Django Unchained

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Un film di Quentin Tarantino. Con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington.
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Titolo originale Django Unchained. Western, durata 165 min. - USA 2013. - Warner Bros Italia uscita giovedì 17 gennaio 2013. MYMONETRO Django Unchained * * * 1/2 - valutazione media: 3,66 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Tarantino Western Valutazione 4 stelle su cinque

di xXSeldonXx


Feedback: 4847 | altri commenti e recensioni di xXSeldonXx
martedì 22 gennaio 2013

Una fila di schiavi neri cammina in un deserto roccioso, accompagnati da due guardiani armati e dalle note di "Django" di L. E. Bacalov, mentre sullo schermo scorrono, enormi e in un rosso leoniano, i titoli di testa. Così comincia "Django Unchiained": Clint Eastwood, in "Per un pugno di dollari", entrava in scena in groppa ad un mulo, togliendo all'eroe (spaghetti) western quell'aura di sacralità creatasi con i film di John Ford; Franco Nero in "Django" arrivava a piedi, trascinandosi dietro una bara e la sella di chissà quale cavallo; qui il protagonista si presenta in catene e destinato ad una vita di schiavitù, ma verrà presto liberato da un bizzarro cacciatore di taglie che, nell'antebellico sud razzista, lo guiderà a liberare la moglie, anch'essa schiava, dalle grinfie del perfido "monsieur" Calvin Candie.

