andrea giostra
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sabato 1 marzo 2014
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twelve years a slave
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Steve McQueen, in collaborazione con John Ridley, scrive una sceneggiatura puntigliosa che riporta agli onori del successo contemporaneo il best seller di Solomon Northup, “Twelve Years a Slave” pubblicato negli USA nel 1853, che racconta la terribile disavventura dell’uomo nero libero Solomon, artista newyorkese di successo, ridotto con l’inganno in schiavitù da bianchi americani del sud del paese dove il negro, per volontà divina, non era concepito come uomo ma come essere prossimo alla scimmia di proprietà del bianco cristiano, da sfruttare e usare fino allo stremo delle forze ora come servo, ora, se negra attraente, come sottomessa bagascia per soddisfare con violenza e prepotenza i piaceri della carne.
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Steve McQueen, in collaborazione con John Ridley, scrive una sceneggiatura puntigliosa che riporta agli onori del successo contemporaneo il best seller di Solomon Northup, “Twelve Years a Slave” pubblicato negli USA nel 1853, che racconta la terribile disavventura dell’uomo nero libero Solomon, artista newyorkese di successo, ridotto con l’inganno in schiavitù da bianchi americani del sud del paese dove il negro, per volontà divina, non era concepito come uomo ma come essere prossimo alla scimmia di proprietà del bianco cristiano, da sfruttare e usare fino allo stremo delle forze ora come servo, ora, se negra attraente, come sottomessa bagascia per soddisfare con violenza e prepotenza i piaceri della carne.
Ancora oggi, agli albori del ventunesimo secolo e a quasi centocinquant’anni dalla fine della schiavitù americana sancita con il XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1865 voluto fortemente da Lincoln, la catarsi dell’uomo bianco americano non si è ancora compiuta appieno e McQueen ce lo ricorda con questo bel film, apparentemente anacronistico.
Le emozioni che si susseguono durante tutta la proiezione sono violente e crude, impietose e ciniche, sadiche e sanguinarie, vigliacche e codarde, e in fondo rappresentano prospettive diverse di prigionia e schiavitù: per gli uomini “negri”quella fisica e psicologica; per i bianchi cristiani quella del carnefice compulsivo, “vittima” di miserabili ed erudite convinzioni religiose e scientifiche di chi, in verità, seppur bianco è rimasto ad uno stadio assai primitivo dell’evoluzione umana e culturale.
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claudiofedele93
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lunedì 20 gennaio 2014
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mcqueen affronta la schiavitù!
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Quando in poco meno di dieci anni riesci a portare alla luce due lavori come Hunger e Shame, pellicole apprezzate dalla critica mondiale e considerate dei veri e propri capolavori, sembra quasi naturale che Hollywood reclami il tuo talento e che ti voglia affidare un film su misura.
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Quando in poco meno di dieci anni riesci a portare alla luce due lavori come Hunger e Shame, pellicole apprezzate dalla critica mondiale e considerate dei veri e propri capolavori, sembra quasi naturale che Hollywood reclami il tuo talento e che ti voglia affidare un film su misura.Steve McQueen, il cui nome, per chi non lo sapesse, è identico a quello del noto attore sebbene i due non siano assolutamente imparentati, ha subìto questa precisa sorte. Inglese e poco conosciuto fino ad una decina d’anni or sono, grazie alla Palma d’Oro per la miglior opera prima si è conquistato un trampolino di lancio che l’America non ha voluto perdere ed obbiettare. Alla sua terza fatica, dopo il capolavoro di Hunger (tragica biografia su Bobby Sands e sull’amaro capitolo che riguarda i prigioni dell’I.R.A. in Inghilterra nell’era Thatcheriana) e l’eccezionale Shame ( una pellicola che affronta con coraggio e cosciente oscenità la dipendenza sessuale dell’uomo odierno), McQueen si dedica a 12 Years a Slave, tratto dall’omonimo libro di memorie di Solomon Northup, protagonista dell’intera vicenda.
