enrico omodeo sale
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domenica 31 marzo 2013
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bisogna avere il coraggio di stroncare questo film
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Sono un grande estimatore di Diritti. Ritengo i primi suoi due film "Il vento fa il suo giro" e "L'uomo che verrà" dei capolavori.
Per cui ero prevenuto positivamente per la visione di "Un giorno devi andare", film che invece mi ha francamente deluso.
La sceneggiatura è scritta bene, le location sono molto belle, lo sguardo sull'Amazzonia è antropologico senza inutili esotismi. La fotografia è coinvolgente nella sua alternanza tra colori caldi (in America Latina) e glaciali (in Trentino). Nonostante ciò il film non funziona.
Anzitutto per la scelta di incentrare tutto sulla protagonista Jasmine Trinca, che funziona solo nelle scene corali nelle palafitte di Manaus.
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Sono un grande estimatore di Diritti. Ritengo i primi suoi due film "Il vento fa il suo giro" e "L'uomo che verrà" dei capolavori.
Per cui ero prevenuto positivamente per la visione di "Un giorno devi andare", film che invece mi ha francamente deluso.
La sceneggiatura è scritta bene, le location sono molto belle, lo sguardo sull'Amazzonia è antropologico senza inutili esotismi. La fotografia è coinvolgente nella sua alternanza tra colori caldi (in America Latina) e glaciali (in Trentino). Nonostante ciò il film non funziona.
Anzitutto per la scelta di incentrare tutto sulla protagonista Jasmine Trinca, che funziona solo nelle scene corali nelle palafitte di Manaus. In tutto il resto della narrazione non riesce a reggere il ruolo di protagonista. Non basta avere un bel viso, degli occhi profondi e condividere gli ideali di un film per far immedesimare lo spettatore. La Trinca non riesce a emozionare, a cominciare dalla prima scena, un lungo primo piano di un pianto fintissimo, che dovrebbe farci iniziare a immergere nel cammino di redenzione della protagonista e che invece appesantisce il film ancor prima dei titoli.
Non funzionano le letture di riflessioni perchè suonano recitate e non sussurrate, non funziona la parte "italiana" del film: perchè farci perdere tempo con la sofferenza della madre e della nonna in Alto Adige? Cosa hanno di particolare? Cosa ci vogliono comunicare? La tristezza e l'immobilismo di un mondo che Augusta non vuole più rivedere perchè vuole "essere terra"? Troppo poco per giustificare un montaggio alternato. La storia deve restare in Amazzonia. E funziona un pò solo all'inizio, con la azzeccata descrizione del "colonialismo religioso" della suora, da cui Augusta, pur apprezzando la sua caparbietà, si stacca per entrare realmente nella comunità, "dimenticare Dio per essere terra", come afferma prima di cominciare la sua avventura in mezzo alla gente delle palafitte.
Una descrizione, quella della comunità periferica minacciata dalla delocalizzazione voluta dal governo, molto credibile, semplice, diretta, anche quando il regista si concede qualche ritratto grottesco o felliniano (la danza nel campo da calcio). La descrizione della donna di frontiera, che si immerge e entra a fare parte di una comunità, senza però mai riuscire (come dimostra la fuga finale) a superare del tutto la condizione sociale di partenza è sicuramente la "tappa" più riuscita del viaggio.
La fuga dunque. Fuga da tutto e da tutti. Da sè stessa. Dal passato. L'arrivo metaforico nella spiaggia bianca dopo aver remato lungo il fiume. Qui dovrebbe arrivare il punto più alto, la descrizione senza dialoghi di un arrivo, un approdo per una ripartenza, o anche un punto di non ritorno. Ma proprio sul più bello, tutto viene rovinato dalla monoespressività della protagonista e dalla discutibile e sicuramente banale scena del gioco con il bambino, per chiudere il cerchio da dove Augusta era partita (la perdita di un bambino, appunto). Una scena davvero brutta, forzata, dove la fine di un cammino arriva in contemporanea con la fine del film, lasciando alla maggior parte degli spettatori che erano in sala un senso di non appagamento. E non so perchè, in quel momento mi è venuto in mente Kinski in "Aguirre furore di dio" che finisce mangiato dai topi. Quello era un finale.
Insomma, un grande maestro del cinema antropologico come Diritti, che ha realizzato degli affreschi incredibili di piccole comunità di villaggio nei primi due film, qui alza troppo il tiro e stecca un film nobile negli intenti, ma troppo debole e disgregato nella messa in scena.
