fabiofeli
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sabato 11 ottobre 2014
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cecov in cappadocia
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Il regno d’inverno (Winter sleep) di Nuri Bilge Ceylan
“La vita è quella cosa che ti capita mentre fai progetti” dice Aydin (Haluk Bilginer), proprietario di un albergo in Cappadocia, un luogo affascinante come Matera, con piramidi di pietra e case scavate nella roccia. E’ un ex-attore benestante che scrive su un giornale locale su vari argomenti e progetta un libro sulla storia del teatro turco. Sotto una maschera di apparente bonarietà cela un carattere duro e dominatore, che vuole disporre di cose e di persone.
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Il regno d’inverno (Winter sleep) di Nuri Bilge Ceylan
“La vita è quella cosa che ti capita mentre fai progetti” dice Aydin (Haluk Bilginer), proprietario di un albergo in Cappadocia, un luogo affascinante come Matera, con piramidi di pietra e case scavate nella roccia. E’ un ex-attore benestante che scrive su un giornale locale su vari argomenti e progetta un libro sulla storia del teatro turco. Sotto una maschera di apparente bonarietà cela un carattere duro e dominatore, che vuole disporre di cose e di persone. Fa pignorare i beni di una famiglia che non paga l’affitto di una sua casa ed un bambino, figlio dell’affittuario disoccupato ed ex-carcerato, fracassa con un sasso il finestrino della sua auto. Le scuse promesse dallo zio del bambino, un mellifluo imam, non saranno complete. La moglie di Aydin, Nihal (Melisa Sozen), è molto più giovane del marito e si impegna nel miglioramento delle scuole locali, cercando di ritagliarsi uno spazio fuori del dominio oppressivo dell’ex-attore. Con la coppia vive la sorella di Aydin, Necla (Demet Akbag), una donna rammaricata per la sua separazione: vorrebbe chiedere scusa all’ex-marito, anche se lei non ha colpa del matrimonio fallito; spera così che questi si penta dei suoi errori. I tre si confrontano con lunghi dialoghi e discussioni che raggiungono toni aspri. C’è tempo per farlo e per un lungo meditare: sono rari i frequentatori dell’albergo con il freddo e la neve che incombono sulla regione. Ma Aydin sta cambiando: un cavallo selvaggio, prima catturato e poi liberato, e un viaggio intrapreso ed interrotto sono tangibili segni e chiari simboli del suo mutamento.
Finalmente Aydin inizierà a scrivere il libro sul teatro turco.
La fotografia del meraviglioso paesaggio è funzionale alla storia, costruita su un dialogo eccezionale sul modello della grande letteratura russa e Shakespeariana; in aggiunta a questo l’uso di tempi reali, solo apparentemente dilatati nei piani-sequenza, dà respiro ed epicità al film con evidenti accenti Bergmaniani. Un dosato utilizzo dei primi piani e una grande recitazione di tutti gli attori permettono la descrizione a tutto tondo dei personaggi. Tutto fa sì che un film che dura 3 ore e un quarto si vorrebbe che non finisse mai.
Da non mancare.
Valutazione ****
FabioFeli
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flyanto
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giovedì 16 ottobre 2014
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quando ci si dirige verso un lento ed inesorabile
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Film in cui si racconta di un anziano proprietario di un albergo in Cappadocia, ex attore di teatro ed ora pèossidente di numerose terre ed edifici, il quale trascorre le proprie giornate occupandosi dello stesso (ma sopratutto intrattenendo i vari clienti), convivendo con la sorella e con la moglie più giovane e dedicandosi alla composizione di un libro sulla storia del teatro turco. Nel corso di queste giornate la vita scorre lenta ed all'insegna di svariati episodi quotidiani, più banali o meno, e diventano l'occasione per lui e per tutti gli altri protagonisti per riflettere in generale sulla propria esistenza, sulla prorpia coscienza o meno, sulla religione e sulle tradizioni, sulla fine dell'amore, ecc.
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Film in cui si racconta di un anziano proprietario di un albergo in Cappadocia, ex attore di teatro ed ora pèossidente di numerose terre ed edifici, il quale trascorre le proprie giornate occupandosi dello stesso (ma sopratutto intrattenendo i vari clienti), convivendo con la sorella e con la moglie più giovane e dedicandosi alla composizione di un libro sulla storia del teatro turco. Nel corso di queste giornate la vita scorre lenta ed all'insegna di svariati episodi quotidiani, più banali o meno, e diventano l'occasione per lui e per tutti gli altri protagonisti per riflettere in generale sulla propria esistenza, sulla prorpia coscienza o meno, sulla religione e sulle tradizioni, sulla fine dell'amore, ecc... Così dissertando e pensando il protagonista si avvia verso una più o meno tranquilla, rassegnata ed amara vecchiaia.
