adelio
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mercoledì 4 marzo 2015
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la mediocrità del fanghetto e .. le povertà umane
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Film decisamente di taglio nordico, essenziale... direi inesorabile sia sotto l'aspetto contenutistico che di tecnica cinematografica.
L'impostazione è quella della transposizione del teatro sul grande schermo. Ci scorrono, a modi palcoscenico, circa 40 quadri a ripresa fissa ..che da spettatori increduli leggiamo come surreali, assurdi e financo atroci per il nostro abituale sentire umano.
Sono pezzi di vita vera che noi uomini "sociali" e" tecnologici" neanche più riconosciamo benchè vissuti e quotidianamente presenti sotto i nostri occhi. Situazioni al limite del teatro di Beckett, con 2 piazzisti di "scherzi di carnevale" nei panni di moderni Didi e Gogo di "Waiting for Godot".
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Film decisamente di taglio nordico, essenziale... direi inesorabile sia sotto l'aspetto contenutistico che di tecnica cinematografica.
L'impostazione è quella della transposizione del teatro sul grande schermo. Ci scorrono, a modi palcoscenico, circa 40 quadri a ripresa fissa ..che da spettatori increduli leggiamo come surreali, assurdi e financo atroci per il nostro abituale sentire umano.
Sono pezzi di vita vera che noi uomini "sociali" e" tecnologici" neanche più riconosciamo benchè vissuti e quotidianamente presenti sotto i nostri occhi. Situazioni al limite del teatro di Beckett, con 2 piazzisti di "scherzi di carnevale" nei panni di moderni Didi e Gogo di "Waiting for Godot".
Pellicola da scuola di cinema, da intendersi come strumento per formare lo spettatore alla lettura del linguaggio cinematografico, dei suoi tempi e dei suoi simboli. Ognuno sarà libero di dare, secondo sensibilità di coscienza, la propria interpretazione alle immagini di questo film, la mia è una lettura, magari parziale, ma ho visto essenzialmente rappresentare la mediocrità dell'essere umano indipendentemente dai tempi e ...dalle categorie sociali di appartenenza dei personaggi.
I 2 venditori paiono addirittura la personificazione sdoppiata del Bene e del Male, sono espressione del sentire massificato (vedi Roland Barthes) e ...vendono le povertà umane ...le tre peggiori qualità dell'uomo occidentale: denti di vampiro (aggressività), sacchetto che ride (derisione subdola), la maschera di dentone (falsità).
Il resto è squallore color "fanghetto" (sfondi, pareti, pavimenti) tutto uniformato e tenue come il mutevole comune senso popolare. La vita è immobile...quando si dà una mossa è perchè nulla cambi..come dei passi di flamenco...rapidi ..appariscenti ma fermi sul posto, la vita è sempre altrove ("sono contento di sapere che state bene") ed è sempre mediata da un telefono.
Ci fanno compagnia le canzonette (John Brown giace nella tomba là ..) quelle che ci infondo appartenenza e sicurezza, Andersson quando tocca la sfera individuale appoggia i suoi personaggi su pavimenti "indefiniti" color "cacca", quando affronta la sfera sociale i pavimenti sono a "quadri"...come scacchiere dove vigono le regole ma.... sempre abbastanza scialbi.
Forse troppo didascalici alcuni temi proposti quali la stupidità del Potere (vedi figura del Re), la voracità dell'Imperialismo (caldaia che cuoce degli schiavi di colore) e la nefasta previsione di una sorte insulsa x un neonato immaginato dentro una carrozzina...naturalmente anch'essa "Beige"...benchè al centro di un palcoscenico naturale e colorato.
Neanche l'amore di un uomo e una donna che si "toccano" su una duna sabbiosa e incolore sembra riscattare la condizione di deriva della persona e di noia sociale. L'inutilità dello scorrere del tempo è rimarcata dal dubbio di che giorno sia della settimana ...(Mercoledì...? Giovedì?..o Martedì?)....nulla cambia nella mediocrità infinita dell'uomo...è la noia ..la noia senza soluzione di continuità.
Film non per tutti e sicuramente non per il grande pubblico.....culturalmente interessante anche se ritengo sia da vedere con l'umore giusto.