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ennas
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lunedì 1 aprile 2013
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andare, andare ogni giorno
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Il senso della vita e la ricerca di senso. Con questo film “ Un giorno devi andare” Diritti esplora questo crinale impervio per un regista, forte di altre esperienze originali e potenti come “ il vento fa il suo giro” e “l’uomo che verrà”:
In questo film seguiamo Augusta ( una brava Jasmine Trinca) nel suo viaggio di ricerca dello spirito.
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Il senso della vita e la ricerca di senso. Con questo film “ Un giorno devi andare” Diritti esplora questo crinale impervio per un regista, forte di altre esperienze originali e potenti come “ il vento fa il suo giro” e “l’uomo che verrà”:
In questo film seguiamo Augusta ( una brava Jasmine Trinca) nel suo viaggio di ricerca dello spirito. E’ con Franca, una suora amica della madre: insieme viaggiano sul grande fiume, cuore liquido dell’immensa natura amazzonica. La natura è anch’essa protagonista dei film di Diritti : qui è una natura infinita, rigogliosa e soverchiante. Augusta è segnata da perdite recenti : il padre morto , un bambino non nato, l’incapacità di generarne altri, un amore finito…Ha lasciato a casa una madre e una nonna in affanno, la sua partenza è per loro una sottrazione che può assomigliare ad una perdita.
La ragazza ha seguito suor Franca nella sua missione in Brasile ma il senso della vita altrui non diventa nostro per un atto di volontà. Suor Franca vive una fede robusta e onnipervasiva: gli orizzonti del dubbio e lo scacco della perdita non vi trovano pertugi, ciò che si lascia alle spalle forse le ritorna trasfigurato,alimentandole dentro una forza sovrumana. Suor Franca un giorno ha sentito dentro di sé un ordine perentorio “devi andare” e infatti lei procede impavida e incrollabile. ( ottima l’attrice Pia Englebert che rende splendidamente il piglio serafico e vitalistico della suora).
Augusta non può essere come suor Franca: il tarlo ( o beneficio) del dubbio e dell’incertezza sono alla radice di questo suo viaggio : la sua idea di Dio non riempie di senso la sua vita. Decide di lasciare Franca e gli altri “professionisti dello spirito” alle loro missioni di conversione e proseguendo da sola la propria ricerca si immerge nella favelas di Manaus per vivere insieme ai suoi abitanti il senso vitale della comunità.
Il tema dell’essere comunità è un altro argomento caro al regista che non per questo rende troppo elegiaco: le comunità minacciate non sono solamente calore umano e solidarietà, balli, partite e sorrisi ma sono anche miseria pesante e tangibile, baracche fatiscenti, rifiuti a vista, crudeltà feroci ( si può vendere un bambino per pochi soldi). Il film suggerisce un messaggio che trascende la nuda realtà : il “senso di comunità” deve essere un valore da salvare, troppo spesso perduto o sacrificato su moltissimi vecchi o improvvisati altari.
Il viaggio di Augusta non si fermerà neppure in questa tappa, la solitudine e l’immersione nella natura ne mostrano il proseguire mentre nel frattempo, nel freddo invernale del Trentino, da dove essa è partita, la regia ci regala un’altra splendida metafora del vivere: la giovane Janaina -proveniente dall’ Amazzonia dove Augusta continua la sua ricerca- Janaina novella badante della nonna di Augusta, “ in un asettico ospedale, “officia” un saluto ad un’anziana defunta, benedicendole ad uno ad uno gli organi, un inno alla vita e un rito ancestrale che ha anch’esso un sapore di comunità.
Il finale non può che essere apertissimo: la ricerca di senso non termina mai e il riso di un bambino può simboleggiarne un approdo e una continuità.
Giorgio Diritti con questo film si riconferma un maestro originale : i sui film sono degli affreschi del cinema: “Confesso che ho vissuto” questo titolo del libro di memorie di Neruda si addice anche al suo cinema appassionato e umanissimo: “Un giorno devi andare” , come gli altri suoi film è assolutamente da vedere.
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filippo catani
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martedì 2 aprile 2013
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una donna e il suo dolore
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Una giovane trentenne italiana decide di trasferirsi in Amazzonia in compagnia di un'amica della madre che fa la missionaria. La ragazza cerca di rimettere in sesto la propria vita sconvolta dall'impossibilità di avere figli che ha causato la fuga del marito. Il rapporto con le popolazioni indigene potrebbe sanare le sue ferite.
Augusta è una donna di 30 anni che ha una madre sconvolta dalla recente scomparsa del marito e comunque non facile all'affetto così pure come la sua nonna malata. In tutto questo quadro alla ragazza non resta che partire ma ben presto decide di seguire una strada sua personalissima in quanto non crede che rapportarsi agli indios con santini e battesimi sia il modo giusto di fare (come facciamo a sapere se Dio è dalla nostra parte si chiede la ragazza).