L'ultima opera del regista turco Nuri Bilge Ceylan, riconferma per la seconfda volta (in quanto a noi sono pervenute solo due delle sue pellicole) la sua grandezza nel dirigere films e raccontare storie quotidiane con un retrogusto amaro e disincantato. La sua bravura infatti consiste proprio nel cogliere sfumature ed aspetti dell vivere quotidiano e della natura umana, nonchè quella dei paesaggi e della sua terra d'origine che sempre fanno da sfonod alle vicende, in maniera quanto mai precisa, minuziosa, dettagliata e, ripeto, amara, malinconica e disincantata, ma affatto inasprita. Attraverso i dialoghi dei vari protagonisti e le riprese in generale, ma anch'esse assai minuziose, degli splendidi paesaggi che egli fotografa e presenta allo spettatore, Ceylan si dimostra ottimo conoscitore della natura umana e della naturain generale che diventa quasi conforme e riflettente i loro stati d'animo e, sebbene la sua caratteristica sia quella di ritmare le proprie pellicole all'insegna di un andamento lento, nulla si rivela mai inopportuno e pesante da seguire. I dialoghi dei personaggi sono sempre molto precisi e chiari tali da riflettere un pensiero e delle considerazioni al limite dei concetti filosofici, richiamando, com'è stato giustamente notato dalla critica, l'atmosfera dolente delle opere di Anton Cechov.
Insomma, come per il capolavoro precedente "C'era una volta in Anatolia", bisogna riconfermare tale epiteto anche per questa splendida ed elegante realizzazione a cui giustamente la Giuria nel corso del Festival del Cinema di Cannes ha asseganto la Palma d'Oro e pertanto la vittoria su tutte le altre competizioni.
Assolutamente da non perdere ma solo per coloro che ne sono vivamente interessati.
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mark kram
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lunedì 2 marzo 2015
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una prefazione a un libro mai scritto
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Durata del film: 196 minuti. Ammetto che questo unico dato mi aveva già convinto ad evitare la visione del film, ma in un periodo di noia più assoluta ho deciso comunque di imbarcarmi in questa avventura. Numerosi elementi che si susseguono nel corso delle tre ore offrono e rinforzano sempre più un'idea di stasi assoluta: dalla pacatezza del protagonista, Aydin, al silenzio della Cappadocia, dal freddo della neve fino agli innumerevoli té, per i personaggi sostanza vitale quanto l'ossigeno, tanto ne scorre nel corso del film. Trama? Non accade nulla. Non ci sono eventi notevoli attorno ai quali può considerarsi essere ricamata la trama del film. Parole, dialoghi e ancora parole, intervallate da qualche altro dialogo.
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Durata del film: 196 minuti. Ammetto che questo unico dato mi aveva già convinto ad evitare la visione del film, ma in un periodo di noia più assoluta ho deciso comunque di imbarcarmi in questa avventura. Numerosi elementi che si susseguono nel corso delle tre ore offrono e rinforzano sempre più un'idea di stasi assoluta: dalla pacatezza del protagonista, Aydin, al silenzio della Cappadocia, dal freddo della neve fino agli innumerevoli té, per i personaggi sostanza vitale quanto l'ossigeno, tanto ne scorre nel corso del film. Trama? Non accade nulla. Non ci sono eventi notevoli attorno ai quali può considerarsi essere ricamata la trama del film. Parole, dialoghi e ancora parole, intervallate da qualche altro dialogo. Eppure le tre ore di film filano giù come l'acqua (o come il té, appunto): né induce sonnolenza né lo spettatore viene fagocitato in quel letargo profondo che sembra essere il leitmotiv dell'opera. Si sussegono ancora una volta i dialoghi e, sebbene tu ormai abbia già capito quelle parole sono essenzialmente fine a se stesse, cresce l'interesse nei loro confronti e si ha sempre più la sensazione di essere seduti su di una sedia, seguendo sempre più da vicino le riflessioni di Aydin, Nihal, Necla, arrivando a condividerle.
Alla fine concordo, il tutto ricorda quasi una novella di Cechov: una premessa ad una storia che sembra essere sul punto di cominciare, ma che in realtà non ha la benché minima intenzione di prendere vita. Una prefazione a un libro mai scritto.
