nipote, e fuggire via, rinunciando alla lotta. La vecchia madre indomita sarà l’unica a restare, concentrando in sé il senso di una resistenza senza speranza. La resa filmica è particolare: in un vortice di polvere che percorre tutto il film, e che è l’unico vero ‘movimento’, la presenza umana ha un’astrazione teatrale, come un ‘a parte’ sulla scena (fortemente simbolica in questo senso la scena iniziale). I personaggi parlano pochissimo, interagiscono appena; l’azione è millimetrata, una serie di quadri giustapposti nella fissità del piano sequenza piuttosto che azione, la fotografia (ottima) fissa i dettagli, le pieghe dei volti, la spazzatura, la foglia impolverata, l’acqua della doccia che lava via il nero di una giornata di lavoro, gli spicchi di frutta che marciscono nell’attesa di uccelli che non scenderanno mai a beccarli. Uomini e donne appaiono messi all’angolo, inchiodati a una minimale resistenza per la sopravvivenza, ormai quasi senza voce. Da vedere (tre stelle e mezzo).
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