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catcarlo
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martedì 24 febbraio 2015
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un piccione seduto su un ramo riflette sull'esiste
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Spettatori all’interno di un cinema: perplessi. La citazione del film di Alexander Kluge è con molta probabilità più pertinente riguardo all’ermetico procedere di entrambe le pellicole –premiate a Venezia a distanza di quarantasei anni – che nei confronti del pubblico presente. Il quale, numeroso in maniera sorprendente, è sembrato tutt’altro che dubbioso nel proprio giudizio: chi dopo un’ora si è alzato e se ne è andato, chi ha tirato un rumoroso sospiro di sollievo ai titoli di coda, chi si è lasciato andare a giudizi poco lusinghieri (eufemismo) in modo che tutti sentissero. Reazioni senza dubbio eccessive, ma comprensibili nel loro rifiutare un’opera estremamente concettuale e complessa che fa di tutto per prendere contropelo chi guarda: eccessivo, però, pare anche il Leone d’Oro assegnato a un lavoro di grande, quasi ipnotico rigore formale, ma che nell’ultimo terzo perde qualche colpo per voler troppo aggiungere o forse troppo insistere.
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Spettatori all’interno di un cinema: perplessi. La citazione del film di Alexander Kluge è con molta probabilità più pertinente riguardo all’ermetico procedere di entrambe le pellicole –premiate a Venezia a distanza di quarantasei anni – che nei confronti del pubblico presente. Il quale, numeroso in maniera sorprendente, è sembrato tutt’altro che dubbioso nel proprio giudizio: chi dopo un’ora si è alzato e se ne è andato, chi ha tirato un rumoroso sospiro di sollievo ai titoli di coda, chi si è lasciato andare a giudizi poco lusinghieri (eufemismo) in modo che tutti sentissero. Reazioni senza dubbio eccessive, ma comprensibili nel loro rifiutare un’opera estremamente concettuale e complessa che fa di tutto per prendere contropelo chi guarda: eccessivo, però, pare anche il Leone d’Oro assegnato a un lavoro di grande, quasi ipnotico rigore formale, ma che nell’ultimo terzo perde qualche colpo per voler troppo aggiungere o forse troppo insistere. Insomma, un classico film da festival che, grazie al premio, anche i comuni spettatori hanno potuto vedere: minacciosi fin dal titolo – i titoli troppo lunghi (questo ispirato a un quadro di Bruegel) sono spesso segnale di difficoltà in arrivo – questi circa cento minuti partono da una riflessione sulla banalità dell’esistenza e la sviluppano in un modo che si avvicina assai all’astrazione. Eppure, attenzione: benché il tema e soprattutto il suo svolgimento siano quanto mai ardui e scostanti, per oltre un’ora Andersson riesce a farsi seguire senza che si avverta lo scorrere del tempo. Visto che si tratta di un film in cui, tanto per dirne una, non c’è un movimento di macchina, la capacità di mantenere l’attenzione sulla ripetitività del vivere quotidiano testimonia della qualità del lavoro del regista e sceneggiatore svedese. In ogni caso, la vita come tran-tran è legata in modo inestricabile con la morte, come testimoniano i tre quadri iniziali a quest’ultima espressamente dedicati in didascalia: dall’uomo che defunge stappando una bottiglia a quello già stecchito al self-service di un traghetto (col tizio che gli beve la birra già pagata) passando per l’avidità dei figli davanti alla madre morente inizia quel teatro dell’assurdo, condito di ironia acida e umorismo nero, che si sviluppa per il resto del lavoro. Di episodi ne seguono altri trentasei, tutti costruiti allo stesso modo: inquadratura fissa con molte figure immobili quasi a comporre un quadro, tempi dilatati, grandi silenzi (alcuni segmenti sono del tutto muti) interrotti da pochi dialoghi a volte senza senso, a volte all’apparenza fuori luogo. Il tutto finisce per regalare una sensazione di malessere, accentuata dalle tonalità freddissime della fotografia di István Borbás e Gergely Pálos nonchè dalle facce imbiancate degli attori, a partire da quelli che interpretano i due personaggi che fanno da (tenue) filo conduttore. Sam e Jonathan sono due agenti di commercio da strapazzo