Nonostante tutto questo, il film si fa vedere. Qui sta a mio parere il grande merito del regista: chiunque potrebbe essere in grado di costruire un film attorno ad una guerra, ad una catastrofe naturale imminente o ad una tormentata storia d'amore. Ma costruire un film attorno al nulla (e riuscirci!) non è da tutti.
Chapeau.
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pepito1948
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domenica 26 ottobre 2014
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paesaggio parlante ed atmosfere sospese
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E’ lui che tira le fila della storia, Aydin, ex attore ritiratosi nella Cappadocia semidesertica per gestire un piccolo hotel, intento a scrivere piccoli articoli su un piccolo giornale locale e aspirante a scrivere una grande storia del teatro turco, insieme alla giovane moglie, impegnata in un progetto benefico ed alla sorella, divorziata insoddisfatta e forse pentita. Poi c’è un contorno di figure come un imam, locatario moroso per mancanza di mezzi ed ipocritamente accondiscendente, suo fratello esacerbato dalla recente esperienza carceraria, un ossequioso ma saggio factotum, un amico di vecchia data, che entrano ed escono dal racconto in funzione delle vicende di quel triangolo.
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E’ lui che tira le fila della storia, Aydin, ex attore ritiratosi nella Cappadocia semidesertica per gestire un piccolo hotel, intento a scrivere piccoli articoli su un piccolo giornale locale e aspirante a scrivere una grande storia del teatro turco, insieme alla giovane moglie, impegnata in un progetto benefico ed alla sorella, divorziata insoddisfatta e forse pentita. Poi c’è un contorno di figure come un imam, locatario moroso per mancanza di mezzi ed ipocritamente accondiscendente, suo fratello esacerbato dalla recente esperienza carceraria, un ossequioso ma saggio factotum, un amico di vecchia data, che entrano ed escono dal racconto in funzione delle vicende di quel triangolo.
C’è anche un altro protagonista, un paesaggio ancestrale, primitivo, immobile, di pietra nuda, che entra nelle pareti del piccolo hotel trasmettendo all’interno un senso di fermo immagine della vita, di isolamento, di durezza immutabile, di solitudine; interazione che, sotto il manto innevato dell’inverno, aggiunge un senso di lenta sonnolenza esistenziale. Gli incastri del trio sembrano reggere nel pigro scorrere delle giornate, ma, come preannuncia la rottura improvvisa di un finestrino a causa di una sassata, qualcosa sta per infrangersi nel menage. L’interazione verbale fa emergere diversità di vedute, che vanno concentrandosi sul rapporto coniugale: Aydin, dietro la facciata bonaria e rassicurante dell’erudito, del paziente capo-azienda, dell’esperto professionista, si dimostra uomo di pochi scrupoli verso i più esposti alle difficoltà e soprattutto si rivela paterfamilias, intransigente nel ribadire la preminenza del proprio ruolo e nell’imporre il controllo sulle attività della moglie, a sua volta ferma nel rifiutare un ruolo meramente ancillare. Il vortice dei dissensi si allarga al passato, alle rispettive rinunce, alle denunce di incomprensione, finchè l’attempato scrittore, poco incline a flettere dalle sue radicate convinzioni, decide di imboccare una strada solitaria. Ma, in attesa del treno che lo porterà all’agognata Istanbul, cede all’impulso di rimettersi in discussione e di avviare una profonda riflessione sulle scelte troppo istintivamente adottatee su un’identità rivelatasi imperfetta.
Ceylan, dopo il Viaggio in Anatolia, conferma la grande capacità di entrare nei labirinti tortuosi delle relazioni umane, per scoprirne le contraddizioni, le false apparenze, le zone ombrose, e lo fa qui accentuando l’apporto di un dialogo serrato, avvalendosi della complicità di un panorama inquietante ma affascinante e sempre presente, di simbologie a contrasto (l’ospite motociclista che persegue un itinerario di vita basato sull’imprevedibilità, sul rischio, sull’ignoto), ed evidenziando la stridente convivenza tra modernità dilagante e resistenza di valori tradizionali, tipica della Turchia attuale. L’impegno richiesto dal seguire il filo logico dei dialoghi stringenti e l’irrompere di momenti ad alta tensione emotiva (come il confronto imprevisto quanto drammatico tra la moglie e lo squinternato fratello dell’imam) fanno sì che le tre ore e un quarto di durata scorrano via, lasciandoti un corredo di riflessioni ed emozioni da elaborare. Nonostante qualche caduta di ritmo e traccia di artificiosità nel finale (non si sa se e quanto dovute alla traduzione e al doppiaggio), il film si apprezza anche per il fascino di atmosfere autentiche, sospensive e mai da cartolina, soprattutto negli interni ripresi con abile uso della luce diradata, come quella tenue ma viva delle lanterne e dei caminetti, il tutto recitato da un cast di alto livello e diretto dal regista con mano attenta a gestire con la dovuta morbidezza i cambiamenti di tono.