1841, Saratoga. Solomon è un talentuoso violinista che vive con la propria famiglia in una modesta casa, nella contea di Saratoga a New York; un giorno viene tratto in inganno da dei falsi agenti di spettacolo, trasferito a Washington e da lì deportato in Luisiana dove assieme ad altri di colore verrà venduto al mercato degli schiavi. La pellicola descrive l’odissea che Northup ha dovuto affrontare prima di ritornare dalla sua famiglia, ripercorre i 12 anni passati da quest’ultimo in schiavitù tra la povertà e gli orrori subiti da parte della gente bianca.
Basato sulla sceneggiatura di John Ridley che a sua volta prende come base le vere memorie di Northup, 12 Anni Schiavo appare fin da subito un film molto più quadrato e limitato rispetto ai due precedenti realizzati da McQueen; non mancano ovviamente , durante la pellicola, alcune scene ricche di quel realismo o pathos estremo messo a nudo in modo perfetto come in Shame, dove si riusciva a dare in modo eccellente la sensazione di disagio e tragedia che portava il protagonista sempre più a fondo e sempre più all’interno della sua dipendenza sessuale fino a quasi farlo diventare un essere senza volontà; eppure, dietro ad alcune sequenze che hanno la giusta grinta che si può riconoscere nel cinema di McQueen, un tipo di cinema che è ancora in continuo mutamento e miglioramento sotto certi aspetti, questi comunque decide, con 12 Anni Schiavo, di fare un lungometraggio un po’ troppo privo di coraggio e che si allinea con gli stan dar del genere storico. Non a caso non mancano le scene di violenza e i momenti dove i signori terrieri bianchi maltrattano, fino ad ucciderli, i lavoratori di colore, inoltre non sono messe da parte le conseguenze che hanno portato i vari mercati di schiavi né gli effetti nefasti della schiavitù, ma alla fine tutto questo non riesce a brillare di una propria originalità né tanto meno a sorprendere più di tanto. Se, forse, un anno fa Tarantino non avesse deliziato i nostri occhi con quel Django Unchained adesso potremmo dire che avremmo tra le mani un inedito lavoro onesto su cui fare qualche speculazione, ma sta di fatto che a distanza di così poco tempo vedere un prodotto che prende ancora una volta in causa queste tematiche porta necessariamente il pubblico a farne, istintivamente, un confronto con l’ultima fatica del regista di Pulp Fiction. Alla fine tutto ciò sarebbe tuttavia un grave errore, poiché 12 Years a Slave non vuole né pretende di essere paragonato a Django né attribuirsi il merito di definirsi migliore ad esso, ma con la sua moderazione ed i suoi limiti preferisce che venga visto come un altro lavoro incentrato su un preciso momento della storia degli Stati Uniti.
Rimane l’opera minore di McQueen, quella forse più influenzata da produttori e agenti esterni che ne hanno moderato la brutalità ed il realismo, ben girata e curata sotto l’aspetto estetico, 12 Anni Schiavo risulta essere tuttavia un film troppo stereotipato che offre allo spettatore esattamente quello che spera di vedere con tanto di (semi scontato) lieto fine. Al di là dell’epopea che vede il disgraziato Northup passare da violinista ad essere considerato come una bestia e a ricevere frustate notte e giorno dai propri padroni, la pellicola sembra quasi il manifesto di quel senso di colpa e vergogna che ancora oggi i (alcuni) bianchi nutrono e così appare fin troppo evidente ed altrettanto ovvia la metafora che vede il personaggio interpretato da Brad Pitt come l’uomo del ventunesimo secolo, colui che ha capito fin dal principio ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e che si oppone a questo abuso di potere con tanto di religione chiamata in causa.
