francesco pierucci
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mercoledì 3 dicembre 2014
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il miglior film del 2014
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Ci tengo ad annunciarlo qui e ora: Mommy è il miglior film del 2014.
Così, con un mese d’anticipo e senza troppi fronzoli. Perché? Perché raramente un lungometraggio è riuscito a emozionarmi ininterrottamente per tutta la sua durata e a colpirmi così nel profondo da spingermi a desiderarne una seconda visione(forse l’ultimo in ordine di tempo era stato nel 2004 Million Dollar Baby).
Premiato ex aequo a Cannes con Audieu au langage di Godard, l’ultima opera di Dolan (25 anni e gia cinque film all’attivo!) ha il grande pregio di raccontare una storia archetipica (il complicato rapporto madre-figlio) in modo del tutto originale. Basti pensare semplicemente alla scelta dell’aspect ratio e alla sua declinazione nel corso della pellicola:se infatti il formato 1:1 ribattezzato polaroid o selfie è estremamente funzionale per accentuare il lavoro d’introspezione (sia da parte del regista che da parte del pubblico) sui protagonisti con lo stesso intento che un tempo spettava al Kammerspiel tedesco, la sua successiva mutazione è più emozionale e facilmente riconoscibile rispetto ad esempio a quella che componeva il Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, che da buon cinefilo aveva scelto coraggiosamente di utilizzare il passaggio dal 16:9 al 4:3 per omaggiare un certo tipo di cinema del passato (Lubitsch in primis).
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Ci tengo ad annunciarlo qui e ora: Mommy è il miglior film del 2014.
Così, con un mese d’anticipo e senza troppi fronzoli. Perché? Perché raramente un lungometraggio è riuscito a emozionarmi ininterrottamente per tutta la sua durata e a colpirmi così nel profondo da spingermi a desiderarne una seconda visione(forse l’ultimo in ordine di tempo era stato nel 2004 Million Dollar Baby).
Premiato ex aequo a Cannes con Audieu au langage di Godard, l’ultima opera di Dolan (25 anni e gia cinque film all’attivo!) ha il grande pregio di raccontare una storia archetipica (il complicato rapporto madre-figlio) in modo del tutto originale. Basti pensare semplicemente alla scelta dell’aspect ratio e alla sua declinazione nel corso della pellicola:se infatti il formato 1:1 ribattezzato polaroid o selfie è estremamente funzionale per accentuare il lavoro d’introspezione (sia da parte del regista che da parte del pubblico) sui protagonisti con lo stesso intento che un tempo spettava al Kammerspiel tedesco, la sua successiva mutazione è più emozionale e facilmente riconoscibile rispetto ad esempio a quella che componeva il Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, che da buon cinefilo aveva scelto coraggiosamente di utilizzare il passaggio dal 16:9 al 4:3 per omaggiare un certo tipo di cinema del passato (Lubitsch in primis).
Eppure, dopo la scettica visione di Tom à la ferme, mai avrei pensato di potermi innamorare dei personaggi di questo più che promettente regista canadese. E così piuttosto inaspettatamente mi sono perdutamente innamorato di Diane, una madre forte, una donna debole così come debole e contemporaneamente forte è suo figlio Steve che vorrebbe spaccare il mondo ma che invece si limita all’autodistruzione. E inevitabilmente mi sono invaghito anche di Kyla e della sua timidezza forzata che cela enorme sofferenza. Queste tre meravigliose anime tormentate, abbandonate a se stesse da una società che promulga leggi eticamente discutibili, finiscono con il formare una delle famiglie più affascinanti e atipiche mai viste sullo schermo. Dolan accudisce teneramente i membri di questo trio, ce li fa odiare e amare in un vorticoso parossismo sentimentale e con la sua regia ci stupisce e ci tiene in ansia per il loro futuro incerto che oramai è anche un po’ nostro. Impossibile tralasciare le interpretazioni degli attori: da una maestosa Anne Dorval (attrice feticcio del regista) al fragoroso Antoine Olivier Pilon fino ovviamente al tocco delicato di Suzanne Clément. Ma una menzione speciale la merita senz’altro la toccante colonna sonora che spazia tranquillamente da Einaudi agli Eiffel 65 passando per Celine Dion e gli Oasis (la loro Wonderwall accompagna quella che secondo me è la sequenza migliore del film) e che probabilmente rasenta la perfezione delle ballate folk di Inside Llewyn Davis.
