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Ultimo aggiornamento martedì 31 marzo 2015
Prussia, fine Ottocento. Un giovane figlio di contadini coltiva un suo grande sogno: costruire una macchina a vapore per lavorare i metalli.
ASSOLUTAMENTE SÌ
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Schabbach, Hunsrück, 1840, la famiglia Simon, come molte altre della Prussia rurale fatica a tirare avanti con la bottega da fabbro come unico sostentamento e due figli maschi sotto il tetto (l'unica femmina è stata cacciata per aver sposato un cattolico) di cui uno, Jakob, poco incline al lavoro e molto stimolato dallo studio. Nella mente di Jakob Simon c'è solo il Brasile, all'epoca meta di molti emigrati sfiancati dalla povertà che vivevano in patria, ne studia tutti gli idiomi e gli usi, sognando di partire anch'egli un giorno. A legarlo all'Hunsrück è però la passione per Henriette, giovane contadina, che ammira le sue inclinazioni fuori dal comune. Tuttavia la catena di eventi innescata da un fallito tentativo di ribellione alle angherie del barone che domina la regione, causeranno un improvviso e passionale incontro di Herriette con Gustav, fratello di Jakob, e la prigionia di quest'ultimo. Al suo ritorno Henriette si sarà dovuta sposare con Gustav suo malgrado.
È un quarto capitolo in edizione ridotta (rispetto ai suoi standard) quello che Reitz porta alla 70. Mostra di Venezia a 7 anni dal terzo, un prequel che non molla la famiglia Simon ma nemmeno cerca a tutti i costi il ponte con il resto della storia (non è chiaro quale sia il membro della famiglia Simon da cui nascerà il Paul che troviamo nella prima serie). Eppure nonostante la brevità, il grande racconto di Reitz è splendido, al livello dei primi due capitoli, animato da quel medesimo piacere nell'ammirare lo svolgersi delle esistenze altrui, l'avvicendarsi di emozioni differenti e il consueto ripetersi delle più elementari dinamiche sentimentali.
Infatti nonostante una trama come sempre costellata dalle ordinarie tragedie del vivere umano (quelle familiari e quelle personali), lo stesso il regista è capace di infondere ad ogni momento del suo racconto una gioia di vivere e un'onesta emotiva che commuovono.
Dal punto di vista formale e narrativo invece non mancano le allegorie e gli stilemi che hanno contraddistinto il resto della serie. Il rapporto tra colore e bianco e nero stavolta non si misura nell'alternarsi di scene, nel film il colore compare solo ogni tanto e solo in alcuni elementi dell'inquadratura. Una contaminazione che colpisce gli elementi vitali: le piante, i fiori (anche se disegnati sul muro), il calore del sole, le fiamme, il sangue e, a sorpresa, il denaro. Tutto in armonia con il discorso di Jakob sulla maniera in cui i colori, nella lingua di una tribù di indiani del Brasile, indicano anche stati dell'animo.
Il personaggio di Jakob sembra molto modellato sul suo pronipote protagonista del secondo capitolo, Hermann, anche lui si distanzia dalla propria famiglia per sensibilità e aspirazioni intellettuali, identificando la possibilità di una vita diversa con una seconda patria da conquistare, un secondo luogo in cui vivere che sogna, studia e conosce perfettamente anche senza poterci andare. Ma l'altra patria del titolo non è solo il Brasile degli emigrati, è anche il paese che i vessati contadini sognano, il miglioramento della loro vita che desiderano e la rivoluzione che non fanno, in un film che appare il più dichiaratamente politico della serie.
Ad ogni modo il senso rimane il medesimo, la Heimat (in tedesco significa patria ma anche luogo natio e materno) non è necessariamente quella in cui si nasce ma anche quella a cui è lecito aspirare o che è possibile scegliere.
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Quest’ultima (per ora) quarta cantica cinematografica di Reitz è in bianco e nero e il colore appare solo qua e là ma come chiazze limitate a un qualche singolo oggetto. Il regista, però, non s’inoltra in avanti nella storia ma torna indietro, e di molto. Torna quasi a un’origine, al 1842, quando il villaggio era solo una strada di fango, poche case e la [...] Vai alla recensione »
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Il film parte malissimo: il titolo mezzo in italiano e mezzo in tedesco, sottotitolato (da un dialetto della Renania!), in bianco e nero, voce fuori campo che concettualizza a tutto spiano. Una volta assestatomi sotto queste botte alla concentrazione, ho cominciato però ad apprezzare sempre più il mondo che il regista/sceneggiatore andava costruendo e l'umanità con cui lo popolava. [...] Vai alla recensione »
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Obiettivamente la durata di quattro ore non è giustificata dal contenuto che pur essendo pregevole, come sempre avrebbe potuto essere ampiamente ridotto senza perdere nulla dei significati che erano nell'intenzione del regista di conumicarci. Molto bella la fotografia per una narrazione assolutamente lineare senza sussulti da ricordare.