Grand Budapest Hotel |
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Un film di Wes Anderson.
Con Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe.
continua»
Titolo originale The Grand Budapest Hotel.
Commedia,
durata 100 min.
- USA 2014.
- 20th Century Fox Italia
uscita giovedì 10 aprile 2014.
MYMONETRO
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Grand Budapest Hotel
di catcarloFeedback: 13499 | altri commenti e recensioni di catcarlo |
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martedì 15 aprile 2014 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Su di un film come questo, o ti limiti a ‘è una meraviglia da vedere assolutamente’ o ci scrivi una tesi di laurea. Qualsiasi soluzione intermedia finisce per risultare incompleta già mentre la si compone, ma, visto che la prima alternativa è un po’ sbrigativa e non c’è il tempo per la seconda, vedrò di arrampicarmi sugli specchi, mettendo innanzitutto le mani avanti: non ho letto nulla delle opere di Stefan Zweig a cui la pellicola è ispirata. L’ultimo lavoro di Wes Anderson mette in mostra una leggerezza e una godibilità rare, regalando al pubblico poco meno di cento minuti di sorridente divertimento sorretto da un invidiabile senso del ritmo e da una capacità di costruire e sbrogliare situazioni che rievoca a pieno titolo il tocco alla Lubitsch. Le caratteristiche peculiari del regista statunitense raggiungono qui un livello davvero sopraffino, si tratti dell’evidente artificiosità, del muoversi accelerato dei personaggi nei momenti cruciali oppure dell’attenta costruzione delle inquadrature come piccoli quadri o, meglio ancora, vignette di fumetto (ma non da meno sono i campi lunghi, come quello della hall dell’hotel ripresa a mezz’altezza in cui, all’improvviso, spunta in basso a destra la testa di Henckels/Edward Norton che guarda in macchina). In più, c’è un efficace uso dell’animazione a passo uno, in un crescendo che va dalla fantasiosa cremagliera che raggiunge l’hotel alle infantili funivie che fanno salire sui picchi i personaggi che poi ne scendono con un omaggio ai giochi invernali che viaggia a velocità da vecchia comica. Eppure, dietro a tutto questo, c’è una struttura estremamente complessa dal punto di vista narrativo oltre che da quello puramente tecnico. Anche se scivolano inavvertiti l’uno nell’altro, sono quattro i piani temporali che costituiscono la storia – il formato dello schermo varia di conseguenza - con importanza crescente man mano che si torna indietro nel tempo, ma, soprattutto e a dispetto dei molti sorrisi che dispensa, il racconto è permeato da un senso di decadenza e di morte (alto in modo inatteso è il numero di trapassi giovani e violenti) che lascia un inconfondibile retrogusto amaro. Del resto, il film si apre sul muro sbrecciato di un vecchio cimitero, prosegue nella casa dello Scrittore da Vecchio (Tom Wilkinson) che sembra un set lasciato a metà e si avvia davvero nel morituro Grand Budapest degli anni Sessanta, albergo dal pesante decoro di ispirazione sovietica in cui vagano pochi clienti solitari. Qui, lo Scrittore da Giovane (Jude Law) incontra il proprietario, signor Moustafa (F. Murray Abraham) che gli racconta di quando, con il nome di Zero, era l’ultimo dei fattorini ed era stato accolto sotto l’ala protettiva di quello che era il concierge principe agli inizi degli anni Trenta, quando l’aspetto e la vitalità dell’hotel erno ben altri. Questo M. Gustave (uno strepitoso Ralph Fiennes davvero a suo agio) è il vero signore dell’albergo, rispettato dai colleghi e amato dalla clientela – e, in particolar modo, dalle clienti, specie se anziane e danarose. Quando una di queste (ennesima prova da fachiro al trucco per Tilda Swinton) viene assassinata, Gustave è il primo dei sospettati anche perchè il testamento della nobildonna lo favorisce assai donandogli un quadro di inestimabile valore (ed è geniale la sostituzione dello stesso con un dipinto nello stile di Egon Schiele che raffigura un amore lesbico di cui per un mucchio di tempo nessuno si accorge): il nostro finisce perfino in galera, da cui evade appoggiandosi al gruppo di Ludwig (Harvey Keitel), ma, con l’assai fattivo aiuto di Zero (l’esordiente Tony Revolori) e fidanzata (Saoirse Ronan) riesce a evitare gli agguati del truce Jopling (Willem Defoe) e ad averla vinta in un lieto fine reso meno lieto dai flash-forward – se così li possiamo definire. Il tutto sullo sfondo di un mondo che cambia. Gustave e gli altri, in fondo, ballano sul Titanic del piccolo Stato di Zubrowska che viene invaso dal potente e nazisteggiante vicino sul cui treno salta subito Dmitri (Adrien Brody), l’erede della defunta baronessa che cerca di mettere le mani sulla di lei fortuna: pare inevitabile che la maggior parte dei personaggi non riesca a sopravvivere nella nuova era. Come si sarà potuto notare, il cast è di altissimo livello, eppure nessuno dà l’impressione di essere stato appiccicato lì per caso o per fare il lustrino, inclusi coloro che hanno solo poche battute come i fedelissimi del regista Bill Murray e Bob Balaban, i francesi Mathieu Amalric e Léa Seydoux o un irriconoscibile Owen Wilson: più spazio ha invece il redivivo (per me) Jeff Goldblum nei panni dell’avvocato Kovacs. Una volta giunti alla fine, vien voglia di ricominciare perché, poco ma sicuro, qualcosa che sfugge c’è: meditando su questo, si seguono con soddisfazione anche i titoli di coda, non tanto per il comunque travolgente concerto di balalaike quanto per il cosacco animato che danza in un angolo con performances segnate da un crescendo di entusiasmo.
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