Domani tornerò a vedere Mommy.
E poi lo farò ancora una volta.E ancora.
Poi nel buio della sala a un certo punto piangerò e mi sentirò finalmente libero, anche solo per due ore.
Questa è per me la magia del cinema.
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[+] assolutamente convincente
(di mattosc)
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[+] struggente e doloroso ma esaltante
(di no_data)
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vanessa zarastro
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martedì 9 dicembre 2014
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malattia e desiderio di normalità
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Mommy è un film impegnativo e inquietante che costituisce una riflessione sulla malattia mentale, sulla sua difficoltà di cura e sulla problematicità del conviverci. In un Canada che non appare particolarmente avanzato nelle ricerche scientifiche di cura della sofferenza psichiatrica, una madre (una fantastica Anne Doral) rimasta sola ancora giovane, un po’ impudica e un pò aggressiva, deve gestire un figlio quindicenne con turbe psichiche (ADHD disturbo di Deficit di Attenzione?) dimesso da una casa di rieducazione. Il film mostra la sofferenza del ragazzo (un bravo Antoine-Olivier Pilon) nei suoi alti e bassi, tra impeti vitali, manifestazioni di affetto e crisi violente, il quale non ha grandi prospettive future se non un comprensibile grande desiderio di libertà.
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Mommy è un film impegnativo e inquietante che costituisce una riflessione sulla malattia mentale, sulla sua difficoltà di cura e sulla problematicità del conviverci. In un Canada che non appare particolarmente avanzato nelle ricerche scientifiche di cura della sofferenza psichiatrica, una madre (una fantastica Anne Doral) rimasta sola ancora giovane, un po’ impudica e un pò aggressiva, deve gestire un figlio quindicenne con turbe psichiche (ADHD disturbo di Deficit di Attenzione?) dimesso da una casa di rieducazione. Il film mostra la sofferenza del ragazzo (un bravo Antoine-Olivier Pilon) nei suoi alti e bassi, tra impeti vitali, manifestazioni di affetto e crisi violente, il quale non ha grandi prospettive future se non un comprensibile grande desiderio di libertà. Diane, la madre, è attratta dalla seduzione della follia ma continuamente in antitesi con se stessa, divisa tra l’amore per il figlio e il desiderio di avere una propria vita e un’identità al di là dall’essere solo madre. Diane, infatti, è fagocitata dalle continue e esasperate richieste di attenzioni del figlio Steve.
La dolce e timida Kyle, (una deliziosa Susanne Clément) invece, è la nuova dirimpettaia che, a causa di qualche trauma recente (perdita di un figlio?), è diventata balbuziente; riuscirà a comunicare con Steve e a conquistarne la fiducia. Tre figure sofferenti, tre impossibilità a essere “normali”.
Si forma così un terzetto che riesce per un po’ anche a vivere, sorridere, comunicare e - perché no? – anche a divertirsi. Ma la vita è altro: richiede disciplina, norme, lavoro, soldi e il trio si deve sciogliere.
Il formato quasi quadrato più usato nel film è il 4:3 dove sembrerebbe esserci poco spazio per due persone comunicando un certo senso di claustrofobia. Il formato in 16:9 si troverà ogni tanto, in particolare nei sogni/desideri di normalità di Diane, per incorniciare il diploma del figlio e il suo matrimonio.
Lo spettatore vive il film con una profonda ansia precognitrice di qualche disgrazia. In ogni attimo può succedere di tutto…la catastrofe incalza ma in fondo non arriva mai, perché in ogni scena in sé c’è in fondo un disastro. Quella del karaoke su aria bocelliana è forse la più sublime.
Xavier Dolan è un giovanissimo regista già alla sua quinta esperienza. I suoi film riguardano sempre rapporti difficili specialmente tra madre e figlio come ad esempio J’ai Tué ma Mère del 2009; con il più maturo Mommy il regista – che ne è anche lo sceneggiatore - ha vinto il premio della regia alla 67ma edizione del Festival di Cannes.