che cercano di piazzare il loro assurdo campionario da ‘intrattenimento’ – al livello di ‘tacchi, dadi, datteri’ – e nel frattempo si piangono addosso: attorno a loro si muove (si fa per dire) un campionario di figure stralunate (l’insegnante di flamenco dal cuore spezzato, il militare che ripete ‘naturalmente’, il capitano di nave riconvertito in barbiere e via elencando) in gran parte ingobbite e programmaticamente scostanti. In più ci sono un salto all’indietro nel tempo e l’irrompere del passato in un bar sotto le sembianze di Carlo XII e del suo esercito prima e dopo la battaglia di Poltava (c’è un raggio di sole nelle due scene subito seguenti – la mamma con la carrozzina, gli amanti sulla spiaggia – oppure no?): a furia di spezzettare, il gioco si fa meno efficace perché la coesione viene a mancare, lasciando spazio a un tedio fino a quel punto tenuto a bada. Non servono più neppure i tormentoni che percorrono tutto il film, come il tema di John Brown’s Body che caratterizza qualsiasi spunto musicale o sempre le stesse parole ripetute da chiunque parli in un telefono: a risentirne è soprattutto l’ancor più cupo finale (non a caso introdotto dalla didascalia ‘homo sapiens’) in cui si accentua il profondo pessimismo per un’umanità in via di regressione, tanto che, in fondo, l’unica scena che mostri un sussulto vitale è quella ambientata nel 1943. Così il Piccione unisce ai coraggiosi pregi anche qualche difetto, favorendo la perplessità di cui sopra: in fondo, è proprio così importante sapere se oggi è mercoledì o giovedì?
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amgiad
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lunedì 23 febbraio 2015
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lo spettatore seduto in poltrona riflette ...
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Per primo occorre riconoscere al regista lo sforzo di uscire dal consueto sviluppo filmico. E' un opera dell' assurdo, e come tale non gli si chiede la plausibilità di molte scene. E' un continuo invito a ripensare al vuoto che si cela dietro tante vite, nelle quali i giorni scorrono ignoti e ignari. Vite nelle quali il mercoledì è uguale al giovedì ma potrebbe essere anche il martedì. Luoghi comuni ripetuti in modo ossimorico (a parole manifestare piacere, tenendo in mano la pistola con cui ci suicideremo). E ancora, tristissimi rappresentanti di tristissimi scherzi carnevaleschi, sbalzi temporali nella storia svedese con triste riflessione sui risultati della guerra, cavie lasciate a soffrire in inutili esperimenti mentre vacuamente si dialoga al telefono.
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Per primo occorre riconoscere al regista lo sforzo di uscire dal consueto sviluppo filmico. E' un opera dell' assurdo, e come tale non gli si chiede la plausibilità di molte scene. E' un continuo invito a ripensare al vuoto che si cela dietro tante vite, nelle quali i giorni scorrono ignoti e ignari. Vite nelle quali il mercoledì è uguale al giovedì ma potrebbe essere anche il martedì. Luoghi comuni ripetuti in modo ossimorico (a parole manifestare piacere, tenendo in mano la pistola con cui ci suicideremo). E ancora, tristissimi rappresentanti di tristissimi scherzi carnevaleschi, sbalzi temporali nella storia svedese con triste riflessione sui risultati della guerra, cavie lasciate a soffrire in inutili esperimenti mentre vacuamente si dialoga al telefono. Ben si capisce come mai l' opulenta società svedese presenti le più alte percentuali di suicidi. Le scenografie e l' illuminazione usata restituisce molto bene la luce di Bruegel il vecchio, da un cui dipinto sembra aver tratto idea il regista. Potrei dire che per la Svezia è un nuovo "I mostri". Per noi più che la immaginifica nazione dei nostri sogni adolescienziali ci sembra di riconoscere la triste DDR o la Russia di uguale periodo. Ma il regista non aveva sicuramente intenti politici. Un' ultima cosa: in sala ero con un gruppo di amici e quasi tutti abbiamo avvicinato molte scene a quelle sviluppate in Italia da Ciprì e Maresco (logicamente, essendo italiane, quest' ultime più brutte, sporche e sanguigne). Personalmente riservo un leone anche alla loro, un po' disprezzata, produzione.