I personaggio sono il vero anello debole dell’intera produzione poiché appaiono troppo piatti, poco approfonditi e mettono in luce la visione manichea del regista. Eccezion fatta per William Ford (un quasi dimenticabile Benedict Comberbatch) ogni uomo o donna presente in 12 Anni Schiavo è fin da subito schierato dalla parte dei giusti o degli schiavisti portando la pellicola a sentire la mancanza di quella ambiguità umana realistica e che alla fine avrebbe giovato al film. Ci sono, di conseguenza, buoni e cattivi e quest’ultimi sono principalmente tutti coloro che non sono di colore. Anche qui Tarantino era riuscito a fare una separazione con il suo lavoro molto meno scontata, facendo entrare in scena, per esempio, l’enigmatico personaggio di Samuel L. Jackson, maggiordomo nella tenuta di Candyland, a cui non importa nulla del colore della propria pelle e che offre i suoi servigi e la sua totale fedeltà al padrone. Quel che ne consegue è che 12 Anni Schiavo sia un film a cui mancano i giusti eccessi per considerarlo un vero capolavoro, sebbene offra alcune sequenze (come la fustigazione della povera Patseyinterpretata in modo convincente da Lupita Nyong’o) drammatiche degne di nota e rimanga tecnicamente valido, dove ancora una volta la telecamera di McQueen mostra il talento che quest’ultimo possiede e mette in mostra.
12 Years a Slave, potremmo dire, sta al popolo Americano come Schindler’s List stava all’Europa, dimostrando di essere un lavoro fatto quasi ed unicamente per rappresentare in modo abbastanza realistico (quasi come un documentario) l’orrore della schiavitù e delle persecuzioni degli abitanti di colore negli Stati Uniti. Eppure, se il nome sulla locandina non fosse quello di McQueen l’opera potrebbe essere concepita come un grandissimo lungometraggio degno dei più sinceri encomi, ma dato che è proprio il regista di Shame e Hunger a mettere mano a questa pellicola il dispiacere con cui si arriva ai titoli di coda è davvero considerevole. Mettiamo in chiaro una cosa: 12 Anni Schiavo è oggettivamente un buon film, diretto in modo impeccabile e curato sotto ogni singolo dettaglio, che gode di un cast in forma smagliante (inutile menzionare l’insuperabile Fassbender o la bravura dell’inglese Chiwetel Ejiofor nel ruolo del protagonista) e riesce farsi, in modo convincente, manifesto di quell’onta che affligge ancora l’America, ma non è un film del tutto libero (e qui sta il paradosso!). E’ un lungometraggio con dei limiti, un film quadrato, fatto per i critici e le persone che necessitavano di un opera che mostrasse loro l’orrore e gli errori del proprio popolo ma non mettesse completamente a nudo il dramma e la tragedia riguardo alla schiavitù. E’, potremmo dire, una pellicola abbastanza furba, che gode di una regia perfetta, ma che non va mai oltre il consentito (se non per due o tre sequenze), mettendo in luce tutto quanto ormai immaginiamo di vedere (o che presupponiamo) rimanendo nel complesso un prodotto quadrato, con personaggi stereotipati e privi di quel fascino e quell’ambiguità psicologica che aveva caratterizzato i lavori precedenti del cineasta.
In definitiva 12 Anni Schiavo è un prodotto da cui ci si aspettava molto di più, sebbene non sia assolutamente scadente o mal diretto, rimane troppo ordinario poiché quando un uomo ha il coraggio di raccontare gli giorni di agonia di un carcerato o di pretendere da un attore un nudo completo per un terzo del film è chiaro che questa volta, vedere McQueen al guinzaglio e messo a fare un lungometraggio che serva a manifestare la vergogna di un popolo è davvero deludente per chi aveva amato i precedenti lavori e si aspettava tanto dalla sua terza prova da regista. Privo di quella carica e quell’eccessiva cattiveria (ma mai abusata) di Hunger e Shame, 12 Anni Schiavo rimane un film godibile ed interessante, dietro al quale si cela un grandissimo autore la cui fantasia stavolta viene limitata probabilmente dai produttori. Peccato.
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[+] mcqueen al guinzaglio
(di kimkiduk)
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fedson
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lunedì 20 gennaio 2014
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solomon, il libero
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Solomon Northup è un giovane afroamericano abile con il violino. Ha una moglie, dei figli che ama e una casa in cui vivere felicemente la sua vita. Un giorno, ingannato da due malfattori, viene rapito e portato al Sud a lavorare come schiavo nelle piantagioni di cotone dove vi rimarrà per dodici anni. Senza famiglia, senza casa e senza un vero nome che gli appartiene, Solomon combatterà fino alla fine per guadagnarsi quella cosa che gli era di diritto quando viveva a New York: la libertà. Tratto da una storia vera, Steve McQueen affronta quello che può essere considerato il suo film più grande ed umano. La storia di un afroamericano inserito e costretto a lavorare nelle piantagioni del Sud ci viene mostrata ad occhi aperti, in tutta la sua crudeltà.
