Ci sono film in cui non si può, in sede di analisi, non cominciare dalla fine, cioè dal cast, e precisamente dalla protagonista. Che Judy Dench fosse un’attrice fenomenale era noto a tutti. Ma nella parte di Philomena, donna realmente vissuta, la cui unica aspirazione diventa quella di conoscere la verità sul figlio indebitamente sottrattole in una "cattività" imposta da operatrici religiose, supera se stessa e dimostra ancora una volta di rientrare tra le massime interpreti viventi del cinema mondiale.
Ancora bellissima nonostante l'età e le rughe, tratti somatici ammalianti come il taglio felino degli occhi e lo sguardo penetrante, la Dench è un'attrazione a sè nel contesto di un film non nuovo (in fondo è un viaggio di ricerca di qualcuno da tempo scomparso da parte di una persona che non ha perso la speranza e non vuole vendetta ma solo verità) ma equilibratissimo nel non cadere mai in eccessi. Di recitazione per esempio: la Dench si muove al meglio della resa in termini di credibilità, tra dramma e apruzzate di humour, senza sbavature e cedimenti gigioneggianti (come hanno fatto in ruoli complessi altri grandi, da Nicholson a Brando). Ma la misura è rispettata anche sul piano ideologico, laddove l'anticlericalismo di fondo è affidato solo alla forza delle immagini, alla spietata ipocrisia di alcuni ambienti di (pseudo)assistenza religiosa, alle parole reazionarie e scellerate di una delle principali responsabili della angherie subite dalla protagonista in gioventù, ribadite a distanza di decenni dal misfatto; non ci sono pistolotti da parte di nessuno, semmai al contrario disponibilità al perdono di Philomena, donna -nonostante tutto- di profonda e provata fede, che alla fine argina il carico di furore del giovane Martin accontentandosi di avere trovato ciò a cui realmente ambiva: non tanto l'incontro con il figlio, scomparso nei meandri della sua lontana esistenza, ma la prova documentata che questi prima di passare a miglior vita si era ricordato di lei con atti incontrovertibili. Il cerchio si chiude, il contatto emozionale tra i due, sia pure a distanza di spazio e di tempo, si realizza e Philomena ricomincia il suo percorso di donna, forse appesantita da un difficile vissuto ma appagata e soddisfatta.
Onore anche a Steve Coogan, coprotagonista in seconda, nel ruolo del giornalista estromesso dall'entuorage di Blair e disoccupato con la voglia di riscattarsi, inizialmente in posizione distaccata ed accessoria, ma che poi cresce e brilla di luce propria quando diventa indispensabile per il successo della missione di Philomena, divenuta anche la sua missione. Coogan, comico famoso nella sua Inghilterra e coautore della sceneggiatura, è bravo nello smussare gli aspetti drammatici della vicenda con battute di spirito tipicamente inglesi, sempre nobilitate da intelligenza e giusto dosaggio.
Onore infine a S. Frears, regista attento a mostrare e gestire con senso della misura la dialettica tra le diversità dei due, come awmplicità campagnola e spirito metropolitano, fede ed anticlericalismo, passione giustizialista e idealismo perdonista, abile nel costruire il racconto seguendo passo passo la dinamica prima aspra poi convergente infine empatica dei due "ricercatori", mettendo nel massimo rilievo gli inderogabili valori umani come rispetto della vita umana, libertà di scelta, tolleranza in antitesi a quegli ambienti che, forti di un credo che dovrebbe fondarsi su quei principi fondamentali, in realtà ne fanno scempio. Un’antitesi sempre attuale.
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