Timbuktu |
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Un film di Abderrahmane Sissako.
Con Ibrahim Ahmed, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara.
continua»
Titolo originale Le chagrin des oiseaux.
Drammatico,
Ratings: Kids+13,
durata 97 min.
- Francia, Mauritania 2014.
- Academy Two
uscita giovedì 12 febbraio 2015.
MYMONETRO
Timbuktu
valutazione media:
3,54
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Un mondo negato alla storia?di ZararFeedback: 13464 | altri commenti e recensioni di Zarar |
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martedì 7 aprile 2015 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Il regista mauritano-maliano Sissako ambienta il suo film a Timbuktu, nel Mali multietnico, al tempo della occupazione del paese da parte del gruppo islamista fondamentalista Ansar Dine nel 2012. Gli occupanti impongono nel paese la sharia nella forma più dura (pena capitale per gli adulteri; donne costrette a subire limitazioni nella loro libertà di movimento, di relazioni, di abbigliamento, costrette a matrimoni forzati; divieto per tutti del fumo, della musica, del calcio; religiosi islamici moderati impotenti di fronte ai fondamentalisti; flagellazioni per minime trasgressioni della legge coranica, fino a barbari supplizi quali l’interramento e la lapidazione. Sono un gruppo eterogeneo, con elementi di paesi diversi costretti a volte – ironia - ad usare tra loro l’inglese per capirsi, uniti solo dall’ideologia fondamentalista. Attraverso la disgraziata vicenda di un pastore tuareg, Kidane, condannato a morte per aver ucciso non intenzionalmente un pescatore che gli ha ammazzato una mucca, il film ci introduce in un clima e in un sistema di rapporti difficile per noi da capire sino in fondo, anche se ormai l’ISIS è tragica cronaca quotidiana. Da una parte abbiamo un mondo arcaico affascinante di paesaggi immobili, ritualità di gesti e compiti quotidiani, antichi mestieri, parole misurate, affetti profondi anche se spesso inespressi, musica e canto nativi, innocente allegria; dall’altra la paura e l’orrore incarnati di un fondamentalismo deciso a imporre un Medioevo crudele e anacronistico. Sembrano agli antipodi, ma – anche se i fondamentalisti vengono dall’esterno, e neppure condividono la lingua dei locali, qualcosa nel fondo accomuna gli uni e gli altri: la stessa abissale lontananza da una visione laica e razionale dell’esistenza, lo stesso arcaico fatalismo, e ciò anche se la “modernità” occidentale offre loro i gadget e/o gli strumenti di morte più aggiornati (il telefonino satellitare, la motocicletta, i SUV, le divise mimetiche, i kalashnikov…). I fondamentalisti si sentono gli esecutori di una legge superiore e assoluta, la loro violenza è rigorosamente ritualizzata, condannano senza aggressività e senza passione personale; i perseguitati ne accettano la logica, nella percezione che il loro destino è segnato e voluto da Allah, e nulla e nessuno potrà cambiarlo. Di qui il fatalismo, l’acquiescenza, la disperazione muta, al massimo uno sfogo subito rientrato, o una fuga nella fantasia, come quella dei ragazzi nella bellissima scena in cui giocano con un pallone immaginario. Sissako rappresenta con ricchezza di sfumature questa situazione apparentemente senza scampo, simbolicamente espressa nella fuga inutile della gazzella inseguita dai cacciatori, nella corsa senza speranza della figlia di Kidane alla fine del film. Resta qualche dubbio sull’estetismo virtuosistico del regista, che sfuma e annega i passaggi più drammatici in atmosfere e paesaggi perfetti, che accentuano la connotazione mitica evocata dal solo nome di Timbuktu: le dune e le crete dorate nel sole, la notte di luna nel deserto, il cadavere nero del pescatore nell’acqua accanto alla cesta, quasi tratto di pennello in un acquarello cinese, le geometrie astratte dei vicoli, delle case, dei tetti, ma anche il volto scolpito, senza tempo della moglie di Kidane… Su questo sfondo estetizzante e anestetizzante la vicenda sembra collocarsi fuori del tempo. Un modo per dirci che questo mondo è negato alla storia? 3 1/2
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