Gravity è un film di fantascienza, senza alieni e senza salti nell’iperspazio; potrebbe essere la cronaca di una missione spaziale, di quelle di cui siamo informati solo quando le cose si mettono male. Ci sono solo due personaggi e una voce (Houston), con quel minimo di non realismo che la fiction rivendica.
Sarebbe logico pensare che i veri viaggi degli astronauti e le mirabolanti trovate rese possibili dagli effetti speciali avrebbero spento qualsiasi interesse per un film di questo genere. Invece l’ispirazione, la vision del regista messicano Alfonso Cuaròn, autore assieme al figlio della sceneggiatura, ci ha regalato un bel film che ci ha fatto provare di nuovo le emozioni di Odissea nello Spazio.
Cuaròn riesce magistralmente a produrre nello spettatore uno stato di ansia nei primi venti minuti di film (una scena unica, lunghissima) come raramente accade nel cinema, per poi sviluppare una vicenda drammatica e piena di emozioni, dalla quale riesce a ritagliare momenti di contemplazione della terra vista dallo spazio e della calma che essa ispira.
Ci voleva anche un’attrice che fosse in grado di sostenere un monologo di un’ora, e Cuaròn l’ha trovata in una bravissima Sandra Bullock, strappata ai ruoli brillanti in cui eccelle per ricoprire un ruolo drammatico che potrebbe fruttarle il secondo premio Oscar.
Un apprezzamento anche per George Clooney che si fa carico di un ruolo che prevede un solo minuto del suo viso fuori dallo “scafandro”. Il personaggio del veterano dello spazio è perfettamente delineato: positivo, sicuro di sé, pieno di risorse eppure simpatico e spiritoso.
Non si può assistere a questo film porta senza chiedersi “Come hanno fatto?” Lo spettatore nota l’ossessionante attenzione a simulare l’assenza di gravità, con i pezzi degli scacchi o le gocce di liquido che galleggiano nelle astronavi, come pure le violente rotazioni degli astronauti nello spazio.
Molte immagini sono generate digitalmente, ma si è fatto ricorso anche a mezzi creati appositamente per questo film, come le telecamere robotizzate (pare si sia utilizzata una telecamera che viaggiava a 40 km all’ora per poi fermarsi a pochi centimetri dal viso della Bullock!) oppure una stanza “delle luci” con due milioni di Led per ricreare la luce nello spazio e permettere la sua rotazione attorno agli attori, che, poveretti, dovevano rimanere per ore isolati nella stanza, appesi a funi.
Ci permettiamo però di rilevare un piccolo neo della produzione che, 30 anni dopo Jack Lemmon nella Sindrome Cinese, ci ripropone la stessa scena dello strumento inceppato che segna zero dopo il tic-tic del dito sul vetro, come se su un’astronave di oggi possa trovar posto uno strumento analogico, antiquato e ingombrante come quello.
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