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Una giovane trentenne italiana decide di trasferirsi in Amazzonia in compagnia di un'amica della madre che fa la missionaria. La ragazza cerca di rimettere in sesto la propria vita sconvolta dall'impossibilità di avere figli che ha causato la fuga del marito. Il rapporto con le popolazioni indigene potrebbe sanare le sue ferite.
Augusta è una donna di 30 anni che ha una madre sconvolta dalla recente scomparsa del marito e comunque non facile all'affetto così pure come la sua nonna malata. In tutto questo quadro alla ragazza non resta che partire ma ben presto decide di seguire una strada sua personalissima in quanto non crede che rapportarsi agli indios con santini e battesimi sia il modo giusto di fare (come facciamo a sapere se Dio è dalla nostra parte si chiede la ragazza). Questo viaggio interiore alla ricerca di un nuovo senso da dare alla propria vita si sposa con un viaggio vero e proprio in Brasile navigando per fiumi e viaggiando con mezzi di fortuna perchè, come si dice nel film, "se vuoi cambiare le cose devi andare dove devono messere cambiate davvero". Ed è terribile il raffronto che ci viene messo sotto gli occhi tra le povere baracche stipate all'inverosimile e sottoposte alle bizze degli agenti atmosferici con i bei grattaceli che si vedono all'orizzonte. Peraltro si cerca anche di fare sgomberare queste baracche (dietro un modesto compenso) per poter fare largo a supermercati o palestre lussuose. Un film profondo che offre più chiavi di lettura e che è allo stesso tempo un viaggio dentro e fuori di noi magistralmente diretto da Diritti che, come nei film precedenti, fa parlare i propri personaggi nella loro lingua madre senza doppiaggio ma con l'ausilio dei sottotitoli per non perderne l'autenticità. Jasmine Trinca è assolutamente sorprendente per la sua bravura nel calarsi in un ruolo difficile e tormentato di una donna alle prese con la sofferenza più grande che ci possa essere per il sesso femminile e che nessuno riuscirà mai a comprendere e consolare fino in fondo e cioè l'infertilità. Tante ora sono le cure, vi è la possibilità di adottare ma nulla sarà mai come dare alla luce un figlio; in questi contesti c'è chi rimane a fianco della propria partner e chi invece letteralmente scompare (infatti il marito non si vede mai nella pellicola). Un film che fa riflettere senza dare risposte preconfezionate ma che lascia allo spettatore all'uscita dalla sala il compito di tirare le somme.
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max ferrarini
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sabato 6 aprile 2013
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storia di una rinascita
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"Un giorno devi andare" può aver deluso aspettative e soprattutto chi si aspettava di percepire un messaggio chiaro su tematiche sempre attuali ma che il cinema da tempo affronta. Diritti pensa ad altro, per tutto il film e sorprende, disorienta. Con la storia di Augusta e tutto il suo mondo relazionale che le appartiene ci viene spiegata l'essenza di un dolore inconsolabile dal quale lei vorrebbe fuggire ma non può, in nessun posto. Perché la vita con le sue disgrazie la insegue e l'amore ha in sè le sue due facce di gioia e sofferenza, Augusta capisce che deve come morire e "ritornare alla terra" per poter rinascere, per poter amare ancora nonostante sia stata privata della sua più profonda identità di madre e poi di moglie, non solo, pare abbia perso anche la consapevolezza di essere figlia.
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"Un giorno devi andare" può aver deluso aspettative e soprattutto chi si aspettava di percepire un messaggio chiaro su tematiche sempre attuali ma che il cinema da tempo affronta. Diritti pensa ad altro, per tutto il film e sorprende, disorienta. Con la storia di Augusta e tutto il suo mondo relazionale che le appartiene ci viene spiegata l'essenza di un dolore inconsolabile dal quale lei vorrebbe fuggire ma non può, in nessun posto. Perché la vita con le sue disgrazie la insegue e l'amore ha in sè le sue due facce di gioia e sofferenza, Augusta capisce che deve come morire e "ritornare alla terra" per poter rinascere, per poter amare ancora nonostante sia stata privata della sua più profonda identità di madre e poi di moglie, non solo, pare abbia perso anche la consapevolezza di essere figlia. Il finale aperto è il simbolo perfetto e commovente dei tanti drammi della vita che tutti gli uomini e le donne si trovano a vivere, è scegliere di ripartire per amore di qualcuno che col suo sorriso ci chiama ancora una volta alla vita. Già, perché a volte è il bambino, il figlio, che genera la madre. E insieme a lei anche gli altri compagni di strada faranno i loro piccoli e grandi passi verso le loro personali rinascite: quasi a mostrare che chi viene alla luce si porta dietro anche i fratelli e le sorelle incontrate lungo il cammino, illuminandosi a vicenda.