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foffola40
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lunedì 20 ottobre 2014
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rapporti fragili in un contesto aspro
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bello questo film di Ceylan , in una Matera turca molto suggestiva, inospitale ma affascinante : cavalli bradi, tormente di neve, donne inquiete, imam diplomatici ma ipocriti, affittuari morosi e violenti.
Le parole sono pietre è il fil rouge di questo film infatti oltre ai richiami a Shakespeare (frasi, ricordi ) si passa da un dialogo all'altro fra i protagonisti, il padrone di casa, la giovana moglie, la sorella e gli altri che vivono intorno a lui. Nell'albergo, posto nelle grotte rupestri, eredità della famiglia, vivono insieme alla coppia padronale, la sorella di lui e due dipendenti . Le tensioni fra la sorella, sola e divorziata, si manifestano prima di quelle ancora più profonde fra moglie e marito, in definitiva ambedue le donne giudicano negativamente la vita del "capo" e i suoi comportamenti .
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bello questo film di Ceylan , in una Matera turca molto suggestiva, inospitale ma affascinante : cavalli bradi, tormente di neve, donne inquiete, imam diplomatici ma ipocriti, affittuari morosi e violenti.
Le parole sono pietre è il fil rouge di questo film infatti oltre ai richiami a Shakespeare (frasi, ricordi ) si passa da un dialogo all'altro fra i protagonisti, il padrone di casa, la giovana moglie, la sorella e gli altri che vivono intorno a lui. Nell'albergo, posto nelle grotte rupestri, eredità della famiglia, vivono insieme alla coppia padronale, la sorella di lui e due dipendenti . Le tensioni fra la sorella, sola e divorziata, si manifestano prima di quelle ancora più profonde fra moglie e marito, in definitiva ambedue le donne giudicano negativamente la vita del "capo" e i suoi comportamenti . Rapporti familiari critici, amarezze, rimproveri fino alla partenza del marito che decide di allontanarsi per andare ad Istanbul. Ritorna presto a casa con un trofeo di caccia, metafora della sua resa nei confronti della moglie, alla quale offre simbolicamente la lepre catturata. Sono i rapporti umani che deflagrano fisiologicamente in particolare quando c'è tempo per pensare, silenzio per riflettere, natura inospitale e grumi di delusione nell'animo. Foffola40
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veritasxxx
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martedì 28 ottobre 2014
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per spettatori asceti
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Ma quanto parlano 'sti turchi! Che fumassero non avevamo dubbi, che fossero coinvolti più o meno direttamente in guerre di religione nel sempre caldo medioriente lo vediamo ogni giorno, e anche che ci fossero contraddizioni implicite tra l'essere un paese islamico e aspirare all'entrata nell'Unione europea. Ma questo letargo invernale turco ci offre spunti di riflessione più profondi di quanto mai avremmo potuto aspettarci. È un film parabola, e in certi momenti sembra solo che manchi Gesù (o Allah) a raccontarci la buona novella prima di annunciare "questa pippazza di tre ore e venti è finita, andate in pace!".
Il regista Nuri Bilge Ceylan, già assiduo frequentatore di Cannes, questa volta coglie nel segno e si aggiudica la palma d'oro.
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Ma quanto parlano 'sti turchi! Che fumassero non avevamo dubbi, che fossero coinvolti più o meno direttamente in guerre di religione nel sempre caldo medioriente lo vediamo ogni giorno, e anche che ci fossero contraddizioni implicite tra l'essere un paese islamico e aspirare all'entrata nell'Unione europea. Ma questo letargo invernale turco ci offre spunti di riflessione più profondi di quanto mai avremmo potuto aspettarci. È un film parabola, e in certi momenti sembra solo che manchi Gesù (o Allah) a raccontarci la buona novella prima di annunciare "questa pippazza di tre ore e venti è finita, andate in pace!".
Il regista Nuri Bilge Ceylan, già assiduo frequentatore di Cannes, questa volta coglie nel segno e si aggiudica la palma d'oro. Ma realizza un film guardabile o la solita lagna interminabile riservata ad intellettuali in erba che si vantano di vedere solo film d'autore di durata quasi improponibile per lo spettatore medio?
