Le due vie del destino - The Railway Man

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Un film di Jonathan Teplitzky. Con Colin Firth, Nicole Kidman, Jeremy Irvine, Stellan Skarsgård, Sam Reid.
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Titolo originale The Railway Man. Drammatico, durata 116 min. - Australia, Gran Bretagna 2013. - Koch Media uscita giovedì 11 settembre 2014. MYMONETRO Le due vie del destino - The Railway Man * * 1/2 - - valutazione media: 2,86 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Una tragedia che opprime il cuore, una storia che Valutazione 5 stelle su cinque

di ANTONIOPAGANO


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giovedì 8 febbraio 2018

 Eric Lomax (Colin Firth) è un appassionato di ferrovie che gira la Gran Bretagna in lungo e in largo, naturalmente in treno, alla ricerca di cimeli ferroviari. In treno incontra Patti (Nicole Kidman) e la precoce scintilla che scoppia tra i due mette momentaneamente fuori strada lo spettatore: Eric continua a vivere da decenni l’incubo del campo di prigionia giapponese di Kanchanaburi in Thailandia dove, insieme a decine di migliaia di militari inglesi, è stato internato dopo la caduta di Singapore nel 1942.
I Giapponesi stavano costruendo una linea ferroviaria tra Thailandia e Birmania (415 km) che avrebbe completato il collegamento tra India e Cina. Non era sufficiente, per tale impresa, disporre di manodopera in larga quantità e a basso costo: le difficoltà di tracciato, le proibitive condizioni ambientali e il ritmo dei lavori richiedevano un esercito di schiavi, prigionieri militari e civili brutalmente asserviti, e renderanno famosa quell’opera come “la ferrovia della morte” dato l’altissimo numero di vittime tra i lavoranti (lavorarono 260.000 prigionieri e ne perirono 116.000 di stenti, malattie e vessazioni).
L’incubo ricorrente di Eric sottopone a stress l’unione con Patti che deve fare i conti con un disturbo mentale di cui non conosce l’origine. Patti contatta Finlay (Stellan Skarsgard), un altro sopravvissuto al campo di lavoro che condivide con Eric quel «codice del silenzio che sembra affidarsi al tempo per curare le piaghe dell’anima». Patti ricuce, attraverso Finlay, gli avvenimenti passati e risale alla dimensione eroica del giovane Eric (Jeremy Irvine), alle vessazioni subite, alle torture, alle selvagge bastonature, estenuanti anche per gli stessi Giapponesi che le infliggevano. In particolare, emerge la figura di Takashi Nagase (Tanroh Ishida), altrettanto giovane ufficiale interprete della Kempeitai, la Gestapo giapponese. La tragedia ha una madre, la guerra, un padre, il disprezzo dei Giapponesi nei confronti dei nemici vinti, e un attore protagonista, Nagase, un uomo istruito, un aguzzino senza attenuanti perché i condizionamenti culturali del militarismo nipponico e la forza delle circostanze nulla potrebbero se il libero arbitrio chiudesse il rubinetto allo sgorgare del male. Le torture inflitte da Nagase a Lomax erano del tutto gratuite, oltre che dolorose e umilianti: Eric seppellisce nel silenzio quei ricordi, soprattutto con la persona che ama, perché le ingiustizie subite si vivono con il pudore nascosto della vergogna. Sarà grazie all’amicizia estrema di Finlay e all’amore illuminante di Patti che Eric riuscirà a chiudere i conti con il passato attraverso l’incontro con un maturo Nagase (Hiroyuki Sanada), anch’egli sopravvissuto, alla ricerca di una nemesi.
Stabilire la verità: questa è la prima ansia di Eric, iniziando dal lessico con cui i due antagonisti parlano di quel passato (“sono morti? No, sono stati ammazzati”). Questa storia è qualcosa di diverso e di meglio della precedente filmografia di genere (Il ponte sul fiume Kway 1957, Furyo 1983, Fight for Freedom 2001, Unbroken 2014): se vogliamo cercare analogie calzanti dobbiamo citare Primo Levi che, qualche anno dopo il ritorno dal lager, in modo del tutto fortuito ebbe una relazione epistolare con “Doktor Muller”, uno dei tanti che non furono aguzzini ma assistettero immobili allo scempio umano nei campi. Accadeva quel che accadeva perché doveva accadere. Levi avrebbe voluto incontrarlo: «L’incontro che io aspettavo … era un incontro con uno di quelli di laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi. Non per fare vendetta … Solo per ristabilire le misure, e per dire “dunque?”». Nell’espressione finale di Eric («Viene il momento in cui l’odio deve finire») non c’è il tema del perdono o della pietà per il Nagase contrito ma il monito ad avere rispetto per sé stessi, a costruire consapevolezza sulle macerie lasciate dalla tragedia. Stabilire le misure, sempre, e non dimenticare, ma non odiare nessuno, mai, neanche per “fare vendetta”.
L’emergente regista australiano Jonathan Teplitzky indaga nell’intimo e lo fa con una fotografia che è un album completo di effetti: i mille luccichii del cantiere ferroviario che appaiono come una favola ma poi svelano la bruttura dei lavori forzati, il gracchiare della radio clandestina al lume di una lampada, le stanze in bianco e nero del Kempitai, il chiarore della spiaggia con le case basse allineate sullo sfondo e quell’unica figura umana, i primi piani di Nicole Kidman.
Il film è tratto dall’omonimo libro autobiografico The Railway Man che Eric Lomax ha pubblicato nel 1994 conservando i nomi dei protagonisti oltre all’autenticità delle vicende. Nell’edizione italiana, sia del libro che del film, è diventato “Le due vie del destino”: quali sono le “due” vie del titolo italiano? Quelle di Lomax e di Nagase? O quelle di Lomax e di Finlay? Forse il miglior riferimento è proprio il secondo: Lomax e Finlay sono rimasti entrambi scossi da quella esperienza e vorrebbero entrambi dimenticare senza cedere all’oblio. I loro destini si divideranno e, in qualche modo, l’uno consentirà all’altro di recuperare il tempo perduto.
Il monito ricorrente di Lomax (“non contare, non sprecare gli anni con l’orologio”) è meno sibillino di quanto possa sembrare, se è vero che non sempre “affidarsi al tempo per curare le piaghe dell’anima” è la scelta migliore.

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