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giovanni c
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venerdì 20 giugno 2014
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mommy: la libertà in un ritratto
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Il puro ritratto dell’amore verso un figlio.
Un figlio “voluto da Dio”, e non “pazzo”, e una madre che disegna una famiglia, colpita si, ma ancora in piedi.
Il tutto raccordato dall’amicizia di un’amica, compagna di vita, segnata ma con la speranza di continuare per sempre ad esser felice.
Il merito di Dolan è colpire con estrema eleganza, gusto e passione, costruendo e tirando fuori il senso di libertà di ogni personaggio.
E’ toccante come le confessioni e i momenti d’ira convergano nel voler dimostrare al mondo “quanto la razza umana” sia delicata e complessa e come una “deficienza” può rendere l’uomo più completo e attento all’anima altrui.
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Il puro ritratto dell’amore verso un figlio.
Un figlio “voluto da Dio”, e non “pazzo”, e una madre che disegna una famiglia, colpita si, ma ancora in piedi.
Il tutto raccordato dall’amicizia di un’amica, compagna di vita, segnata ma con la speranza di continuare per sempre ad esser felice.
Il merito di Dolan è colpire con estrema eleganza, gusto e passione, costruendo e tirando fuori il senso di libertà di ogni personaggio.
E’ toccante come le confessioni e i momenti d’ira convergano nel voler dimostrare al mondo “quanto la razza umana” sia delicata e complessa e come una “deficienza” può rendere l’uomo più completo e attento all’anima altrui.
Sguardi e gesti orientanti a capire se stessi e a cosa penserebbe l’altro, è un cercarsi per guarire.
“L’amore non basta”, ma non basta esser rinchiusi.
Movimenti semplici, per un cinema che non deve osare ma raccontare senza strafare.
Per quanto semplici quindi, corretti, con splendidi controcampi centrati, considerando il falso 4:3, e sfocature per orientare lo sguardo.
Linguaggi di peso e sottili, pieni di humor nero che deve raccogliere la drammaticità rappresentata.
I brani non sono un contorno, ma continuano ciò che le parole per un momento non dicono: gesto e azione, abbracciano quei momenti, dove la musica rallenta ciò che sta accadendo, per ascoltare con il cuore.
E proprio proprio quello che ci mette Dolan, dove bagna con la pioggia il finestrino di una macchina invece di una guancia, e sfoca persone e ricordi con l’obiettivo, piuttosto che con la mente.
Temi complessi, delicatissimi, profondi, abissali quasi, da gestire con tatto, con senso di responsabilità, di rispetto.
Una sospensione di centoquaranta minuti all’interno di un mondo dove non è facile entrare, quasi impossibile, ma Dolan dà la possibilità, come solo il cinema sa fare, di “sbirciare”, di farne parte, allargando letteralmente il punto di vista: ecco la libertà.
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catcarlo
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mercoledì 10 dicembre 2014
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mommy
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A venticinque anni, un (bel) po’ di sana incoscienza è inevitabile e allora il canadese francofono Dolan scrive e dirige queste montagne russe di emozioni che mischiano tocchi di commedia, in maggioranza nella prima parte, e scene grondanti melodramma che dominano il tratto conclusivo, utilizzando schemi e situazioni che finiscono per alternare il teatro da camera a tocchi di pura estetica pop in cui una colonna sonora estremamente variegata nel tempo e nello spazio gioca un ruolo fondamentale (oltre a sfoggiare il miglior utilizzo di ‘Wonderwall’ di sempre). Ma se all’incoscienza di cui sopra si unisce una capacità di fare cinema che combina una notevole perizia a una delicata sensibilità, l’accumulo di elementi eterogenei finisce per risultare in un amalgama talmente coinvolgente da far soprassedere sui difetti che pure ci sono: ‘Mommy’ non è un film perfetto (anche perché il regista è assai più interessato allo sviluppo di personaggi e sentimenti che alla coerenza nello svolgimento della storia), ma sa emozionare nel profondo a un livello tale che forse la perfezione non permetterebbe di raggiungere.