Un po' e un po' a dire il vero. Il film, tra una discussione filosofica e l'altra tra il protagonista (il bravo Haluk Bilginer, perfetto nella sua rappresentazione dell'uomo ricco, colto e maturo che sente un bisogno irrefrenabile di pontificare anche su argomenti a lui poco noti) e sua sorella, e i frequenti battibecchi con la giovane moglie che cerca un riscatto personale occupandosi di volontariato, presenta una questione che offre validi spunti di riflessione. È meglio lasciare che il male faccia il suo corso, ovvero mettere le persone nella condizione di essere libere di commettere atti di cui un giorno potranno pentirsi e cercare da sole la redenzione ammettendo la propria colpa, o impedire sempre ogni atto illegale o moralmente inaccettabile, punendo chi si trova in difetto con le regole della nostra società?
Per il vecchio Aydin non c'è dubbio che sia sempre meglio colpire i malfattori; la giovane e ingenua moglie cerca invece di dimostrare il contrario donando una quantità di denaro spropositata ai suoi debitori, ma viene prontamente smentita e umiliata perchè "un ubriacone bastardo non le capisce certe raffinatezze". E capirà che in fondo il marito, pur se borioso e saccente, è meglio di tanta brutta gente che vive fuori dalla loro casetta ben riscaldata nella piovosa Anatolia.
La fotografia rimane la nota di maggiore merito della pellicola, pure nella sua staticità teatrale: i luoghi rappresentati sono di una bellezza che toglie il fiato anche se non esattamente la destinazione più gettonata delle guide turistiche. Ma mi chiedo perchè ci si debba far venire le piaghe da decubito per ricevere un messaggio relativamente semplice che poteva essere trasmesso tranquillamente in metà del tempo.
Consigliato a chi ha la domeniche pomeriggio vuote, pochi amici e nessun parente vivente che reclami la vostra compagnia nei giorni di festa.
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filippo catani
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giovedì 8 gennaio 2015
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vite congelate
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Ritiratosi ormai da tempo dalla scena teatrale, un ex attore gestisce varie proprietà tra cui un albergo nella provincia turca e ha intenzione di scrivere un libro sulla storia del teatro del suo paese. L'uomo vive con la sorella e la giovane moglie.
Premiato con la Palma d'Oro, questo film diretto da Ceylan torna un po' alle atmosfere di C'era una volta in Anatolia. Proprio le ambientazioni e la fotografia sono tra i punti forti di questa pellicola insieme ad uno struggente accompagnamento con il pianoforte. Il film è un po' una riflessione esistenziale che tocca il protagonista e i suoi familiari alle prese con la monotona vita di provincia. I rapporti tra marito e moglie sono ormai ridotti ai minimi termini non solo per la differenza di età ma anche e soprattutto per un diverso modo di vedere la vita.
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Ritiratosi ormai da tempo dalla scena teatrale, un ex attore gestisce varie proprietà tra cui un albergo nella provincia turca e ha intenzione di scrivere un libro sulla storia del teatro del suo paese. L'uomo vive con la sorella e la giovane moglie.
Premiato con la Palma d'Oro, questo film diretto da Ceylan torna un po' alle atmosfere di C'era una volta in Anatolia. Proprio le ambientazioni e la fotografia sono tra i punti forti di questa pellicola insieme ad uno struggente accompagnamento con il pianoforte. Il film è un po' una riflessione esistenziale che tocca il protagonista e i suoi familiari alle prese con la monotona vita di provincia. I rapporti tra marito e moglie sono ormai ridotti ai minimi termini non solo per la differenza di età ma anche e soprattutto per un diverso modo di vedere la vita. Le loro vicende si intrecceranno poi con quelle della famiglia dell'Imam locale. Oltre alle atmosfere (bellissime le scene con la neve) sono quindi i dialoghi tra i vari personaggi a dare corpo e tono al film lungo le tre ore della sua durata. Un film certo particolare e da seguire ma che sicuramente brilla come una piccola gemma della cinematografia turca.
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eugenio
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venerdì 6 febbraio 2015
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c’era una volta... cechov in anatolia
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Il fascino della lentezza accompagna lo spettatore sin dall’inizio. Le atmosfere sono pacate, rilassate, gli spazi immensi. In lontananza un altopiano, case abbandonate e quasi a ergersi come baluardo della solitudine ecco un hotel, silente, che si staglia con prepotenza sull’orizzonte scuro.