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peer gynt
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venerdì 5 settembre 2014
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un presepio meccanico di grottesche assurdità
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Non si può negare al cinema di Roy Andersson un suo particolare e personalissimo stile: il film viene costruito per giustapposizione di quadri fissi, dentro i quali colore e scenografia sono studiatissimi mentre i personaggi sono rigidi manichini che si muovono come zombie e ripetono, con una stupidità che indossano come una maschera, frasi assurde o grottescamente irrilevanti. La sintassi cinematografica è ridotta al grado zero, la lentezza delle scene è studiata e voluta, per farle assomigliare più a quadri viventi che ad un film.
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Non si può negare al cinema di Roy Andersson un suo particolare e personalissimo stile: il film viene costruito per giustapposizione di quadri fissi, dentro i quali colore e scenografia sono studiatissimi mentre i personaggi sono rigidi manichini che si muovono come zombie e ripetono, con una stupidità che indossano come una maschera, frasi assurde o grottescamente irrilevanti. La sintassi cinematografica è ridotta al grado zero, la lentezza delle scene è studiata e voluta, per farle assomigliare più a quadri viventi che ad un film. L'intento è chiaramente quello di delineare un ritratto dell'homo insapiens, delle stupide atrocità quotidiane che gli uomini sono in grado di mettere in scena con assoluta incoscienza. Si ride ogni tanto, nei film di Andersson, ma si ride amaro, perché questa pittura animata dell'assurdo mette in evidenza un'umanità cinica e misera, che mostra di non fare una piega di fronte alle più atroci torture o alla morte. Dai figli che si affannano a strappare la borsetta piena di ori e denaro alla madre morente, alla dottoressa che si dilunga in una telefonata inutile mentre nel suo laboratorio una scimmia legata a fili elettrici subisce varie scariche di corrente, agli schiavi introdotti in un enorme tubo di metallo che viene arroventato e fatto muovere come un girarrosto da un bel fuocherello, tutti i personaggi, una volta recitata la loro parte, stupida, cinica o grottesca, sembrano infine mettersi in posa in attesa che il regista (e lo spettatore con lui) li possa immortalare in un gesto che pare costituire il loro capolavoro, la loro ragione di vita: gesto che continueranno a fare per sempre, iterandolo all'infinito, come in un enorme presepio meccanico.
Ma dal quale (e non poteva essere diversamente in un connazionale di Ingmar Bergman) non proviene alcuna traccia di un qualunque dio.
Impossibile esprimere un voto, ci sembrerebbe di essere diventati uno dei personaggi del film alle prese con le loro azioni assurde e prive di senso (e non vorremmo essere inseriti nel prossimo film di Andersson mentre stiamo votando un film).
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pepito1948
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martedì 17 marzo 2015
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andersson tra kaurismaki e bergman
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L’inizio inquadra e spiega il titolo, dando una prima chiave di lettura: in un museo zoologico un visitatore si sofferma a guardare un piccione impagliato che, appollaiato su un ramo in visuale comprendente uno scheletro di dinosauro ed un dipinto con aquile, sembra assorto e pensoso. Tradotto in termini concettuali l’immagine ci presenta qualcuno (forse il regista stesso) mentre medita sulla condizione umana, fossilizzata (il dinosauro) in uno stato di degenerazione in cui la rapacità (le aquile) e molti altri vizi altrettanto erosivi sono i connotati salienti delle società odierne.
Il tema è sviluppato attraverso una quarantina di quadri, costituiti in gran parte da interni come stanze, pub, nave ecc.
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L’inizio inquadra e spiega il titolo, dando una prima chiave di lettura: in un museo zoologico un visitatore si sofferma a guardare un piccione impagliato che, appollaiato su un ramo in visuale comprendente uno scheletro di dinosauro ed un dipinto con aquile, sembra assorto e pensoso. Tradotto in termini concettuali l’immagine ci presenta qualcuno (forse il regista stesso) mentre medita sulla condizione umana, fossilizzata (il dinosauro) in uno stato di degenerazione in cui la rapacità (le aquile) e molti altri vizi altrettanto erosivi sono i connotati salienti delle società odierne.
