Mi aspettavo una lettura più visionaria e personale della vita di Leopardi.
In questo film invece il poeta è rappresentato secondo il consueto leit motif del genio incompreso e “mal dans sa peau”. Intendiamoci, si viaggia su livelli notevoli di intensità e qualità, che a tratti mi hanno molto emozionato, ma ho avuto l’impressione che il regista non abbia saputo osare, o abbia scelto di non stravolgere la vulgata leopardiana che lo vuole profondo erudito, menomato fisicamente, poco felice in amore, con madre anaffettiva e padre iper-esigente.
Per questo ho trovato dei punti di debolezza, anziché di forza, gli elementi estetici del film che lisciano il pelo a questa conventional wisdom: l’apparenza quasi chaplinesca, in redingote e bastone, oppure l’aneddoto assurto a leggenda metropolitana del suo rifiuto di usare il coltello a tavola, più volte citato nel film.
Più nello specifico, l’azione e i meccanismi drammatici vengono sempre innescati da una tensione fra il poeta e il suo contesto sociale (prima problemi e scazzi con i genitori e il meschino ambiente di paese, poi con l’invidia altezzosa dei frequentatori dei circoli intellettuali fiorentini, poi con il beffardo volgo napoletano), ma mai da una riflessione più assoluta del poeta e della sua percezione di sé, e sulla sua angoscia esistenziale e della sua disperazione ontologica, di cui pure ha lasciato ampia traccia nelle sue opere.
Si potrebbe quasi rimproverare a Martone di aver ceduto allo stesso errore che Leopardi rimprovera ai suoi interlocutori nella scena della gelateria napoletana: “ non imputate al corpo quello che si deve al mio intelletto”, perché questo film imputa al depaysement sociale di leopardi quanto invece si deve al suo intelletto di filosofo e poeta eccelso, che è stato fonte di ispirazione e ammirazione per pensatori successivi come Nietsche e Schopenauer.
Partendo da questa base, gli elementi stilistici e sostanziali che ho più apprezzato sono costituiti dalle poche tracce visionarie/oniriche, quasi psichedeliche, come quando Giacomo sogna ad occhi aperti di ribellarsi violentemente al padre e allo zio che lo inquisiscono, oppure nella visualizzazione simbolista della natura matrigna sotto forma di un moloch di sabbia che si sbriciola. O ancora l’ottima colonna sonora elettronica di Apparat , al secolo Sascha Ring, anacronistica rispetto al film, così come fece Sophia Coppola con la sua Marie Antoinette.
Insomma la biografia ma soprattutto l’opera di Leopardi si presterebbero ad una lettura “rock” del personaggio che ne restituisse l’attualità e l’inquietudine universale provate dalle anime sensibili e talentuose davanti alla tragedia della condizione umana. Questa buffa tragicommedia del vivere in lui si riflettono in un percorso quasi cristologico di annientamento fisico che pure ha saputo affrontare con dignità ma anche con ironia
Da questo punto di vista, premesso a caratteri cubitali che recitare così intensamente l’infinito e la ginestra valgono il prezzo del biglietto, perché non attingere invece dallo zibaldone e dalle operette morali le sue pagine più intensamente visionarie ed esistenziali? sarebbe stato di sicuro più originale e avrebbe dischiuso ai più il drammatico splendore del Leopardi meno noto.
[+] lascia un commento a martineden »
[ - ] lascia un commento a martineden »
|