L'ultima fatica - o forse dovremmo dire "l'ultimo divertimento" - del regista di Pulp Fiction giunge sui nostri schermi dopo una fase di riprese decisamente dilatata (Tarantino si divertiva troppo per far finire le riprese in un tempo ragionevole) e una post produzione piuttosto difficile a causa della morte di Sally Menke, montatrice di tutti i film del regista e affettuosamente salutata da tutta la troupe con un "Hi Sally" prima di ogni ciak, durante le riprese; il prodotto finale è un film di due ore e tre quarti, il più lungo tra quelli del regista del Tennessee, che comunque conserva ancora circa mezzora di scene inedite e che sta valutando la possibilità di una versione estesa.
Con questa pellicola Tarantino si misura direttamente con il da lui tanto saccheggiato genere Western; eppure se a prima vista potrebbe sembrare un'operazione quasi banale per un uomo che in ogni suo film ha messo un pizzico dei tanto idolatrati film alla Leone e Corbucci, dopo un'analisi più approfondita ci si accorge che (almeno sulla carta, intendiamoci) il Mr. Brown di "Le Iene", nel West, non gioca per niente in casa. Innanzitutto il periodo storico va a suo sfavore: siamo in un mondo che ancora non ha conosciuto i fumetti, la musica pop, il cinema ed è privo di quella cultura popolare che riempiva tutti i più celebri dialoghi tarantiniani; se questo era già accaduto in parte con "Bastardi Senza Gloria", dove però quel divoratore di cinema che è Tarantino aveva dato prova di conoscere a menadito perfino il cinema del Terzo Reich, in "Django Unchained" non c'è niente da fare: il metacinema è del tutto assente. Inoltre il Western trascina Tarantino dove non era mai stato per così tanto tempo: all'aperto. Dopo sette film ambientati principalmente al chiuso, il regista qui si confronta per la prima volta con lunghe e obbligatorie sequenze all'esterno. Come se non bastasse, ciò che muove il protagonista, oltre all'onnipresente Vendetta, è l'Amore coniugale, sentimento mai affrontato da QT. Le premesse non fanno sperare nienre di buono...
E invece quel geniaccio di sangue italiano, irlandese e cherokee riesce a sorprendere ancora, adattando il proprio stile alla situazione, senza tuttavia perdere quel tocco che lo distingue da qualunque altro cineasta contemporaneo.
Il prodotto finale è un film diviso in due parti: nella prima ora prevalgono le sequenze all'aperto e quello che ci si mostra è un Tarantino inedito, dove l'azione prende il sopravvento sulle parole e soprattutto non si attua il classico schema del dialogo che crea tensione e poi esplode in una carneficina totale. In ogni caso anche in questo primo pezzo, Tarantino riesce ad emozionare grazie ad alcune scene davvero azzeccate, agli splendidi paesaggi che spaziano da gelide foreste a montagne innevate, da verdi praterie a cittadine e piantagioni del sud degli Stati Uniti, e all'ineguagliabile capacità del regista di accostare immagini e musica: si veda a tal proposito la cavalcata dei cavalieri del Ku Klux Klan sulle note del Dies Irae di Verdi (in puro stile Griffithiano), sequenza che vanta inoltre una perfetta direzione degli almeno trenta stuntman a cavallo. Con l'entrata in scena di Di Caprio invece, il film si rintana tra le mura del Cleopatra Club prima e di Candieland poi: e allora ritorna il Tarantino che tutti conoscono, fatto di dialoghi geniali, di suspance e di una mattanza qui davvero scatenata.
Ritorna dunque il Western, e di nuovo alza l'asticella della violenza: così come quando uscì "Per un pugno di dollari" nel 1964 fece scalpore per il tasso di brutalità, all'epoca considerato eccessivo, anche in "Django Unchained" la violenza appare molto cruda e feroce, grazie ad alcune scene di grande impatto e di raccapricciante fisicità (una su tutte: il combattimento tra i due mandingo), e ad un sonoro che spesso evidenzia, oltre alla potenza degli spari, anche l'impatto de proiettile con carne ed ossa. Ma l'ottavo film di Quentin Tarantino, oltre che uno Spaghetti Western, è anche un film di denuncia alla schiaitù e al razzismo: intorno a questo delicatissimo tema ruota tutta la storia e tutta la psicologia, a volte malata, a volte fortemente umana, di ogni personaggio della pellicola.
Django, interpretato da uno specialissimo Jamie Foxx (che ha dovuto utilizzare al meglio le sue doti da cavaliere), è una mina vagante nel Mississippi schiavista: è uno "negro" (termine che negli USA ha un'accezione decisamente più offensiva che da noi) libero, sposato e cacciatore di taglie; egli incarna tutta la rabbia della gente nera e la sfoga contro gli schiavisti e contro chiunque accetti la schiavitù, senza mai tuttavia farsi intenerire dalla situazione degli altri schiavi (ad eccezione di sua moglie) e dimostrando così un animo crudele ed egoista, degno del migliore eroe spaghetti western; vuole sentirsi libero e vuole sentirsi unico, diverso da qualunque altro nero o bianco. Così come la Shosanna di "Bastardi senza gloria", persegue la vendetta personale e contemporaneamente rappresenta il riscatto della sua "razza" a discapito dei suoi oppressori storici. E' un eroe senza paura, un Sigfried americano che intraprende un lungo viaggio per liberare la sua Broomhilda, ma nel suo mondo "ti devi sporcare" e lui è ben lontano dalla purezza di cuore degli eroi degli antichi miti nordici.
Christoph Waltz, con la sua gestualità teatrale e con una "barba eccezionale", interpreta il dottor King Schultz, un gentiluomo dalla parlata forbita e dalla forte vena comica. E' forse il più umano dei personaggi del film, l'unico che si impressioni di fronte alla violenza dello schiavismo: nonostante anche lui abbia la sua dubbia morale ("Uccido persone e vendo i loro corpi in cambio di denaro"), si rivelerà l'unico veramente schierato contro gli orrori del razzismo. Il suo rapporto con Django è simile a quello che si instaura tra Virgilio e Dante nel capolavoro del Poeta: dapprima egli funge da guida e maestro ad un poeta/schiavo disorientato in quell'inferno che era il sud schiavista, ma poi l'allievo si pone allo stesso livello del maestro fin'anche a superarlo: "io te sovra te corono e mitrio" (Purgatorio XXVII).
Chi invece si considera superiore a chiunque altro è Calvin Candie, portato sullo schermo da un Di Caprio inedito e dal sorriso ingiallito, qui davvero straordinario nei panni del suo primo antagonista; Candie è il proprietario di una grande piantagione, che, annoiato dalla vita, si diletta in vari e terrificanti passatempi, tra cui la lotta tra mandingo e la frenologia. Non è altro che un bambino viziato, che vuole sembrare un colto ed educato adulto, che compie delitti solo perché può farlo, circondato da servitori e schiavi: sotto questo punto di vista Candie può essere visto come la critica di Tarantino all'intera storia americana, a quella di ieri e di oggi.
Questo Re Sole del Sud è invece paradossalmente succube di Stephen (un magnifico Samuel L. Jackson), il nero che gestisce la casa e che in pubblico si mostra colloquiale ma servile col suo capo, ma quando i due si trovano in privato, il rapporto servo-padrone si ribalta e appare evidente che è lo schiavo a comandare. Questo vecchio governante è forse la figura più viscida e negativa del film: accetta la condizione di schiavitù in cui versa il suo popolo perché gli consente una posizione di saldo controllo sul mondo che conosce; per questo non può tollerare il cambiamento rappresentato da quel "negro sul ronzino" che un giorno vede arrivare alla piantagione.
I personaggi, come in tutti i film di Tarantino, sono dunque estremamente caratterizzati, ognuno unico nel suo modo di pensare e di rapportarsi con la violenza, e questi sono senz'altro tra i migliori personaggi creati dal regista di capolavori come "Kill Bill".
I dialoghi invece, come al solito geniali, sono meno intrisi di riferimenti pop e di conseguenza meno memorabili e comici, meno "cult", ma più seri (e a volte eticamente raccapriccianti) e adatti al delicato tema della schiavitù.
Sotto il punto di vista tecnico il film è ineccepibile: Tarantino riesce anche stavolta ad ottenere il meglio dai suoi attori e dai suoi collaboratori. La fotografia di Robert Richardson e i movimenti di camera sono perfetti, con quelle zoomate in stile kung-fu movie largamente utilizzate; la scenografia include perfino le stesse ambientazioni di film come "Mezzogiorno di fuoco" e "Sentieri selvaggi". Le musiche, da sempre uno dei punti forti dei film di Tarantino, includono per la prima volta brani composti appositamente per il film da artisti del calibro di Morricone ed Elisa (Ancora qui), Rick Ross (100 black coffins) e Anthony Hamilton (Freedom); come al solito, l'anacronistica colonna sonora spazia dalle musiche di film western al rap, dal blues al country e accompagna alla perfezione ogni tipo di scena.
Con questo film, intriso di citazioni che vanno da "Il buono, il brutto, il cattivo" al "Django" di Sergio Corbucci, Tarantino finalmente omaggia esplicitamente il genere a cui è più legato: questa epopea western è ovviamente un melting pot cinematografico e al contempo si rivela essere il meno "tarantiniano" dei film del regista e probabilmente il più significativo e tecnicamente maturo. Aspettando (e sperando) la versione estesa...

P.S.: Nota di demerito per la traduzione in italiano: parole come "boy" e "fuck" rese con "giovine" e "cazzarola" stonano completamente con lo stile del film; il doppiaggio di Don Johnson inoltre gli assegna una voce molto più stridula e ridicola dell'originale.

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xxseldonxx mercoledì 23 gennaio 2013
???
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perché me la visualizza in due caratteri diversi? Boh...

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