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A venticinque anni, un (bel) po’ di sana incoscienza è inevitabile e allora il canadese francofono Dolan scrive e dirige queste montagne russe di emozioni che mischiano tocchi di commedia, in maggioranza nella prima parte, e scene grondanti melodramma che dominano il tratto conclusivo, utilizzando schemi e situazioni che finiscono per alternare il teatro da camera a tocchi di pura estetica pop in cui una colonna sonora estremamente variegata nel tempo e nello spazio gioca un ruolo fondamentale (oltre a sfoggiare il miglior utilizzo di ‘Wonderwall’ di sempre). Ma se all’incoscienza di cui sopra si unisce una capacità di fare cinema che combina una notevole perizia a una delicata sensibilità, l’accumulo di elementi eterogenei finisce per risultare in un amalgama talmente coinvolgente da far soprassedere sui difetti che pure ci sono: ‘Mommy’ non è un film perfetto (anche perché il regista è assai più interessato allo sviluppo di personaggi e sentimenti che alla coerenza nello svolgimento della storia), ma sa emozionare nel profondo a un livello tale che forse la perfezione non permetterebbe di raggiungere. Per alzare ulteriormente la posta, Dolan ha deciso di girare il film in formato 1:1 che sul grande schermo tende ad allungarsi verso l’alto quasi a simulare il display di un cellulare: una scelta stilistica che stringe sui personaggi in modo coerente con le vicende della loro esistenza – a parte un paio di brevi e illusorie aperture – ma che richiede all’inquadratura una precisione millimetrica (la fotografia è di André Turpin) e allo spettatore un certo spirito di adattamento. A prescindere dagli aspetti tecnici, per testimoniare la bravura del regista basterebbe la sola considerazione di come una trama esilissima venga trattata per due ore e un quarto senza un attimo di cedimento o un calo di tensione: la piccola storia di Diane che, malgrado le difficoltà, decide di riprendersi in casa il figlio adolescente Steve, al quale l’iperattività impedisce ogni tipo di autocontrollo, viene trasformata in un’avventura più grande della vita. La ricostruzione dell’amore tra i due è tutto meno che semplice, minata sia dai problemi del ragazzo, sia dalla fragilità della donna che vive un’esistenza scombinata ed è tutto meno che una madre perfetta: l’arrivo della vicina Kyla (altra figura fragilissima, afflitta da una fredda vita familiare e da una balbuzie di origine psicologica) come terzo vertice dell’improbabile triangolo pare riportare un po’ di luce, ma né lei né il comunque fortissimo affetto che lega i due personaggi principali potrà evitare lo scivolamento verso la tragedia (svolta favorita da un tocco di fantasociologia tanto per non farsi mancar nulla). Raccontata così magari suona come una versione postmoderna di una via di mezzo fra ‘Catene’ e ‘Incompreso’ e non si capisce il Premio della Giuria a Cannes, ma è davvero difficile descrivere a fondo un’opera come questa, con le sue sottigliezze e la sua capacità di sfruttare i clichè per costruire qualcosa del tutto diverso: basti ricordare il momento, non a caso ripreso anche sulle locandine, in cui Steve mette una mano sulla bocca della madre e poi ne bacia il dorso. Non vanno però dimenticati, almeno, l’efficace scelta dei colori, che alternano i tono caldi degli interni casalinghi a quelli freddi (malgrado il foliage) degli esterni immersi nell’autunno canadese, e la mirabile prova degli interpreti, con i tre principali che non eccedono mai nella misura benché i personaggi siano almeno qua e là a rischio e fra i quali spicca Anne Dorval che disegna con finezza l’anima tormentata di Diane.
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antonietta dambrosio
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lunedì 15 dicembre 2014
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tornado di fuoco e cenere
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Inquietudine e senso di soffocamento dato dal restringimento dello spazio entro cui Xavier Dolan ci racchiude, sono sensazioni immediate da cui si avverte l’urgenza di sottrarsi, di scappare. Ma Dolan non ci lascia tempo per proteggerci, ci inchioda alla poltrona trascinandoci fino allo strazio in uno spazio angusto dove si respira aria di amore malato con un’energia esplosiva, incontenibile, rumorosa. In un formato 1:1 fa muovere Diane (Anne Dorval), vedova da tre anni che fa già fatica a gestire la sua vita, eccessiva nei gesti e nel look, che tra una sigaretta ed una parola volgare, si vede costretta ad occuparsi di suo figlio Steve (Antonine-Olivier Pilon) dopo l’espulsione da un istituto di recupero per ragazzi borderline, a causa di un incendio provocato dal ragazzo.
