Woody Allen ce l’ha fatta ancora, inutile girarci attorno. I detrattori che vedevano un possibile declino del cineasta ottantenne che ci ha regalato pellicole indimenticabile hanno sbagliato ancora a considerare che i suoi film tendano a ripetersi, che i motivi siano sempre gli stessi, che le paranoie tra uomo e donna alla lunga stanchino.
Sì, può essere che ci sia un fondo di verità ma la sapienza di Allen in ogni sua trasposizione cinematografica è sempre quella: riuscire a trattare in oltre trentacinque commedie il tema esistenziale umano, il grumo di passioni che alberga nell’animo di ogni protagonista maschile e le peculiari conseguenze, spesso distruttive, che esse esercitano sul gentil sesso, circondato, amato o solo vagheggiato dal protagonista stesso.
I sentimentalismi in Allen non sono mai casuali, servono come pretesto per un’autocritica analitica della realtà, del contesto in cui l’essere umano, spinto da forze incontrollabili che non riesce mai a gestire, persegua azioni apparentemente inspiegabili lenitive solo per il suo animo tormentato.
La psicosi alla “Bergman” di Io e Annie, i rovinosi contraccolpi grotteschi del Dittatore dello stato libero di Bananas, o comici di Pallottole su Broadway, hanno lasciato spazio alle nevrosi dell’uomo contemporaneo, sposato con amante,spesso più giovane di lui al seguito, diviso tra l’egotismo e la sfrenata libido che lo spinge a relazioni “poco coniugali”. Ma Allen, oltre alla commedia, è stato capace di alternare i toni leggeri a quelli più noir, propri di un thriller. In questo contesto sono quindi nati i recenti Sogni e delitti o il famoso “delitto senza castigo” Match Point.
Riprendendo quel fortunato filone e seguendo un motivo dostojveskiano nella caratterizzazione nichilista del suo nuovo protagonista, il regista newyorkese realizza Irrational man, premiato all’ultimo festival del cinema di Cannes, un thriller appunto capace di coniugare i toni più rilassati della commedia alle punte di drammaticità evitando, cosa rara per una pellicola americana, senza mai alcun cenno di velata violenza.
Un professore universitario, Abe Lucas, interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix si trasferisce in un paesino della costa americana per insegnare filosofia al college. Va precisato che il protagonista è quasi annoiato dalla vita, indolente, chiuso in una profonda isteria, simile allo straniero di Camus, segue quasi un filone esistenzialista che ha origini remote nel profondo trauma causato dalla prematura scomparsa di un suo caro amico in guerra.
Le sue lezioni particolari e sui generis (definerà la sua stessa materia una “masturbazione cerebrale”, assai lontana dalla vita vera) destano l’interesse di una giovane studentessa, Jill Pallard (una magra Emma Stone) che attratta, pur se fidanzata, dalla particolare forza del professore e dalla brillantezza dei suoi testi e dissertazioni filosofiche da Kant a Kierkegaard, da Sartre a Heidegger, cercherà di scavare nel cuore del bel tenebroso infrangendone la scorza di soffuso nichilismo.
Fin qui la matrice da commedia ma il film scivola ben presto su un altro binario: Abe attratto dalle teorie dostojevskiane quasi come il Kirillov dei famosi “Demoni” o il Raskolnikov di “Delitto e castigo”, progetta per uscire da quel torpore che lo rende impotente nei rapporti un omicidio.
L’occasione presto arriva e gli viene data casualmente in un bar dove ascolta inavvertitamente, una triste vicenda familiare con protagonista un giudice inflessibile e una condanna a una madre malata di cancro cui resta poco da vivere e che si è vista togliere la tutela del figlio.
Da questo momento in poi Irrational man segue i binari del folle gesto del professore al fine di decretare il suo personale Match Point con la sua torbida accidia. Noi spettatori assistiamo passivamente alle fasi preparatorie del delitto: al classico cianuro (che come ci viene ricordato lascia poche tracce ed è letale) trafugato nei laboratori dell’università grazie a una chiave sottratta con l’arma della seduzione a Rita (sua collega di college come da rodato clichè), allo studio delle abitudini del giudice, allo scambio della bibita nel parco ove questi faceva jogging sino alla “faccia di bronzo” del protagonista dopo il delitto. Dopo l’infame gesto, il professore ritroverà quella serenità prima soloillusoria come se lo scotto di un omicidio fosse “quel quid” necessario alla “rottura della crisalide” ma come in ogni buon giallo da Tenente Colombo, l’allegria non durerà a lungo e non a causa dell’intervento di un detective questa volta ma di una persona molto vicina a Abe.
Sia ben chiaro: Irrational man non è Match Point. L’istanza omicida di quest’ultimo non è minimamente confrontabile con quella del professore che agisce in risposta a un moto istintivo che trova spiegazione solo nel suo trauma passato; in Irrational Man non è presente il bieco motivo materialista a muovere il delitto quanto il cinismo di un uomo irrazionale appunto che come “Lo straniero” gode quasi del desiderio di confessare il proprio delitto per manifestare la sua grandezza interiore.
Woody Allen si dimostra ancora capace di sorprendere e, con una regia pulita e una classica introduzione con voce fuori campo, quella di Jill, ci delinea una vicenda così sorprendentemente forte da apparirci vera, terribile e ahimè sensata.
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