Il seminarista |
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Un film di Gabriele Cecconi.
Con Filippo Massellucci, Andrea Pelagalli, Gianluigi Tosto, Giorgio De Giorgi.
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Drammatico,
durata 105 min.
- Italia 2014.
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Un grande film d'autoredi GordianoFeedback: 108 | altri commenti e recensioni di Gordiano |
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martedì 22 luglio 2014 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Il seminarista è un film d'autore in senso pieno, non solo perché il regista è autore di soggetto, sceneggiatura (con la collaborazione di Ugo Chiti) e montaggio, ma soprattutto perché la materia narrata è intensa, realistica, filologicamente corretta e storicamente ben documentata. Romanzo di formazione - ché di questo si tratta - di un prete mancato, racconto commosso di un'infanzia e di un'adolescenza passata in seminario, insieme a un gruppo di amici che hanno condiviso la sua vita. Guido, professore in un liceo di Prato, un bel giorno si sofferma a guardare la sua infanzia da una fessura che dà sul cortile del seminario. Apprezzabile l'escamotage della fotografia a colori che diventa bianco e nero non appena si racconta il passato, come è interessante la dissolvenza stemperata che riporta il protagonista ai giorni di bambino. Bravo Andrea Locatelli che realizza una fotografia esente da pecche, dai toni cangianti, a tratti caldi e avvolgenti, ma in certe situazioni freddi e cupi. Il film procede come un lungo flashback bergmaniano nel quale Guido ritorna bambino di dieci anni per mano a sua madre che l'accompagna in seminario mentre in sottofondo scorrono le note di Ciao ciao bambina. Il regista descrive la vita in seminario con dovizia di particolari, l'amicizia cameratesca tra i ragazzi, gli sfottò al pugliese (chiamato marocchino per il colore scuro della pelle), il più povero di tutti, la bontà di Sandro, destinato a morire, la ribellione di Guido (detto ritrosa). I bambini sono molto bravi, così come lo sono gli attori adolescenti e adulti - per niente noti ma ben calati nella parte - recitano in un fiorentino spontaneo, comprensibile e privo di eccessi. Vediamo la ricorrenza del due novembre, i racconti dei morti, la mensa dove se non si mangia si viene puniti, i castighi imposti per inezie, i preti retrogradi e i sacerdoti progressisti, persino gli insegnanti pedofili. La ricostruzione d'epoca anni Sessanta è straordinaria: auto, biciclette, moto, abbigliamento, persino paste, figurine dei calciatori; il tono è malinconico, persino triste, toccante quando muore uno dei ragazzi. Proustiano nella ricerca del tempo perduto, molto Giovane Holden in tante sequenze, con una spruzzatina de Il posto delle fragole, che ci sta sempre bene. Un film che parla di solidarietà tra ragazzi, di scoperta dell'amore, di cinema che cambia con il passare degli anni, di una Chiesa che si macchia di assurdi peccati ma poi li nasconde, di una speranza riposta in chi mette l'amore al primo posto. Notevole la scena della proiezione in seminario de La magnifica preda (1954) di Otto Preminger, con il preside che cerca in ogni modo di nascondere le grazie procaci di Marilyne Monroe. La dolce vita è un film immorale e il cinema un pericolo, per la Chiesa oscurantista, al punto che i ragazzi sono obbligati a chinare la testa davanti al Politeama di Prato quando in cartellone c'è Non perdiamo la testa con Ugo Tognazzi. Il regista racconta la formazione umana di Guido, che fuma e s'innamora come tutti gli adolescenti, fino a quando - deluso dai superiori e sconcertato per la morte dell'amico - si abbandona al sentimento terreno per Giulia e decide di uscire dal seminario. In definitiva il regista lancia un messaggio religioso molto coraggioso: "Ci sono modi diversi e opposti d'intendere il Vangelo. Bisogna pensare con la propria testa e non farsi mettere il lucchetto ai propri pensieri", come dice il bibliotecario ribelle vicino alle idee di Don Milani.
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