Il titolo, Il regno di inverno, già lascia sottendere abilmente la trama che si dipanerà appunto nel gelido spazio anatolico, dai richiami vagamente cechoviani (molti hanno notato la nostalgica elegia come sintomatica malattia dell’incomunicabilità dei protagonisti) e paradossalmente verbosi in un’ambientazione totalmente fuori dal tempo e dallo spazio.
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Il fascino della lentezza accompagna lo spettatore sin dall’inizio. Le atmosfere sono pacate, rilassate, gli spazi immensi. In lontananza un altopiano, case abbandonate e quasi a ergersi come baluardo della solitudine ecco un hotel, silente, che si staglia con prepotenza sull’orizzonte scuro.
Il titolo, Il regno di inverno, già lascia sottendere abilmente la trama che si dipanerà appunto nel gelido spazio anatolico, dai richiami vagamente cechoviani (molti hanno notato la nostalgica elegia come sintomatica malattia dell’incomunicabilità dei protagonisti) e paradossalmente verbosi in un’ambientazione totalmente fuori dal tempo e dallo spazio.
Lo spazio avulso dal mondo, l’atmosfera rarefatta con splendide immagini di case ripiegate nella roccia (di primo acchito sembra di essere tra i sassi di Matera) scavate nella superficie oltre a un chiaro significato metaforico- la vera natura dei protagonisti che viene alla luce- ha anche una suggestione fotografica.
Qui appare come un idillio, un paradiso, l’Hotel Othello, retto dal protagonista, Aydin, un attore teatrale a riposo insieme alla bella moglie Nihal più giovane e alla sorella Necla, divorziata.
L’albergo è fuori dai normali tracciati turistici, rari i villeggianti, spesso turisti attratti dalla quiete del luogo o dalle curiose conformazioni naturali rocciose. E’ quindi una sorta di non luogo che il regista Nuri Bilge Ceylan confeziona allo scopo di voler realizzare un, lungo, ipnotico flusso di coscienza tra il protagonista, le due donne e la rada comunità.
Donne che appaiono assai contrastanti negli animi: come giovane e inesperta, incapace di conoscere la vita, passionale e dipendente dai soldi del marito appare Nihal, così Necla al contrario, ha fatto del pragmatismo, dell’accidia e dell’incapacità di vivere ogni giorno con determinazione la sua ragione di esistere. In mezzo sta Aydin, l’uomo tutto d’un pezzo, che si è fatto da solo, dalle velleità letterarie, ora capace solo di “sprecare i soi anni migliori a fare cose di cui a nessuno interessa”: un libro sulla storia del teatro turco e pubblicazioni di articoli su un giornale che nessuno legge. Al di là di questo apparente “fumoso” interesse l’uomo non nasconde il suo lato “affaristico” e meramente economico.Cresciuto in una casa senza elettricità che “non sapeva come poter essere felice”, che ha cercato di cambiare il paese e il mondo, che ha realizzato una fortuna da zero, Aydin appare come una sorta di signorotto appartenente a una borghesia ottocentesca russa, un possidente, questo il termine giusto, che ha accumulato,accumulato tanta “roba” senza però risultare pienamente appagato, lucido e umano e che ora si inganna continuamente cercando di non vedere quello che appare sotto i suoi occhi :un matrimonio di cui non esiste più nulla se non una passiva convivenza e un rapporto meramente di sguardi quasi muto con una sorella che lo disprezza nel suo intimo).
In una regione remota dove sono nette e precise le grandi differenze tra nobilità e povertà, tra ricchezza e indigenza, tra razionale perfezione odiatrice del mondo e arretratezza civile frutto di una religiosità conservatrice e bigotta, si crea un gigantesco affresco di una volta, un romanzo epico fuori dal tempo dove prevale la luce fioca della candela e il fuoco del camino alla comodità cittadina.
La robusta camera di facciata dell’albergo nasconde al suo interno una terribile forma di incomunicabilità che si manifesta evidente in trascinanti dialoghi apparentemente illogici, lenti, frutto di una quotidianeità, di un astio, di un dolore sintomatico di una nazione, la Turchia contemporanea che disprezza il popolino e la religione intesa come “mera superstizione e innocente sogno”.
Aydin è un attore, i dialoghi che esplicita con una moglie annoiata, incapace di guadagnarsi da vivere, una nobildonna d’altri tempi dedita alla beneficenza, trasudano di semplicità e di orgogliosa forza da uomo che ha raggiunto una posizione di rispetto, che tenta vanamente di lottare contro una disgregazione morale, ideale, principi saldi di cui ora non possiede più alcun controllo.