Fare questo cammino con Augusta è una proposta che Diritti ci fa, una condizione alta che ci pone per poterlo seguire in un percorso ricco di domande vere e quasi nessuna risposta facile, di ricerca della bellezza nella natura ma anche nell'uomo povero e semplice, della sconvolgente potenza della vita e della infinita pace che l'anima umana può trovare quando, finalmente in pace col proprio cuore ferito, scorge ancora il bene delle cose più piccole e ne accoglie il dono.
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rambaldomelandri
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giovedì 18 aprile 2013
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perdersi per ritrovarsi
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Augusta ha subìto una perdita ed è partita per affrontarla: l'ecografia che sfuma su una luna coperta di nubi spiega sui titoli di testa l'origine del suo viaggio lungo il grande fiume che attraversa il cuore del Brasile. La vicenda narrata da Giorgio Diritti è divisa in tre grandi affreschi amazzonici, contrappuntati da brevi figure livide al tramonto della vita vissuta, seguite nei loro affanni invernali in una valle trentina.
Nel primo Augusta -insieme a suor Franca, una vecchia amica della madre-, condivide lo spazio di una barca guidata da un indio che serve alle due donne per visitare villaggi da evangelizzare lungo il Rio delle Amazzoni.
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Augusta ha subìto una perdita ed è partita per affrontarla: l'ecografia che sfuma su una luna coperta di nubi spiega sui titoli di testa l'origine del suo viaggio lungo il grande fiume che attraversa il cuore del Brasile. La vicenda narrata da Giorgio Diritti è divisa in tre grandi affreschi amazzonici, contrappuntati da brevi figure livide al tramonto della vita vissuta, seguite nei loro affanni invernali in una valle trentina.
Nel primo Augusta -insieme a suor Franca, una vecchia amica della madre-, condivide lo spazio di una barca guidata da un indio che serve alle due donne per visitare villaggi da evangelizzare lungo il Rio delle Amazzoni. Nel secondo Augusta lascia Franca alla sua missione itinerante e si ferma a Manaus, dove sceglie di immergersi nella vita di una favela in via di bonifica e in quelle dei suoi abitanti, sospesi tra attaccamento alle radici e bisogni di scollarsi dalla miseria. Nel terzo lascia tutto e si rifugia su una spiaggia lungo il fiume, allestendo un bivacco sotto i rami di un albero, e vivendo fino in fondo la sua solitudine, fino a un acquazzone da cui si lascia colpire, inerme, sdraiata sola sulla spiaggia. Poi arriverà un bambino, figlio di pescatori, e in un finale aperto e sussurrato la ricondurrà lentamente alla vita.
Giorgio Diritti dipinge immagini potentissime della natura amazzonica come l'Herzog di Fitzcarraldo; similmente a Malick immagina un dialogo tra grazia e natura, dentro il quale l'uomo ondeggia, carpisce, distrugge, spera, e cerca tra le ferite della quotidianità un senso. E come il Corneau (e il Tabucchi) di Notturno indiano racconta un viaggio di ricerca, ma senza un esito apparente, perché lo scorrere della vita filtra e lenisce, e allora anche la morte forse rientra in un disegno che si può comprendere senza un credo a cui attingere. Augusta che cammina sulle palafitte suonando gli stessi piatti che suonava suo padre nella banda del paese, seguita dai ninos della favela, e il ballo serale nello spazio del campo da calcio che si apre tra le baracche raccontano l'immersione di questa giovane straniera tra i corpi e le vite di una comunità, ma dimostrano come anche questo bagno di persone non sia sufficiente a curare la sua ferita, così come le palafitte non bastano a salvare le baracche dalla piena del fiume, o il controllo sociale del gruppo a salvare un bambino dalla scomparsa.
Il merito di Diritti, che ha messo a frutto il mestiere e tolto il velo al suo talento intorno ai 50 anni, è coniugare le varie anime della storia e farne un tutto armonico, mantenendo un costante ritmo narrativo, nei momenti di riflessione come in quelli di un presente ferito o di una lontananza evitata. Le musiche, la fotografia, la direzione degli attori, certi quadri in movimento che raccontano uno stato d'animo senza bisogno di parole, tutto è funzionale a una drammaturgia che scorre senza gravami intellettualistici e insieme lascia un segno profondo.