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Inquietudine e senso di soffocamento dato dal restringimento dello spazio entro cui Xavier Dolan ci racchiude, sono sensazioni immediate da cui si avverte l’urgenza di sottrarsi, di scappare. Ma Dolan non ci lascia tempo per proteggerci, ci inchioda alla poltrona trascinandoci fino allo strazio in uno spazio angusto dove si respira aria di amore malato con un’energia esplosiva, incontenibile, rumorosa. In un formato 1:1 fa muovere Diane (Anne Dorval), vedova da tre anni che fa già fatica a gestire la sua vita, eccessiva nei gesti e nel look, che tra una sigaretta ed una parola volgare, si vede costretta ad occuparsi di suo figlio Steve (Antonine-Olivier Pilon) dopo l’espulsione da un istituto di recupero per ragazzi borderline, a causa di un incendio provocato dal ragazzo. Noi siamo tra madre e figlio, in un amore morboso urlato, sussurrato, violento e sofferto, incapace di stare in equilibrio, finché non arriva Kyla (Suzanne Clément), la loro vicina. Gli occhi di Kyla sono coperti da uno strato di tristezza, buio come la voragine di un dolore troppo grande che la induce a distaccarsi dalla sua famiglia per proiettare su Steve l’amore verso il figlio perduto. I ritmi si fanno più lenti in un’atmosfera di gioia, complicità e cura paziente, ed il nostro respiro si allunga nella stessa misura in cui Steve allarga lo schermo sulle note di Wonderwall degli Oasis, lasciando spazio alla prospettiva di un futuro diverso. E’ anche la misura del sogno di Diane che viene dopo aver raccontato a suo figlio di come la natura voglia che col passar del tempo lei lo ami sempre di più, così come lui dovrà imparare ad amarla sempre meno. Ma lo spazio di un sogno è un attimo che vola via con l’illusione che si possa forzare o cambiare la natura umana e la più dura realtà rompe l’incanto. Grande lavoro di Xavier Dolan, premiato a Cannes dalla giuria, che a soli venticinque anni è già al suo quinto film ed irrompe nelle sale come un tornado di fuoco e cenere e la cui splendida interpretazione è materia della follia.
Antonietta D'Ambrosio
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fabiofeli
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domenica 14 dicembre 2014
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la speranza non vuole morire
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Mommy di Xavier Nolan
Diane Després (Anne Dorval), una bella signora 40enne, è vedova da alcuni anni; gran fumatrice e bevitrice, affronta un grave problema in aggiunta alla recente perdita del lavoro: suo figlio Steve (Antoine-Olivier Pilon), recluso in un istituto di correzione canadese per minori, ha procurato gravi ustioni ad un altro ragazzo internato, avendo appiccato il fuoco all’aula scolastica. Viene convocata nell’istituto per riprendere il giovane con sé. Tra la donna e l’adolescente violento e incontrollabile, ma anche capace di slanci e tenerezze verso la madre, si dipana il racconto di un rapporto complicato sempre sull’orlo di una crisi irreversibile. Diane potrebbe ricorrere anche all’estremo rimedio offerto da una legge canadese del 2015 (la storia è quindi immaginata in un futuro molto vicino), che permette ai genitori dei figli difficili di farli sottoporre a un trattamento sanitario obbligatorio; ma lei rimanda la dolorosa scelta cercando un compagno per sé, che potrebbe funzionare come surrogato di figura paterna per il ragazzo, legatissimo alla memoria del padre scomparso.
