ANITA B.
E LES FEMMES FORTES non solo di FAENZA
di
Gaia Serena Simionati
"Lascia Auschwitz fuori da questa casa”
Sappiamo ormai tutti cheShoah(tempesta devastante)è una parola che in ebraico significa "distruzione". Viene preferita a Olocausto, (in quanto non richiama, come quest’ultimo, l’idea di un sacrificio inevitabile), dal greco holos "completo" e kaustos "rogo", cioè lo sterminio compiuto dai nazisti di circa sei milioni di ebrei.
A questo numero però vanno aggiunte anche tutte le persone e le etnie ritenute "indesiderabili": omosessuali, oppositori politici, zingari, testimoni di Geova, pentecostali, spesso dimenticati.
Con la giornata della memoria, in arrivo il 27 gennaio, i film sull’argomento proliferano. Roberto Faenza, il regista, precisa alla preview stampa che, Anita B., ispirato al romanzo autobiografico Quanta stella c’è nel cielo diEdith Bruck, non è un film sulla Shoà. Ma sul dopo, Auschwitz. Cioè sul ricordo e la sua gestione. E sulle donne, potremmo aggiungere!
Che fare allora ricordare o dimenticare? Rischio di museificazione della memoria o attenzione per il ricordo?
Secondo alcuni per superare bisogna rimuovere. Da questo assioma, si sviluppa il film, quando Eli (RobertSheehan) raccomanda ad Anita: "Lascia Auschwitz fuori da questa casa".
Anita è interpretata da Eline Powell, la giovane e brava attrice inglese, figlia di un pluripremiato scienziato per gli studi sull’AIDS. Nel film è una sedicenne orfana, di origine ungherese che, sopravvissuta ad Auschwitz, viene accolta in casa della zia Monika, sorella di suo padre, la quale le impone di dimenticare e di non parlare mai di quello che le è successo con nessuno in casa. Essa vive la nipote come un peso, forse quello del passato tenuto vivo.
Al contrario, Anita nutre speranze, vuole capire e ri-generare vita. Nella nuova casa si trova però ad affrontare una realtà inaspettata: nessuno, neppure Eli, con cui scoprirà l’amore, vuole ricordare. Il più grande tabù è proprio l’esperienza del campo. Qualcosa di cui vergognarsi o volontà di evitare di ricordare il passato?
Il dolore dello sterminio genera quindi diverse reazioni o paradossi. Da un lato la tradizione dello Zio Jacob (Moni Ovadia), coscienza critica della comunità ebraica, che sostiene che la Torah si tiene con due mani, la testa e il cuore.
Dall’altro, di spirito sionista, si ritiene invece che si debba vivere con la Torah in una mano e un'arma nell'altra. Chi si fermerà per rimettere radici e chi invece sceglierà di partire per la Terra Promessa. Tutti pronti per una nuova vita.
Purtroppo Anita B. pur aprendo interrogativi interessanti, e sedimentandoli su più livelli, pur essendo elegante nei costumi, nelle ambientazioni, o nella recitazione (gli attori incisivi e convincenti, tra di essi il forte carattere di Moni Ovadia, la maturazione credibile del personaggio di Eline Powell, o l’eleganza silenziosa della pianista Guenda Glori), risulta nel complesso annacquato e fragile.
Faenza sa ben dirigere, sa narrare, ma è come se al racconto mancasse forza, visione e novità. Un po’ come una zuppa tiepida che riscalda, ma non nutre.
Di sicuro, non è uno di quei film indelebili, nelle memorie di tutti, appunto.
Come invece lo è stato il caso dell’eccellente pellicola di Rama Burshtein, Lemale et Ha'Halal (Fill the void) in Italia La sposa promessa, in cui la regista spiega che la religione aiuta a preservare la passione e che essa è uno strumento molto potente in tal senso.
Incentrato su una forma d’integralismo ortodosso haredi, ramo dell’ebraismo e sul misterioso stile di vita della comunità chassidica, il film che è un misto di erotismo, eccitazione, dogma, paura e lutto, narra della storia di Shira, una giovane donna la cui vita assume un peso di grande responsabilità. Simile a quello di Anita, se vogliamo, ma molto più risonante. Forse, nel raccontare eroine e grandi personaggi femminili, le registe donne sanno essere più sensibili e profonde nel traghettarne le emozioni al vasto pubblico.
Purtroppo, per Faenza e per fortuna per gli spettatori, negli stessi giorni è in uscita anche Hannah Arendt, di un'altra regista donna, Margarethe von Trotta, un film geniale, dalla sceneggiatura intensissima sulla controversa filosofa. Qui partendo dal suo libro “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme" (1963), emerge la controversa teoria per cui la completa inconsapevolezza o responsabilità delle proprie azioni criminali, unite all'assenza di radici e di memoria, renderebbero esseri (non persone) spesso primitivi, agenti del male, come Eichmann stesso e tutti coloro che agirono nella Shoah.
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