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lisa casotti
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venerdì 19 luglio 2013
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a fare un giro a quel paese
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Un giorno devi andare… a fare un giro a quel paese, non necessariamente in Brasile, perché il tema poteva essere sviluppato altrove, senza cercare esilio into the wild, anche se tolta l’Amazzonia si perde il bello del film: la fotografia, “gli interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete [...] ove per poco il cor non si spaura”. Il battello Itinerante (non a caso) che solca il Rio delle Amazzoni e ci si arena, il solco nell’acqua che si dilata e lacera il fiume come un taglio nella tela, la natura rigogliosa ripresa dall’alto e gli alberi maestosi (in particolare quello spezzato a padiglione auricolare) sotto cui meditare in attesa di sentire la Voce, che ti dice dove dovresti andare e che in questo film non si fa sentire.
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Un giorno devi andare… a fare un giro a quel paese, non necessariamente in Brasile, perché il tema poteva essere sviluppato altrove, senza cercare esilio into the wild, anche se tolta l’Amazzonia si perde il bello del film: la fotografia, “gli interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete [...] ove per poco il cor non si spaura”. Il battello Itinerante (non a caso) che solca il Rio delle Amazzoni e ci si arena, il solco nell’acqua che si dilata e lacera il fiume come un taglio nella tela, la natura rigogliosa ripresa dall’alto e gli alberi maestosi (in particolare quello spezzato a padiglione auricolare) sotto cui meditare in attesa di sentire la Voce, che ti dice dove dovresti andare e che in questo film non si fa sentire. E ancora la barca che solca il fiume, il suo procedere lento, la pioggia violenta e l’acqua cheta, la prua che avanza nell’erba, la riva di sabbia bianca, “gli interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi…”.
Incensato dalla critica pensavo di trarne qualche suggerimento per capire – appunto – dove recarmi. Mi è andata male. Che la religione fosse considerata come un palliativo nella ricerca del Senso, già lo sapevo (e lancio un appello ai registi ‘credenti’ perché facciano un film che riavvicini alla fede – qualunque essa sia – perché abbiamo bisogno di vedere qualcuno che crede in qualcosa, invece di imbatterci ogni volta in pretuncoli e suorine che sembrano aver fatto una scelta di comodo e laici disincantati o gabbati); ho ritrovato l’indicazione ‘dirittiana’ che forse il senso sta nel fare Comunità e la saggezza popolare degli uomini buoni (ma non tutti) e semplici (che da evangelizzati diventano ‘curatori’) e delle donne, che sono soprattutto madri-generatrici che amano istintivamente le loro creature e che spiazzano per la loro profondità ancestrale, come nella preghiera di ringraziamento all’anziana morta: ai suo occhi che hanno guardato, alle sue braccia che hanno alzato pesi e alle mani che hanno accarezzato, alle gambe che l’hanno condotta a conoscere nuova gente, ai piedi che hanno sorretto la sua stanchezza, al cuore che ha amato e si è lasciato amare... alla mente e all’anima.
Invece il dramma della donna che non può generare, a parte la meravigliosa dissolvenza iniziale con l’ecografia fetale che si sovrappone alle nuvole che occultano la luna, poteva lasciarlo approfondire a una collega perché in alcuni passaggi mi ha disturbato e l’ho percepito vagamente maschilista. Infine, l’interpretazione della Trinca non mi ha affatto coinvolto, né quando soffre immusonita, né quando ride e si dà da fare per aiutare la comunità, né quando gioca (così sgraziata nei movimenti) né quando vira alla follia cercando la soluzione nella solitudine estrema (tipo Ultima spiaggia dell’Isola dei famosi).
Che poi lo stile del regista sia preciso e personalissimo non ci piove, con immagini potenti come, per citarne una simbolica tra le tante, la casa della favela che rovina nel fiume in piena. Ma diciamo che ho preferito Il vento fa il suo giro e L’uomo che verrà, che almeno non avevano pretese di verità nemmeno nel titolo.
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pepito1948
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mercoledì 3 aprile 2013
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i diritti di diritti
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UN GIORNO DEVI ANDARE
Colpisce la casuale correlazione tra il cognome dell’autore ed il tema di fondo dei film di Giorgio Diritti: la rinunciadi un piccolo allevatore francese al diritto di installarsi in un paesino occitano chiuso e refrattario ai forestieri e lo spregio del diritto di esistere di una comunità emiliana vittima della barbarie nazista.
Nel suo nuovo film, il regista bolognese concentra l’attenzione sulla dura realtà di una comunità nell’Amazzonia brasiliana, nella quale si rifugia Augusta, in fuga dall’Italia e dal mondo civilizzato dopo una drammatica vicenda personale e familiare, alla ricerca di nuove motivazioni per riprendere il filo di una vita in via di frantumazione.