Il tema è sviluppato attraverso una quarantina di quadri, costituiti in gran parte da interni come stanze, pub, nave ecc. volutamente essenziali e spogli, realisticamente finti (per usare un ossimoro esplicativo). Tutto è o sembra immobile, i personaggi si muovono con la massima lentezza, i colori sono quasi snaturati. Gente che va e viene intorno a una coppia di venditori ambulanti di scherzi di carnevale in un mondo in cui non si ride più e perciò venditori di niente, tenaci nel dare un senso inesistente ad una vita priva di spunti emotivi, piatta e piagata dalla apatia o dall’indifferenza più totale. I sentimenti sono solo parvenza senza contenuto, i due provano a litigare e a scambiarsi messaggi affettivi ma è come annaffiare un fiore di plastica, i volti sono inespressivi, anzi marcatamente bianchi, biaccati come fossero clown o maschere fisse, severe, senza sangue. Persino davanti alla morte la reazione degli astanti è asfittica, razionale, anaffettiva, come davanti ad un cadavere su una nave in cui solo la birra appena ordinata dal morto suscita un qualche interesse o al capezzale di una vecchia agonizzante, che non molla la presa di una borsa piena di tesori che fa gola ai parenti molto più avidi che confortanti. Qualche scampolo di emotività serpeggia qua e là ma sono piccoli segmenti sparsi, tracce estemporanee ovattate ed appena visibili dietro la vetrina di un ristorante. I riti nelle case si ripetono monotonamente, e la domanda più frequente è: sono contento che voi stiate bene, rituale anche questa e sconnessa da ogni corrispondente pulsione mentale. La parola è convenzione, non comunicazione.
Uno scenario che, raccontato così, sembrerebbe post-apocalittico se Roy Andersson non infondesse nel tutto uno spirito tragicomico basato sul non-sense tipicamente nordico, completamente diverso da quello occidentale che conosciamo noi, da Helzapoppin al demenziale di Leslie Nielsen, in cui la comicità è fine a se stessa. Non è quello di Buster Keaton e di molti altri comici che hanno messo le loro gag al servizio di una più o meno tenue critica sociale. Non è lontano dal realismo favolistico dal finlandese Kaurismaki, sicuramente più ottimistico, né dalle tematiche di Bergman, che tuttavia rifugge da ogni senso dell’assurdità.
L’humor invasivo di Andersson, dietro il non-sense che infrange la cronologia della Storia (con l’entrata in scena di un contingente di soldati a cavallo ed una sfilata di reduci di guerra di altri secoli) e rompe ogni logica filmica cui siamo abituati, sferza i limiti di una società, almeno quella dei Paesi scandinavi dovunque additati come esempi di progresso e di qualità della vita, come appunto l’indifferenza, l’ingordigia, il vagare senza meta, il vuoto interiore, l’annullamento degli affetti; e lo fa con il frustino vellutato ma efficace di un tuffo nella dimensione del surreale che volteggia come dentro una sfera di vetro sul mondo contemporaneo, e ci induce tra una sorpresa ed un sorriso a chiederci quale sia il senso oltre il non senso, della vita reale che conduciamo ingabbiati in una rete di riti, di convenzioni, di apatia, di depauperamento interiore che sempre di più vediamo dilagare nelle società umane. Lo fa con uno stile gradevole quanto spiazzante, scegliendo soluzioni imprevedibili e una scenografia scarnificata come ciò che vuole rappresentare, con una scia di pensieri montanti che saltellano dilatandosi sui titoli di coda.
Il piccione Andersson ha posto il problema ed i suoi quesiti. A noi il compito di salire sul ramo e cercare le risposte.
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francesca meneghetti
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sabato 21 febbraio 2015
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tra l'espressionismo e l'assurdo
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Prima di giudicare un’opera è buona cosa capire come “funziona”. Poiché la pellicola si caratterizza per frammentarietà (39 micro-episodi) il primo problema sta nell’individuare ciò che la tiene insieme. Per alcuni è la storia di due compagni di sventura, tristi venditori di scherzi di carnevale. Ma loro entrano in scena a film già avviato. Di conseguenza non sono il vero collante, che va individuato in una particolare cifra stilistica: obiettivo fisso, a riprendere una scena d’interno di estremo squallore (pareti spoglie e nude, finestre affacciate su paesaggi urbani altrettanto grigi); personaggi caratterizzati fisicamente per bruttezza (obesità, calvizie e canizie mascherate da tinture, vecchiaia, invalidità) e psicologicamente per inespressività e tristezza (ma anche depressione, inedia, indifferenza); ritmi lenti, battute scarne e sistematicamente replicate, almeno tre volte, ossessivamente.