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Mommy di Xavier Nolan
Diane Després (Anne Dorval), una bella signora 40enne, è vedova da alcuni anni; gran fumatrice e bevitrice, affronta un grave problema in aggiunta alla recente perdita del lavoro: suo figlio Steve (Antoine-Olivier Pilon), recluso in un istituto di correzione canadese per minori, ha procurato gravi ustioni ad un altro ragazzo internato, avendo appiccato il fuoco all’aula scolastica. Viene convocata nell’istituto per riprendere il giovane con sé. Tra la donna e l’adolescente violento e incontrollabile, ma anche capace di slanci e tenerezze verso la madre, si dipana il racconto di un rapporto complicato sempre sull’orlo di una crisi irreversibile. Diane potrebbe ricorrere anche all’estremo rimedio offerto da una legge canadese del 2015 (la storia è quindi immaginata in un futuro molto vicino), che permette ai genitori dei figli difficili di farli sottoporre a un trattamento sanitario obbligatorio; ma lei rimanda la dolorosa scelta cercando un compagno per sé, che potrebbe funzionare come surrogato di figura paterna per il ragazzo, legatissimo alla memoria del padre scomparso. Per Steve, invece, sembra più adatta per far crescere e consolidare il rapporto con la madre un’altra vicina di casa, Kyle (Suzanne Clément), una donna singolare, una timida insegnante in anno sabbatico afflitta da balbuzie, apparentemente estraniatasi dalla sua famiglia composta da un marito ed una figlia piccola. Il ragazzo percorre felice le vie del quartiere su un carrello della spesa utilizzato come uno skate-board, e quasi decolla con il suo long-board, uno skate speciale: quest’ultimo arnese e il sodalizio con Kyle e Diane sembrano permettere l’apertura di nuovi orizzonti umani e forse lo sbocciare di una personalità guarita, positiva, ben descritta dall’abbandono del close-up dell’inquadratura su di lui per passare al distendersi delle braccia in una immagine a figura finalmente intera. Sarà proprio così? …
Il talento del regista 25enne, molte opere del quale hanno avuto favorevoli critiche cinematografiche, si manifesta in pieno: usa toni spesso urlati e drammatici, ma anche accenti sommessi non meno dolorosi e carichi di pathos. Una recitazione alla grande, intensa, caravaggesca della Dorval con il supporto fondamentale del giovane Pilon e della Clément, che dividono la scena con lei scavando per sé uno spazio da protagonisti. Il racconto ha un montaggio serrato; dell’uso sapiente della macchina si è già accennato: quasi sempre sui primi e primissimi piani, come si conviene al grande cinema a tutte le latitudini. Si sfiora il capolavoro, con una sbavatura, a mio giudizio, rappresentata dalla lunghezza della scena nella quale Diane immagina come sarà la nuova vita di Steve. Un perdonabile inciampo che non sminuisce il grande valore del film, che è stato premiato a Cannes a pari merito con un mostro sacro del calibro di Jean-Luc Godard. Da non mancare.
Valutazione ****
FabioFeli
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flyanto
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martedì 9 dicembre 2014
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quando l'affeto e le cure di una madre non bastano
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Film in cui si racconta di una mamma che deve prendersi cura del proprio figlio affetto dal deficit di attenzione, e pertanto abbastanza disturbato psicologicamente, il quale, dopo numerose azioni vandaliche, è stato cacciato dall'istituto presso cui era in cura. Non volendo rinchiuderlo nuovamente in un altro istituto o, peggio, nel riformatorio, ella decide di tenerlo in casa con sè e cercare di aiutarlo con tutto l'affetto possibile. Ma la convivenza col ragazzo si dimostrerà assai difficile ed ovviamente più problematica del previsto e a nulla serviranno pure le attenzioni rivolte al ragazzo per ciò che concerne lo studio da parte di una vicina timida e balbuziente.
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Film in cui si racconta di una mamma che deve prendersi cura del proprio figlio affetto dal deficit di attenzione, e pertanto abbastanza disturbato psicologicamente, il quale, dopo numerose azioni vandaliche, è stato cacciato dall'istituto presso cui era in cura. Non volendo rinchiuderlo nuovamente in un altro istituto o, peggio, nel riformatorio, ella decide di tenerlo in casa con sè e cercare di aiutarlo con tutto l'affetto possibile. Ma la convivenza col ragazzo si dimostrerà assai difficile ed ovviamente più problematica del previsto e a nulla serviranno pure le attenzioni rivolte al ragazzo per ciò che concerne lo studio da parte di una vicina timida e balbuziente. La situazione non potrà che precipitare inevitabilmente....