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UN GIORNO DEVI ANDARE
Colpisce la casuale correlazione tra il cognome dell’autore ed il tema di fondo dei film di Giorgio Diritti: la rinunciadi un piccolo allevatore francese al diritto di installarsi in un paesino occitano chiuso e refrattario ai forestieri e lo spregio del diritto di esistere di una comunità emiliana vittima della barbarie nazista.
Nel suo nuovo film, il regista bolognese concentra l’attenzione sulla dura realtà di una comunità nell’Amazzonia brasiliana, nella quale si rifugia Augusta, in fuga dall’Italia e dal mondo civilizzato dopo una drammatica vicenda personale e familiare, alla ricerca di nuove motivazioni per riprendere il filo di una vita in via di frantumazione. La favela in realtà è un villaggio palafitticolo, sospeso sul lerciume del fiume ed a rischio di crolli come la vita di Augusta, in cui la lotta per la sopravvivenza e contro la miseria è sostenuta da un grande spirito di gruppo e senso di solidarietà, accompagnati dalla palpitante vitalità dei bambini. Tra le difficoltà di trovare ogni giorno di che cibarsi, che porta persino alla vendita di bambini, la minacciosità delle mire rapaci di ricchi capitalisti e di imprenditori senza scrupoli, l’ingannevole attraenza della religione come unico rimedio ai triboli quotidiani, si inserisce Augusta, succhiando la linfa vitale che promana dalla comunità e adoperandosi al meglio per dare una fattiva mano ai locali, condividendone ed attenuandone le asperità quotidiane. Ma tutto questo non basta alla “fuggitiva” per superare i propri traumi, e quindi non resta che ritirarsi in un eremo sabbioso in riva al fiume, in attesa di un segno salvifico, che puntualmente verrà.
Ancora una volta l’occhio dell’autore si sofferma sulla violazione sistemica dei diritti dei nativi brasiliani ad una vita dignitosa e libera dalla fame e dalla miseria, che li espone costantemente alle tentazioni delle sirene della civiltà fatta di affari e sfruttamento dei bisogni dei deboli, oltre che dei telepredicatori. Ma alla nobiltà delle intenzioni non corrisponde la qualità del prodotto filmico, che non funziona e non è all’altezza delle precedenti prove. A parte la monoespressività della Trinca, su cui è superfluo soffermarsi, non è certo una novità la storia del fuggiasco borghese che intraprende un viaggio in luoghi lontani fisicamente e culturalmente per ritrovare stimoli interiori, siano essi in India o in Africa o in America latina. Così come l’epilogo, il raggio di luce rivelatore incarnato dalla visione improvvisa di un bambino come portatore di purezza, innocenza e vitalità, non è proprio un esempio di cinema originale ed imprevedibile. La parte “italiana” del racconto, di per sé di scarso interesse, non aggiunge nulla alla vicenda americana, e si perde in rivoli scontati (come la riconciliazione tra madre e figlia tramite il toccarsi delle mani da sempre lontane) senza un minimo di pathos. I dialoghi sono senza spessore e talora ai limiti della banalità (“.. bisognava trapiantargli il cervello…). Ma soprattutto affiora una certa artificiosità nelle inquadrature, comprese quelle naturalistiche (tra cui alcune sicuramente affascinanti), un’insistenza eccessiva nel puntare sull’immobilità espressiva della protagonista, una simbologia un po’ rudimentale (la Trinca ripresa tra tronchi o radici di alberi contorti che sembrano promanare tormento), che non trascinano emotivamente e lasciano un che di irrisolto.
Belle –ed evidentemente sentite- le immagini di povertà della palafitta, dei volti sfatti ma fieri degli abitanti, di qualche panorama suggestivo: non molto rispetto alle aspettative suscitate dagli esordi incoraggianti di un autore che attendiamo ad una prova più convincente.
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lore64
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venerdì 6 giugno 2014
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buona arte al servizio di una paccotiglia ideale
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Non ho reperito una grande carica innovativa nel film di Diritti.
Anzitutto nel tema di fondo della scelta per la vita che cresce e si rinnova, testimoniata dalla scene di apertura e chiusura. Il pregiudizio umanista, quello attinente all’ammirazione e al rispetto verso la vita umana, è fra i peggior lasciti di due millenni di superstizione giudaico-cristiana. L’essere umano è una scimmia assassina e con oltre sette miliardi di esemplari al mondo la sua carne è la mercanzia più economica esistente sul pianeta. Bisogna pensare a come sterminare la zavorra anziché far nascere nuovi esemplari. Altro che poetizzare gl’istinti procreativi delle femmine.
L’altro tema, altrettanto stereotipato, è la contrapposizione fra uomo civilizzato e buon selvaggio, con puntuale reinvenzione d'una superiorità vitale e spirituale del secondo.