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Prima di giudicare un’opera è buona cosa capire come “funziona”. Poiché la pellicola si caratterizza per frammentarietà (39 micro-episodi) il primo problema sta nell’individuare ciò che la tiene insieme. Per alcuni è la storia di due compagni di sventura, tristi venditori di scherzi di carnevale. Ma loro entrano in scena a film già avviato. Di conseguenza non sono il vero collante, che va individuato in una particolare cifra stilistica: obiettivo fisso, a riprendere una scena d’interno di estremo squallore (pareti spoglie e nude, finestre affacciate su paesaggi urbani altrettanto grigi); personaggi caratterizzati fisicamente per bruttezza (obesità, calvizie e canizie mascherate da tinture, vecchiaia, invalidità) e psicologicamente per inespressività e tristezza (ma anche depressione, inedia, indifferenza); ritmi lenti, battute scarne e sistematicamente replicate, almeno tre volte, ossessivamente. Al’inizio suonano ironiche, poi grottesche, infine angoscianti.
E’ un film sull'esistenza tra il realistico e l’espressionismo (nella versione nordica e cupa, alla Munch)?
In realtà il film non sembra essere una ricognizione distaccata del vivere, vista a volo d’uccello (a proposito il titolo rinvia al quadro di Bruegel The Hunters in the Snow: v.) Anzitutto i momenti lieti dell’esistenza sono, se non inesistenti, ridotti al minimo (due bambine che giocano con bolle di sapone, due ragazzi che amoreggiano distesi su una spiaggia, nell’unica scena veramente colorata del film). Ma questo potrebbe aver senso se si vuole mettere da parte ogni positività, ogni affettività, ogni amore. Ciò che contraddice però il messaggio nichilistico, ma dotato di senso, è da un lato l’organizzazione testuale (che non c’è, o sembra essere costruita appositamente per distruggere ogni ordine e ogni simmetria), dall’altro l’irrompere incongruo, nelle riprese improntate a quotidianità, di spezzoni di storie provenienti dal passato. Il che non accade in base a regole precise (ad es. di contiguità spaziale). A meno che non serva a introdurre, nella panoramica sulla vita umana, il tema della guerra e della violenza (rafforzato da altre due scene terribili: la tortura di una scimmia e l’incubo della macchina targata Boliden, ditta svedese reale, che trasforma atroci sofferenze umane in musica, si fa strada l’ipotesi di un cinema dell’assurdo.
A questo punto, chi legge queste righe, in buona compagnia dello spettatore, non si raccapezza più. Che Andersson abbia voluto prendersi gioco del pubblico e della critica lavorando proprio attorno la destrutturazione di ogni senso? E forse questa può restare l’unica chiave di lettura comprensibile: che il regista abbia voluto dimostrate tutta l’entropia, l’insensatezza, la totale perdita di bellezza e di umanità del nostro mondo. Se questo l’intendimento, poteva però essere più chiaro, visto che un messaggio è tale se raggiunge il destinatario. Pare che Andersson abbia dichiarato che per questo film si è ispirato a “Ladri di biciclette”. Ho trovato piuttosto echi di Peter Bruegel il Vecchio, citato con la processione dei ciechi, ma mi ispira di più l’immagine apocalittica e grottesca del “Trionfo della morte”.
Insomma non è un film né di piacevole intrattenimento o visione, visto che è dominato dall’estetica del brutto (salva l’efficacia di molte inquadrature), né di facile comprensione. Forse il suo destino sarà di essere considerato un capolavoro. Peccato che non sappia comunicare a tutti.
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ssinaima
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martedì 24 febbraio 2015
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una violenza insostenibile e gratuita
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Ho appena visto "un piccione" e penso che avro bisogno di molto tempo per rimettermi da questa esperienza. Il film ha delle pretese artistiche e, sembra filosofiche, che lasciano molto spazio ai gusti personali, e potrebbe percio non essere oggetto di giudizio. Il problema é che il film, in modo inaspettato, segreta scene di violenza insostenibili e neanche descrivibili che sembrano fini a se stesse e che non servono nessuna delle finalità, sia estetiche, sia cd filosofiche del film. E una violenza subdola che penetra lo spettatore e lo lascia con un sentimento di stupro morale. Diventano allora minori le pretese del film, che gioca su un "estetica" minimalista e ripettitiva e un senso dell'assurdo sostanzialmente privo della comicità che puo invece scattare in questo tipo di repertorio.