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Solomon Northup è un giovane afroamericano abile con il violino. Ha una moglie, dei figli che ama e una casa in cui vivere felicemente la sua vita. Un giorno, ingannato da due malfattori, viene rapito e portato al Sud a lavorare come schiavo nelle piantagioni di cotone dove vi rimarrà per dodici anni. Senza famiglia, senza casa e senza un vero nome che gli appartiene, Solomon combatterà fino alla fine per guadagnarsi quella cosa che gli era di diritto quando viveva a New York: la libertà. Tratto da una storia vera, Steve McQueen affronta quello che può essere considerato il suo film più grande ed umano. La storia di un afroamericano inserito e costretto a lavorare nelle piantagioni del Sud ci viene mostrata ad occhi aperti, in tutta la sua crudeltà. Più che un film, è un'opera che inietta nello spettatore un concentrato di emozioni che si trasformeranno in speranze nei confronti del povero Solomon. I suoi limpidi occhi, colmi di un dolore al di là di tutto ciò che può essere definito umano, li vediamo brillare mentre invocano desiderio e speranza nel cuore delle tenebre là, dove è obbligato contro la propria volontà a sotterrare la sua dignità di uomo libero. Lo si vede soffrire, lo si vede piangere e lo si vede nella sua solitudine di schiavo raccolto in mezzo a tanti, come se urlasse mentalmente il suo vero nome al mondo intero. Un nome, che gli verrà concesso solo se sarà così forte, intelligente e audace da riuscire a sopravvivere fino al giorno in cui, secondo il suo istitnto, l'inferno nel quale si troverà avrà una sua fine. Con una regia calda, intima e che, allo stesso tempo, propone immagini violente ma reali nella loro crudeltà, Steve McQueen ci offre una delle storie più grandi mai esistite nel mondo della schiavitù di metà '800 tramite un film oscuro e toccante, che non intende celare nel mistero quelle atrocità che riuscirono a lesionare - quasi a distruggere - la pelle scura degli uomini provenienti dal continente nero. Uomini che, come Solomon, potevano avere una famiglia, la speranza di tornare a casa dai propri cari, la possibilità di esultare il proprio nome a pieni polmoni all'intero mondo senza essere esclusi da chissà quali ignobili leggi. Uomini, che ambiscono alla loro sola libertà. Con un cast praticamente perfetto e di sconfinata bravura - dai grandi interpreti alle più piccole comparse - McQueen trionfa il 2013 (2014 in Italia) con un film composto non solo da una squadra di attori bravissimi - tra cui il suo fedele Fassbender, qui nei panni del losco schiavista Edwin Epps - ma anche da un cast tecnico impeccabile, intento ad esplorare nei meandri più nascosti quella disumanità dalla quale fuggirono pochi (anzi, pochissimi) schiavi del tempo. Il protagonista, interpretato da un eccellente Chiwetel Ejiofor - meritevole di tutti i plausi di questo mondo - è puro emblema di una libertà alla quale viene sottratto il proprio valore e che, per questo, non intende mollare neanche per un istante il sogno di ritornare alla vita di prima. E' vero, non si vede sorridere quasi mai il protagonista, nemmeno alla fine; perché l'infernali atrocità che questa gente ha dovuto patire ingiustamente, non avevano mai avuto il minimo diritto di ambire alla cosa che, ai giorni d'oggi, ci rende tutti uguali nel mondo: la libertà.
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raul zecca castel
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sabato 1 marzo 2014
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un film di bianchi sui bianchi per bianchi
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La storia è vera e ormai nota. Siamo nel 1841, Stato di New York. Solomon Northup è un affermato violinista che conduce una vita agiata e confortevole insieme alla moglie Anne e ai suoi due figli Margaret e Alonzo. Ma soprattutto, Solomon è un uomo nero, merce assai preziosa negli Stati del Sud, dove la schiavitù è un affare a dir poco redditizio. Per questo viene rapito con l’inganno, trafugato e venduto come schiavo al proprietario di una piantagione della Louisiana, dove trascorrerà dodici terribili lunghi anni, tagliando canna da zucchero, disboscando e raccogliendo fiocchi di cotone, il tutto tra schioccar di fruste, impiccagioni, stupri e altre atrocità.