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Non ho reperito una grande carica innovativa nel film di Diritti.
Anzitutto nel tema di fondo della scelta per la vita che cresce e si rinnova, testimoniata dalla scene di apertura e chiusura. Il pregiudizio umanista, quello attinente all’ammirazione e al rispetto verso la vita umana, è fra i peggior lasciti di due millenni di superstizione giudaico-cristiana. L’essere umano è una scimmia assassina e con oltre sette miliardi di esemplari al mondo la sua carne è la mercanzia più economica esistente sul pianeta. Bisogna pensare a come sterminare la zavorra anziché far nascere nuovi esemplari. Altro che poetizzare gl’istinti procreativi delle femmine.
L’altro tema, altrettanto stereotipato, è la contrapposizione fra uomo civilizzato e buon selvaggio, con puntuale reinvenzione d'una superiorità vitale e spirituale del secondo. La cosa viene coniugata alla predilezione evangelica verso gli ultimi della terra per dar luogo a un quadro tanto valido dal punto di vista estetico, recitativo e scenografico quanto miserabile sotto il profilo analitico. Il regista stilizza tutto quanto attiene all’Italia in termini di gelo, depressione, chiusura e miseria spirituale, tutto ciò che attiene ai pezzenti brasiliani in termini di riso, rispetto verso il prossimo, slancio vitale e profondo radicamento spirituale.
Ne vien fuori l’unica favela al mondo priva di alcoolismo, spaccio organizzato, prostituzione di tutte le età compresa quella infantile, genitori e fratelli magnaccia, mogli quotidianamente pestate dai mariti, bande armate che controllano la vita della comunità ecc. La favela messa in scena da Diritti ha con quella reale (dove la protagonista sarebbe stata violentata dopo 2 giorni) lo stesso rapporto che l’opera di Rousseau intrattiene cogli indù incontrati dai conquistadores, antropofagi e tagliatori di teste, abituati a torturare e mutilare i prigionieri per settimane per puro divertimento.
Col Sessantotto il tema del buon selvaggio aveva assunto una colorazione politica (dal libretto rosso a Cuba) di cui la storia ha evidenziato tutto il realismo e la concretezza. Nell’epoca del disimpegno la superiore autenticità del buon selvaggio dimette i panni di alfiere del Sol dell’Avvenire per vestire quelli – solo apparentemente più modesti – di antesignano di una profonda spiritualità che si traduce in uno slancio gioioso verso la vita. Con ciò Diritti dimostra fra l’altro di non aver capito nulla della profonda lezione freudiana e nietzscheana, per cui l’infelicità è controparte ineludibile della crescita intellettiva e spirituale dell’animale umano.
“Un giorno devi andare” conchiude degnamente il pastiche di sensibilità chic e mitologemi di regime aperto coi due precedenti esperimenti cinematografici. In “Il vento fa il suo giro” aveva stigmatizzato la diffidenza verso l’Altro in combutta coi correnti pregiudizi eterofili ed antirazzisti, senza avere idea dell’infinita grettezza e chiusura che caratterizzava le comunità di montagna dei secoli passati (e che rappresenta il vero ed autentico senso di radicamento). Ne “L’uomo che verrà” aveva smanettato colla mitologia antinazionalsocialista messa e tenuta in piedi dal conquistatore anglosassone. Adesso arriva il polpettone spiritualeggiante, a metà cristianesimo, UNESCO, miti delle origini e colf filippine o brasiliane importate dai credenti nel dio giudeo.
Una grande tecnica narrativa messa al servizio di questa paccotiglia ideale. In fondo la storia dell’arte è tutta qui.
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mareincrespato70
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giovedì 22 maggio 2014
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un lungo viaggio dentro se stessi...
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Giorgio Diritti è regista e autore controcorrente, attraversa stili e dimensioni umane anche con il vento in faccia, contrario; o risalendo un fiume, fosse anche il Rio rigoglioso, potente, violento e implacabile della lontana Amazzonia. "Un giorno devi andare" chi di noi, non l'ha pensato, almeno una volta, nella sua esistenza?
Un film illuminante nella sua dolente cronaca di un pezzo di vita di una "spaesata" giovane ragazza italiana che ha smarrito sè stessa, perchè ha perso qualcosa e qualcuno dentro di sè.... A partire da ques'ultimo evento traumatico, "cercherà" (chi? che cosa?) nel lontano Brasile, terra travolgente nelle sua imperfetta insopportabile bellezza, offuscata da tutte le crudeltà di un mondo povero, reso in più miserabile dalla sempre più pervicace globalizzazione attuale: dove anche un Dio si compra, come e più di un bambino indigente.
