Tutto può cambiare

E’ dura essere la donna di una rockstar, specie se quest’ultima è in rampa di lancio e inizia ad assaporare il gusto del successo. Lo impara a sue spese Gretta, sbarcata a New York dalla natìa Inghilterra assieme al fidanzato Dave - interpretato da Adam Levine dei Maroon 5 - che ben presto si volatilizza con malagrazia per riapparire solo nel finale con la presunzione di riappiccicare i cocci. Convinta da un amico (James Corden) a salire su un palchetto con le sue canzoni, la ragazza fulmina sulla via di damasco Dan, produttore ormai in disarmo: con l’aiuto di un bel po’ di alcool, l’uomo riveste nella sua testa con un brillante arrangiamento la melodia per sola voce e chitarra di lei. E’ l’inizio della ennesima variazione sul tema della seconda possibilità - il titolo, specie quello originale, è esplicito al riguardo - che scaturisce in un ‘feel good movie’ pieno di garbo e dal buon ritmo che fa uscire dalla sala sorridenti e con lo spirito sollevato. Rifiutati dagli studi di registrazione, Dan e Gretta decidono di lavorare per strada con l’aiuto di un gruppo di amici (impossibile non notare almeno il bassista con la pinza nei capelli) e il supporto anche finanziario del rapper Troublegum (CeeLo Green) che proprio a Dan deve carriera e soldi: la vicinanza forzata fa forse scattare tra i due qualcosa, ma il ritorno in scena della famiglia di lui – moglie fedifraga e figlioletta ribelle – conduce verso una chiusa dolceamara lontana dai clichè del lieto fine. Quella conclusiva è, peraltro, più un’eccezione che una regola, visto che gli altri passaggi obbligati di un film del genere ci sono tutti e solo per elencarne qualcuno ecco il rude Troublegum dal cuor d’oro, il recupero del rapporto con la prole di un padre per troppo tempo lontano, gli uomini dell’industria avidi e gabbati, una New York notturna vissuta ascoltando a vicenda i pezzi preferiti: l’irlandese Carney (che ha un passato da batterista) li utilizza però con i giusti equilibri dirigendo un’opera non di primissima grandezza, ma che regala un centinaio di minuti di intelligente divertimento. Se Keira Knightley, che ha studiato voce e chitarra per la parte, canta con un filo di voce e offre un’interpretazione più posata del solito, il vero motore del film resta nella fisicità del personaggio di Mark Ruffalo, in cui l’attore è bravo a dar vita a un uomo incasinato e a volte goffo fino a strappare la risata, ma anche assai più vitale di quello che si potrebbe pensare all’inizio. Oltre a una città ripresa in molti dei suoi aspetti conosciuti dalla fotografia di Yaron Orbach – in fondo, un altro dei ‘passaggi obbligati’ di cui sopra – l’altra grande protagonista del film è la musica ovvero la creazione della stessa, tanto che, seppur non indispensabile, essere almeno un po’ musicofili aiuta nell’apprezzare lo svolgimento della vicenda. Certo, per essere il risultato di registrazioni fatte tra vicoli poco illuminati e tetti con vicini irritabili, il disco di Gretta ha un suono un po’ troppo rotondo che testimonia almeno un accurato missaggio, ma stiamo in fondo parlando di una favola che si prolunga anche nelle scene dell’ulteriore finale che scorre assieme a dei titoli di coda che sono perciò da seguire fino al termine.E’ dura essere la donna di una rockstar, specie se quest’ultima è in rampa di lancio e inizia ad assaporare il gusto del successo. Lo impara a sue spese Gretta, sbarcata a New York dalla natìa Inghilterra assieme al fidanzato Dave - interpretato da Adam Levine dei Maroon 5 - che ben presto si volatilizza con malagrazia per riapparire solo nel finale con la presunzione di riappiccicare i cocci. Convinta da un amico (James Corden) a salire su un palchetto con le sue canzoni, la ragazza fulmina sulla via di damasco Dan, produttore ormai in disarmo: con l’aiuto di un bel po’ di alcool, l’uomo riveste nella sua testa con un brillante arrangiamento la melodia per sola voce e chitarra di lei. E’ l’inizio della ennesima variazione sul tema della seconda possibilità - il titolo, specie quello originale, è esplicito al riguardo - che scaturisce in un ‘feel good movie’ pieno di garbo e dal buon ritmo che fa uscire dalla sala sorridenti e con lo spirito sollevato. Rifiutati dagli studi di registrazione, Dan e Gretta decidono di lavorare per strada con l’aiuto di un gruppo di amici (impossibile non notare almeno il bassista con la pinza nei capelli) e il supporto anche finanziario del rapper Troublegum (CeeLo Green) che proprio a Dan deve carriera e soldi: la vicinanza forzata fa forse scattare tra i due qualcosa, ma il ritorno in scena della famiglia di lui – moglie fedifraga e figlioletta ribelle – conduce verso una chiusa dolceamara lontana dai clichè del lieto fine. Quella conclusiva è, peraltro, più un’eccezione che una regola, visto che gli altri passaggi obbligati di un film del genere ci sono tutti e solo per elencarne qualcuno ecco il rude Troublegum dal cuor d’oro, il recupero del rapporto con la prole di un padre per troppo tempo lontano, gli uomini dell’industria avidi e gabbati, una New York notturna vissuta ascoltando a vicenda i pezzi preferiti: l’irlandese Carney (che ha un passato da batterista) li utilizza però con i giusti equilibri dirigendo un’opera non di primissima grandezza, ma che regala un centinaio di minuti di intelligente divertimento. Se Keira Knightley, che ha studiato voce e chitarra per la parte, canta con un filo di voce e offre un’interpretazione più posata del solito, il vero motore del film resta nella fisicità del personaggio di Mark Ruffalo, in cui l’attore è bravo a dar vita a un uomo incasinato e a volte goffo fino a strappare la risata, ma anche assai più vitale di quello che si potrebbe pensare all’inizio. Oltre a una città ripresa in molti dei suoi aspetti conosciuti dalla fotografia di Yaron Orbach – in fondo, un altro dei ‘passaggi obbligati’ di cui sopra – l’altra grande protagonista del film è la musica ovvero la creazione della stessa, tanto che, seppur non indispensabile, essere almeno un po’ musicofili aiuta nell’apprezzare lo svolgimento della vicenda. Certo, per essere il risultato di registrazioni fatte tra vicoli poco illuminati e tetti con vicini irritabili, il disco di Gretta ha un suono un po’ troppo rotondo che testimonia almeno un accurato missaggio, ma stiamo in fondo parlando di una favola che si prolunga anche nelle scene dell’ulteriore finale che scorre assieme a dei titoli di coda che sono perciò da seguire fino al termine.