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Ho appena visto "un piccione" e penso che avro bisogno di molto tempo per rimettermi da questa esperienza. Il film ha delle pretese artistiche e, sembra filosofiche, che lasciano molto spazio ai gusti personali, e potrebbe percio non essere oggetto di giudizio. Il problema é che il film, in modo inaspettato, segreta scene di violenza insostenibili e neanche descrivibili che sembrano fini a se stesse e che non servono nessuna delle finalità, sia estetiche, sia cd filosofiche del film. E una violenza subdola che penetra lo spettatore e lo lascia con un sentimento di stupro morale. Diventano allora minori le pretese del film, che gioca su un "estetica" minimalista e ripettitiva e un senso dell'assurdo sostanzialmente privo della comicità che puo invece scattare in questo tipo di repertorio. Non rimane al povero spettatore che provare a superare il legittimo sentimento di tradimento o di trappola che genera la visione di questo film... promettendosi, senza essere sicuro di riuscirci, di non ricarderci. Alla fine i piccioni siamo noi spettatori.
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mericol
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lunedì 2 marzo 2015
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film surrealista? da leone d’oro ?
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39 quadri di difficile connessione l’uno con l’altro. Richiedono appunto una lettura ed una analisi non tradizionale.
Unico dato di congiunzione, ma del tutto relativo, 2 soggetti stralunati che cercano di vendere a soggetti quasi altrettanto stralunati, oggetti idonei a dare felicità: 2 denti di vampiro, un sacchetto per l’allegria, la maschera di “zio dentone”.
39 quadri con una prefazione dei primi 3 sulla morte. Alcuni squarci di sottile divertimento. Un militare che ripete ossessivamente “naturalmente” per ogni evento rievocato:. E’ vero, nella vita si succedono avvenimenti assurdi che si ripetono automaticamente “naturalmente”(!!).
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39 quadri di difficile connessione l’uno con l’altro. Richiedono appunto una lettura ed una analisi non tradizionale.
Unico dato di congiunzione, ma del tutto relativo, 2 soggetti stralunati che cercano di vendere a soggetti quasi altrettanto stralunati, oggetti idonei a dare felicità: 2 denti di vampiro, un sacchetto per l’allegria, la maschera di “zio dentone”.
39 quadri con una prefazione dei primi 3 sulla morte. Alcuni squarci di sottile divertimento. Un militare che ripete ossessivamente “naturalmente” per ogni evento rievocato:. E’ vero, nella vita si succedono avvenimenti assurdi che si ripetono automaticamente “naturalmente”(!!). Un vecchissimo uomo sordo, definito felice perché è il solo modo per non ascoltare le “cazzate” dette in giro. Le frasi ripetute all’infinito”ho piacere nel sapere che state tutti bene”.
Tutti i 39 quadri registrati magistralmente con telecamera fissa e lunghi piano-sequenza, con colori smorzati, pallidi come i volti dei personaggi, che rappresentano vita,morte ,miseria. Scarsamente felicità, soltanto in 2 brevi sequenze. Il cinema dell’assurdo, come il teatro dell’assurdo? Un metodo decisamente surrealista.
Alla fine appare quasi un autocompiacimento e una autoreferenzialità dell’Autore. Sorge però il dubbio quando ripensi al titolo che richiama l’esistenza. Si può parlare di “esistenza” con personaggi estranei alla realtà di ieri e di oggi? Tutti più o meno stralunati come i 2 principali (si fa per dire) protagonisti
Penso quindi al povero “piccione” che sta seduto su quel ramo, riflette, ma non trova ancora un suggerimento idoneo ad interpretare i problemi dell’esistenza
Il mio giudizio di discreta delusione è guidato probabilmente anche da due diverse considerazioni, in verità estranee all’essenza stessa del film.