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Giorgio Diritti è regista e autore controcorrente, attraversa stili e dimensioni umane anche con il vento in faccia, contrario; o risalendo un fiume, fosse anche il Rio rigoglioso, potente, violento e implacabile della lontana Amazzonia. "Un giorno devi andare" chi di noi, non l'ha pensato, almeno una volta, nella sua esistenza?
Un film illuminante nella sua dolente cronaca di un pezzo di vita di una "spaesata" giovane ragazza italiana che ha smarrito sè stessa, perchè ha perso qualcosa e qualcuno dentro di sè.... A partire da ques'ultimo evento traumatico, "cercherà" (chi? che cosa?) nel lontano Brasile, terra travolgente nelle sua imperfetta insopportabile bellezza, offuscata da tutte le crudeltà di un mondo povero, reso in più miserabile dalla sempre più pervicace globalizzazione attuale: dove anche un Dio si compra, come e più di un bambino indigente.
Una straordinaria Jasmine Trinca compie il suo viaggio fisico, ma soprattutto interiore, senza sapere se e dove approderà; si nutre dei sorrisi dei derelitti della favela, gaudenti nonostante le piaghe dell'indigenza (o forse proprio per questo, perchè è l'unica àncora di sopravvivenza, visto che niente migliorerà).
Lo sfondo di una Manaus con i suoi splendidi colori che non ravvivano inaccettabili contrasti sociali; la linfa di una lingua portoghese viva che cerca di animare un'esistenza da ultimi; il percorso di "terra" come scelta di vita, perchè l'acqua sembra portare via anche le illusorie certezze di missionari che non coltivano leciti dubbi. Onore a questo film d'autore, che poco concede allo spettatore, molto alle coscienze di chi vuole sforzarsi di leggere nell'animo umano, complesso come il mondo che viviamo.
Un Brasile indimenticabile (ma anche inaccetabile), per la sua inesplicabile forza vitale, che visita più che farsi visitare, fa da cornice a quest'ultima splendida opera di Giorgio Diritti. Semplicemente stupenda la canzone carioca (canta la "nostra" Cristina Renzetti) Rosa (Pixinguingha) che accompagna, a tratti, il film. A mio parere, una visione che è arricchimento interiore. Da non perdere!
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mareincrespato70
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giovedì 29 maggio 2014
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la morte che accompagna vita
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Film tanto scomodo e inusuale per la paludata borghese cinematografia italiana, quanto raffinato e spiazzante.
Al suo splendido esordio alla regia, Valeria Golino sceglie di affrontare frontalmente, senza compromessi, la morte pur non mostrandola mai, ma evocandola in ogni gesto e rappresentazione simbolica, persino quella sessuale. Una Jasmine Trinca, ancora una volta in stato di grazia, impersona Miele, dispensatrice di morte salvifica, concetto ostico per il catto-comunista mondo italiano, ma tema di im-mortale attualità, perchè, in fondo, si sa: non c'è vita che, ineluttabilmente, non sia legata concettualmente alla morte, che nella nostra esistenza può, persino, essere “desiderata”.
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Film tanto scomodo e inusuale per la paludata borghese cinematografia italiana, quanto raffinato e spiazzante.
Al suo splendido esordio alla regia, Valeria Golino sceglie di affrontare frontalmente, senza compromessi, la morte pur non mostrandola mai, ma evocandola in ogni gesto e rappresentazione simbolica, persino quella sessuale. Una Jasmine Trinca, ancora una volta in stato di grazia, impersona Miele, dispensatrice di morte salvifica, concetto ostico per il catto-comunista mondo italiano, ma tema di im-mortale attualità, perchè, in fondo, si sa: non c'è vita che, ineluttabilmente, non sia legata concettualmente alla morte, che nella nostra esistenza può, persino, essere “desiderata”.
Una macchina da presa febbrile e compassionevole, ma mai retorica, scruta la febbrile esistenza di Miele, la sua anomia quotidiana, i suoi incontri di passaggio, la sua sessualità tormentata, i suoi desideri repressi sino all'incontro con il prof. Grimaldi, un Carlo Cecchi, che si conferma grande attore, personaggio che svela ancor di più la morte, spogliandola dai suoi tabù, ma anche dalla inutile giustificazione della malattia conclamata: eutanasia è una bella parola di origine greca, ma sempre sotto terra ti porta. Tanto vale, allora, considerare la morte compagna di vita, proprio per vivere meglio possibile, approfittando dei doni della quotidianità, del risveglio e respiro giornaliero che ci prefigura il domani.
Ottimo prova di tutti gli attori, con Libero Di Rienzo, stavolta spalla di Jasmine Trinca. Belle le musiche che accompagnano il film.
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