Costruito a “riquadri dialogici”, tante scene che si avvicinano con il labile pretesto dell’ambientazione crocevia di più esistenze, l’albergo, Il regno di inverno è un riuscito film psicologico che trae forza da immagini rurali per scavare nell’intimità più nascosta di un protagonista giunto ora all’inverno della propria vita, degli spietati giudizi (con la moglie, con la sorella, con i sottoposti) che nascondono una pacata rassegnazione, un immotivato desiderio di cambiare una vita che si infrange sotto le ferite di un tempo che passa immobile eppure irriducibile come un treno diretto in una grande città ma che mai arriverà.
Abile nell’intessere i dettagli tra uomo e donna, Ceylan usa la parola come mezzo evocativo per far riflettere sui non detti che nascondono spesso una verità spiacevole con cui difficilmente si vorrebbe avere a che fare, figlia di insoddisfazioni e rivalse (come lo splendido dialogo tra Nihal e Aydin o nella parte finale tra Nihal e Ismail, l’ubriacone alcolizzato esponente vinto dell’indigenza). E l’unico mezzo per riuscirci a quanto pare è la parola capace di far emergere i conflitti tra chi possiede ed è intrappolato dai possedimenti e chi invece è isolato dalla stessa incapacità di avere sullo sfondo di un paesaggio e di un’azione, candida e pallida, pronta a infrangersi irrimediabilmente come vetro rotto da mano infantile.
Coscienza è solo una parola che i vigliacchi sanno usare ed è stata inventata con lo scopo precipuo di tenere in soggezione i fatti(Shakespeare).
Palma d’oro al festival del cinema di Cannes. Per tutti gli amanti della lentezza e del piacere di una volta.
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great steven
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venerdì 12 giugno 2015
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dritto al cuore di un'umanità pronta alla riscossa
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IL REGNO D'INVERNO – WINTER SLEEP (TURK/FR/GERM, 2014) diretto da NURI BILGE CEYLAN. Interpretato da HALUK BILGINER, MELISA SOZEN, DEMET AKBAG, AYBERK PEKCAN, SERHAT MUSTAFA KILIC, NEJAT ISLER, TAMER LEVENT
Palma d’oro al Festival di Cannes 2014. In un villaggio sperduto nell’Anatolia, nel quale giungono quotidianamente turisti interessati alle antiche abitazioni che formano quasi un corpo unico con la roccia, Aydin gestisce un piccolo ma confortevole albergo, l’Othello. Costui è anche proprietario di diverse residenze i cui inquilini non sempre riescono a pagare l’affitto e vengono dunque puniti col sequestro di televisore e frigorifero.
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IL REGNO D'INVERNO – WINTER SLEEP (TURK/FR/GERM, 2014) diretto da NURI BILGE CEYLAN. Interpretato da HALUK BILGINER, MELISA SOZEN, DEMET AKBAG, AYBERK PEKCAN, SERHAT MUSTAFA KILIC, NEJAT ISLER, TAMER LEVENT
Palma d’oro al Festival di Cannes 2014. In un villaggio sperduto nell’Anatolia, nel quale giungono quotidianamente turisti interessati alle antiche abitazioni che formano quasi un corpo unico con la roccia, Aydin gestisce un piccolo ma confortevole albergo, l’Othello. Costui è anche proprietario di diverse residenze i cui inquilini non sempre riescono a pagare l’affitto e vengono dunque puniti col sequestro di televisore e frigorifero. Aydin ha sposato una donna molto più giovane di lui, di nome Nihal, e vive insieme anche alla sorella Necla, che ha raggiunto i due coniugi dopo il divorzio. Aydin, in passato, lavorò come attore e ora sta cercando di mettere assieme le idee per scrivere una storia del teatro turco. Film molto difficile sia da interpretare che da recensire, soprattutto per un suo difetto che però, paradossalmente, assurge anche ad inaspettata virtù: ha la pretesa di passare per opera sinteticamente silenziosa e contemplativa, ma al tempo stesso è attraversato da numerosi dialoghi che ne riempiono la cupezza e tetraggine delle sequenze immerse nei paesaggi brulli e molto espressivi della Cappadocia. Ne risulta che la descrizione narrativa si distingue in maniera eccellente tanto per un quadro tecnico di tutto rispetto quanto per una sceneggiatura strutturata abilmente in dissolvenze verbali, loquacità prorompenti e momenti di calma piatta che precedono moderati colpi di scena in grado di stravolgere l’unità di una vicenda che, malgrado la lunghezza di metraggio non indifferente, tiene incollati allo schermo per convincere gli spettatori a seguire gli sviluppi