Questa pellicola, opera prima a noi giunta dal giovanissimo (solo 25 anni) franco-canadese Xavier Dolan che prima di questa ne ha già girate ben quattro, risulta assai cruda nel suo contenuto prendendo in esame la situazione alquanto critica che una mamma si trova costretta a sostenere prendendosi cura del proprio figlio disturbato psicologicamente. Quello che Dolan presenta, come in tante altre pellicole franco-canadesi (come, per esempio, "Gabrielle") che hanno affrontato ed affrontano tale tipo di argomenti, è la situazione difficile, sia dai punti di vista materiale e pratico che da quelli, ancor più gravi, psicologico ed affettivo, che molte famiglie devono affrontare cercando di esserne all'altezza e, non essendolo, fallendo poi, purtroppo, miseramente nell'intento. Ma la finezza psicologica, nonchè il realismo quanto mai crudo e purtroppo spietato e diretto con cui Dolon espone la vicenda e la problematica in generale, rendono questo film un piccolo capolavoro, come giustamente è stato riconosciuto e premiato dalla giuria nel corso dell'ultimo Festival di Cannes. Lo spettatore non può fare a meno di soffrire e partecipare alle angosce della madre protagonista assistendo alle varie scene toccanti e, in certi punti, addirittura spietate, ma proprio qui, appunto, sta la grandezza di questo lavoro che induce a riflettere sicuramente a fondo ed a lungo ed arrivando a condividere ed approvare l'inevitabile ed estremo e quanto mai doloroso epilogo.
Inoltre, la sapiente ed accurata scelta da parte del regista degli attori nonchè la loro bravura ad interpretare ciascuno il proprio ruolo, per giunta non facile e dunque assai impegnativo, ha notevolmente contribuito all'ottima riuscita dell'opera. Da Anne Dorval (già musa delle pellicole precedenti di Dolan) che interpreta la mamma ancora giovane, attraente e anch'ella molto esuberante e che non si vuole arrendere alle problematiche del figlio essendo fiduciosa del suo affetto al fine di guarirlo, a Suzanne Clément (altra musa di Dolan) che impersona molto efficacemente la vicina volenterosa, timida e balbuziente e con una sua vita poco soddisfacente, sino al giovanissimo Antoine-Olivier Pilon che interpreta il giovane adolescente disturbato al meglio rendendo credibile e quanto mai toccante il proprio personaggio, lo spettatore assiste a tre grandi prove d'attore.
Da non trascurare, inoltre, anche la colonna sonora composta da brani di musiche molto accattivanti e quanto mai azzeccate a fare da sfondo alle varie scene.
Insomma, nulla, direi, risulta fuori posto o lasciato al caso in questo film e pertanto esso è sicuramente da consigliare a chi apprezza le storie forti e soprattutto il buon cinema.
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kimkiduk
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lunedì 25 maggio 2015
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stupefacente
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E' stupefacente come un ragazzo/regista di 25 anni sappia fare un film così. Tutti lo dicono ma questa volta ..... è la verità. Prova difficile, una mattonata allo stomaco dall'inizio alla fine, senza bisogno di nomi altisonanti come attori; forse meglio così ----- se penso a qualche italiano nei panni di Steve o Diane ..... devo pensarci parecchio e per parecchi rido. Senza sicuramente mezzi tecnici da Cloony o Pitt o Sorrentino. Ma non ne ha tanto bisogno. Complimenti a Dolan nel raffigurare un rapporto madre/figlio di questa intensità. Io non ho esperienza personale, ma credo che raffigurare una situazione del genere così si possa fare quasi soltanto per vissuto.
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E' stupefacente come un ragazzo/regista di 25 anni sappia fare un film così. Tutti lo dicono ma questa volta ..... è la verità. Prova difficile, una mattonata allo stomaco dall'inizio alla fine, senza bisogno di nomi altisonanti come attori; forse meglio così ----- se penso a qualche italiano nei panni di Steve o Diane ..... devo pensarci parecchio e per parecchi rido. Senza sicuramente mezzi tecnici da Cloony o Pitt o Sorrentino. Ma non ne ha tanto bisogno. Complimenti a Dolan nel raffigurare un rapporto madre/figlio di questa intensità. Io non ho esperienza personale, ma credo che raffigurare una situazione del genere così si possa fare quasi soltanto per vissuto. Ha vinto poco per quel che merita. Caro Dolan ti aspetto al prossimo ... io ci sarò a vederti.
