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Lezioni dal vero

Turner e il realismo.
di Roy Menarini

In foto una scena del film Turner di Mike Leigh

domenica 1 febbraio 2015 - Approfondimenti

C'è realismo e realismo. Di per sé, il termine non significa nulla. Basti pensare che nell'epoca del cinema classico il realismo veniva attribuito a Hollywood, quello che a noi oggi pare soprattutto produzione di immaginario fantasioso. Un'altra tappa miliare, il neorealismo, è stato ampiamente studiato ridimensionandone via via l'aspetto di più aperta improvvisazione e apertura al caso per metterne in luce la scrittura, la predisposizione teorica, la cura formale. E anche tutti gli altri realismi, più recenti, vanno sempre guardati nella giusta prospettiva: realismo dei contenuti o dei modi di messa in scena? Realismo in che senso?
Per Mike Leigh si può parlare di un realismo della pratica creativa. Non ci sono chissà quali meditazioni teoriche dietro al suo atteggiamento nei confronti di quel che racconta. Il lavoro con gli attori è, in questo senso, decisivo. Leigh li raduna settimane prima dell'inizio delle riprese, prova con loro ogni scena, cerca di favorire l'interazione tra psicologie e personaggi, e lima, cuce, toglie, aggiunge, scava fino a che il risultato è di assoluta coesione e verosimiglianza. Grandissima cura, poi, nel cinema di Leigh è sempre stata data all'abbigliamento e agli oggetti, ben oltre la naturale credibilità dell'ambiente socioculturale di riferimento, ma veri e propri correlativi oggettivi del racconto. Avvicinato a Loach solamente per il milieu spesso preso in considerazione (ma è tutta tradizione inglese che proviene ancora dall'epoca "kitchen sink"), Leigh è in verità meno interessato al dato politico e ideologico, e molto più a quello umano e psicologico.
E così, quando si trova a governare un biopic in costume, nessuno si può aspettare un film in stile James Ivory. Turner, infatti, è un film dalle idee molto chiare. Un film sull'ultima relazione possibile di un artista con il mondo esperito. Turner rappresenta un pittore che prende lezioni dal vero, parafrasando il titolo del bell'episodio di Martin Scorsese contenuto in New York Stories e dedicato a tutt'altro tipo di artista (ma non meno "fisico" di quello cui dà corpo Timothy Spall). Anche se la sua arte, nell'ultima fase di carriera che viene raccontata dal film, diviene via via più radicale e astratta, per Turner decisivo è il rapporto con lo sguardo e con il paesaggio, tanto da andarlo a cercare con fatica e peregrinazioni. Solamente la fotografia, la cui comparsa ottocentesca viene evocata da Leigh, cambia per sempre la storia della pittura (interpretazione contestata ma sostanzialmente giusta).
Da questa idea consegue tutto: la materica corporeità del protagonista, della sua servitrice e del padre; la concreta artigianalità del gesto artistico (fatto di tele, legno cigolante, pavimenti sporchi, stracci macchiati, colori da impastare, ecc.); e persino la credibilità dei bellissimi paesaggi naturali, marittimi o campestri, che perdono ogni sapore di citazione erudita per riprendere la semplice funzione di veduta mozzafiato e panorama spettacolare. Come a dire che senza un certo tipo di natura, né realismo né romanticismo avrebbero avuto luogo.

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