di una storia davvero interessante e accattivante. Qualcuno potrebbe obiettare che si ha a che fare con una pellicola adeguata esclusivamente agli asceti o a chi cerca comunque il raggiungimento di una pace interiore attraverso la macerazione e l’isolamento, e non avrebbe in fin dei conti tutti i torti: ma Winter Sleep è indirizzato anche ad un pubblico capace di sperare in un mondo migliore che, nonostante i cambiamenti radicali e gli imprevisti onnipresenti, sa seguire un ciclo paragonabile a quello delle stagioni che porta più o meno in egual misura il bene e il male. Echi letterari presi in prestito da Cechov e Shakespeare, e dei temi cari ai due drammaturghi emergono soprattutto un’angoscia esistenziale (comunque non invincibile) e uno scavo psicologico nelle più profonde motivazioni umane che conducono sia ad azioni positive sia ad atti che, pressappoco in modo diretto e immediato, sfiorano da vicino i delitti e i crimini. H. Bilginer è un perfetto protagonista che sa alternare con eccellente sapienza le espressioni facciali, la crudeltà recitativa e un pizzico notevole di autoironia che fa del suo personaggio un esempio funzionale di antieroe che cerca l’estrema soddisfazione passando per svariati labirinti di sofferenza, maturazione spirituale e variazioni del tono dell’umore. L’inverno fa la sua comparsa in particolar modo nel finale, esemplificando l’effimera parvenza della vita che è obbligata a seguire la ciclicità delle stagioni e specialmente, quando giunge il periodo più gelido dell’anno, deve costringere sé stessa ad un sonno letargico in cui riporre tutti i desideri, tutte le aspettative e ogni singola aspirazione per poi snocciolare il proprio corredo emotivo quando la neve si sarà sciolta e il sole riprenderà a illuminare le sporgenze rocciose e i declivi collinari di una Turchia che il bravo regista vede con l’occhio di un esaminatore attento agli sbalzi umorali, ai capricci volubili e ad una sorta di amore non completamente bello che però comprende al suo interno un monito speranzoso unente la voglia di riscatto e la volontà di ricominciare. Tra le scene più geniali, vale la pena di rammentare la rottura del vetro per mano del laconico bambino che vi lancia contro il sasso e la dichiarazione sentimentale e umanitaria di Nihal nella casa immersa nell’oscurità, salvo l’accensione del fuocherello nel camino.
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amgiad
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domenica 19 ottobre 2014
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l' inverno della nostra solitudine
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Piano piano cadono i veli e quello che nelle prime immagini appare come un luogo fantastico mostra le sue miserie. Per alcuni sono economiche, per altri morali, per tutti esistenziali. A nessuno è concesso il lusso di riscattarsi. Il protagonista, ex attore ora redattore di un periodico locale, non raccoglie l' invito di una sua lettrice ed evita di fare un gesto generoso. Per rivalsa? blocca i progetti di sua moglie. La stessa si vede rifiutare quello che pensa sia un giusto gesto riparatore. Tutto sullo sfondo di questo paesaggio immobile nel tempo. Quando tutti i rapporti si sono rotti ed è emerso la sostanza della solitudine fino allora vissuta da lui, dalla sorella, dalla moglie, sulla strada per Istanbul uccide la lepre.
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Piano piano cadono i veli e quello che nelle prime immagini appare come un luogo fantastico mostra le sue miserie. Per alcuni sono economiche, per altri morali, per tutti esistenziali. A nessuno è concesso il lusso di riscattarsi. Il protagonista, ex attore ora redattore di un periodico locale, non raccoglie l' invito di una sua lettrice ed evita di fare un gesto generoso. Per rivalsa? blocca i progetti di sua moglie. La stessa si vede rifiutare quello che pensa sia un giusto gesto riparatore. Tutto sullo sfondo di questo paesaggio immobile nel tempo. Quando tutti i rapporti si sono rotti ed è emerso la sostanza della solitudine fino allora vissuta da lui, dalla sorella, dalla moglie, sulla strada per Istanbul uccide la lepre. Accettata la vita che resta finalmente inizia a scrivere la storia del teatro turco (la sua tela di Penepole)
Bel film, bella fotografia, buona sceneggiatura anche se alcune scene e dialughi sono un po' lunghi.
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