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nerone bianchi
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domenica 7 dicembre 2014
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quell'ultima stella
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Il primo elemento che colpisce in questo film è il formato con cui ci viene presentato, un rettangolo stretto, dove c'è posto per poche persone alla volta, si capisce così, dopo pochi minuti, che siamo su un piano molto introspettivo del racconto, il seguito dimostra che il lettino dello psicoanalista è per soli tre posti. Il secondo aspetto è la capacità del regista di intrecciare nel racconto quegli elementi che permettono allo stesso di srotolarsi per quasi due ore e mezza senza che la tensione e l'attenzione possano permettersi di scendere.
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Il primo elemento che colpisce in questo film è il formato con cui ci viene presentato, un rettangolo stretto, dove c'è posto per poche persone alla volta, si capisce così, dopo pochi minuti, che siamo su un piano molto introspettivo del racconto, il seguito dimostra che il lettino dello psicoanalista è per soli tre posti. Il secondo aspetto è la capacità del regista di intrecciare nel racconto quegli elementi che permettono allo stesso di srotolarsi per quasi due ore e mezza senza che la tensione e l'attenzione possano permettersi di scendere. Il resto è poesia in immagini, è storia credibile, con attori straordinari e situazioni ben presentate. Ad un certo punto, quando siamo certi di essere atterrati finalmente nel cuore della vicenda, in quella regione profonda dove l'amore di una madre per un figlio si veste di mistero, il racconto gira, prendendo una strada inaspettata che ha le sembianze di un Istituto. Questo passaggio spezza la tranquillità a cui ci stavamo abituando, avevamo da poco sistemato i tre personaggi in una casella da lieto fine quando tutto si rompe. L'immagine finale del ragazzo che corre verso la vetrata dell'istituto lascia la ferita aperta (fuga o suicidio) rigettando la figura della Mommy in un luogo indefinito, lontano dalla simpatia che si era pian piano conquistata nei nostri cuori. Questo epilogo tutt'ora mi sfugge, portandosi via quell'ultima stella di gradimento che altrimeti ci sarebbe stata tutta.
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enrico danelli
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lunedì 22 dicembre 2014
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così vero da stare male
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Questo flm è come le medicine: si dice che più siano cattive, più siano efficaci. Regia coinvolgente con la trovata geniale di restringere il formato a un quadrato perfetto, ma claustrofobico per quasi tutto il film, alllargandolo solo in due occasioni : un raro periodo di felicità e spensieratezza (bruscamente interrotto da una citazione in giudizio) e il sogno ad occhi aperti di un futuro felice che non si realizzerà mai. Mamma inadeguata (come ce ne sono tante) a gestire una situazione difficile, anzi forse lei stessa causa del tutto. Ragazzo disadattato (come ce ne sono tanti) seguito male dalla mamma e compreso solo dall'angelo balbuziente che irrompe nella sua vita.
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Questo flm è come le medicine: si dice che più siano cattive, più siano efficaci. Regia coinvolgente con la trovata geniale di restringere il formato a un quadrato perfetto, ma claustrofobico per quasi tutto il film, alllargandolo solo in due occasioni : un raro periodo di felicità e spensieratezza (bruscamente interrotto da una citazione in giudizio) e il sogno ad occhi aperti di un futuro felice che non si realizzerà mai. Mamma inadeguata (come ce ne sono tante) a gestire una situazione difficile, anzi forse lei stessa causa del tutto. Ragazzo disadattato (come ce ne sono tanti) seguito male dalla mamma e compreso solo dall'angelo balbuziente che irrompe nella sua vita. Peggio di una poesia di Leopardi, il film non lascia speranze a nessuno, sia a livello individuale (l'essere umano è solo e incapace e Dio o qualsiasi accenno religioso sono totalmente assenti) e a livello sociale (la comunità - stato cura gli sfortunati disadattati con la camicia di forza e con gli immobilizzatori elettrici). Sconsigliatissimo per chi è già giù di morale e vive una situazione analoga. Fantastico per la sua crudezza e verità.
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