Il film è stato avvicinato alle opere di Luis Bunuel. Bunuel ha realizzato le prime 2 opere (corti) ,quasi sperimentali, di puro surrealismo. Tutta la restante cospicua splendida filmografia di Bunuel mostra ispirazione surrealista, ma rappresenta la vita reale ,la vita degli uomini di ieri e di oggi. Quindi fa riflettere sull’esistenza.
La seconda considerazione che mi induce alla discreta delusione è il Leone d’oro a Venezia 2014.
Non esistevano altri film da premiare? Ma sì che esistevano! C’era Birdman, ma era fuori concorso. Una dimenticanza, o una distrazione, della Commissione selezionatrice del Festival. Ci si augura per questo anno, 2015, maggiore attenzione o minore distrazione!
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[+] estranei alla realtà?
(di emaspac)
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enrico danelli
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venerdì 17 aprile 2015
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presuntuso
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Un tentativo ambizioso, ma non riuscito di trasporre nel cinema la rappresentazione dei vizi umani rintracciabile in modo eccelso nei quadri di Pieter Brughel e vari altri pittori fiamminghi del 1400-1500. Se non risultasse abbastanza chiaro, la parabola dei ciechi (vangelo secondo Matteo XV, 14 : se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa) ripresa da Brughel in quadro del 1568 viene trasposta in una scena del film in una fugace, ma significativa apparizione. Peraltro del quadro stesso il film riprende i colori spenti e freddi (il grigio è predominante in ogni scena, i colori accesi sono del tutto assenti, gli ambienti aperti sono rarissimi, i vecchi e i malati rappresentano la percentuale predominate delle comparse) e il potpourri di scene e situazioni più che un film ad episodi cerca di richiamare alla memoria i quadri di Hyeronimus Bosh in cui si rintracciano una infinità di temi e soggetti al di qua e al di là del limite dell'onirico e dell'immaginifico .
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Un tentativo ambizioso, ma non riuscito di trasporre nel cinema la rappresentazione dei vizi umani rintracciabile in modo eccelso nei quadri di Pieter Brughel e vari altri pittori fiamminghi del 1400-1500. Se non risultasse abbastanza chiaro, la parabola dei ciechi (vangelo secondo Matteo XV, 14 : se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa) ripresa da Brughel in quadro del 1568 viene trasposta in una scena del film in una fugace, ma significativa apparizione. Peraltro del quadro stesso il film riprende i colori spenti e freddi (il grigio è predominante in ogni scena, i colori accesi sono del tutto assenti, gli ambienti aperti sono rarissimi, i vecchi e i malati rappresentano la percentuale predominate delle comparse) e il potpourri di scene e situazioni più che un film ad episodi cerca di richiamare alla memoria i quadri di Hyeronimus Bosh in cui si rintracciano una infinità di temi e soggetti al di qua e al di là del limite dell'onirico e dell'immaginifico . Se quindi il tentavo è ambizioso, il risultato è veramente deludente: gli unici collanti di situazioni così diverse nel film sono : A) il commesso viaggiatore (uno dei due, quello più problematico e profondo) che rappresenta il "piccione seduto sull'albero a riflettere sull'esistenza"; B) un mantra ripetuto in quasi ogni episodio ("sono contento di sapere che state tutti bene") a sottolineare che l'illusione umana è predominate e onnipresente e probabilmente rappresenta il vero e unico problema da cui nascono tutti gli altri. Risulta invece illusorio il tentativo del film di convincere lo spettatore che l'umanità è tutta qui: un cumulo di perversità, egoismi, nefandezze e beate illusioni. Per fortuna c'è dell'altro, ma non in questo film.
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stefano b.
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venerdì 26 giugno 2015
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un piccione imbarazzante
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mia moglie voleva andare a vedere Se Dio vuole ma ogni tanto accetta anche le mie proposte.
nella recensione avevo letto che era anche un film umoristico anche se rifletteva sull'Essere.
all'infuori di qualche scena ossessiva che faceva ridere più per la scelta maniacale del regista che non per quanto espresso, il resto l'ho trovato deprimente e sado/masochista.
l'umanità fa schifo. lo sappiamo. il mondo è un affastellamento di controsensi e opposti. una babele. una babele di brugel. non credo ce ne fosse bisogno.
e mia moglie adesso mi vieta di scegliere i film.
1 stella perché non ci sono meteore.
ma io non sono un giurato del festival di venezia. e magari mi sbaglio.
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