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La storia è vera e ormai nota. Siamo nel 1841, Stato di New York. Solomon Northup è un affermato violinista che conduce una vita agiata e confortevole insieme alla moglie Anne e ai suoi due figli Margaret e Alonzo. Ma soprattutto, Solomon è un uomo nero, merce assai preziosa negli Stati del Sud, dove la schiavitù è un affare a dir poco redditizio. Per questo viene rapito con l’inganno, trafugato e venduto come schiavo al proprietario di una piantagione della Louisiana, dove trascorrerà dodici terribili lunghi anni, tagliando canna da zucchero, disboscando e raccogliendo fiocchi di cotone, il tutto tra schioccar di fruste, impiccagioni, stupri e altre atrocità. Solo grazie al provvidenziale intervento di un convinto abolizionista bianco la vicenda di Solomon trova il felice epilogo della libertà riconquistata, ma il prezzo per la trasposizione cinematografica della sua autobiografia è davvero troppo alto. E purtroppo non si ferma al costo del biglietto.
Un film attesissimo, già vincitore di un Golden Globe e candidato a nove premi Oscar. E la cosa non stupisce affatto, poiché si tratta di un film squisitamente, visceralmente e a tratti perfino noiosamente americano, del tutto in linea con lo spirito autocelebrativo caratteristico del cinema – e non solo – statunitense. Diversamente da ciò che forse vorrebbe essere, 12 anni schiavo è un film di bianchi, per bianchi, sui bianchi. Il vero protagonista, come aveva ben inteso la BIM – la casa di distribuzione italiana -, è l’abolizionista Samuel Bass, interpretato da Brad Pitt e finito in primo piano sui poster pubblicitari della pellicola.
“Abbiamo sbagliato e chiediamo scusa, è stato un errore di valutazione”, ha poi dichiarato il direttore generale della BIM Antonio Medici. Ma il dubbio è che l’affermazione sia stata espressa solo per placare le polemiche, dal momento che la valutazione pareva invece molto appropriata. Sebbene canadese, Samuel Bass incarna alla perfezione quell’America saggia perché consapevole delle proprie debolezze, capace di riconoscere gli errori commessi e di riparare il debito. È quello di Samuel Bass il volto vincente, sano e riappacificante del lieto fine. Ma il conto, dice il proverbio, si fa con l’oste e Steve McQueen è sembrato dimenticarsene. Troppo comodo pensare che una nazione possa sbarazzarsi del senso di colpa storico contratto con la schiavitù e il razzismo attraverso l’idea che, per dirla ancora una volta con un altro proverbio, tutto è bene quel che finisce bene. Senza considerare, inoltre, la sospetta sensazione, che si insinua poco alla volta in chi assiste al film, di percepire un messaggio quantomeno imbarazzante, vale a dire che, in fondo, questi neri non stavano poi così male nelle piantagioni sudiste, sempre che fossero buoni lavoratori.
Certo che vi erano padroni sadici e spietati, ma era davvero la regola generale? E la loro frusta non puniva solo gli indomiti? Le immagini quasi idilliache delle belle casette adibite agli schiavi neri, così come quelle che si soffermano sui momenti di meritato riposo e sulla irrealisticamente conviviale raccolta del cotone stridono e feriscono ben più dei ripetuti colpi di frusta che la povera Patsey (Lupita Nyong’o) ha dovuto subire durante una delle scene più impattanti del film, cruenta quanto basta per far tornare alla memoria La passione di Cristo nella versione splatter di Mel Gibson. Eppure la schiena suppliziata di Patsey, al di là dell’orrore e del disagio fisico che suscita, non denuncia la sofferenza peggiore: la vergogna e l’abiezione del razzismo e della schiavitù.
Ma non è tutto. Per entrare nel merito della critica cinematografica, dato per assunto il privilegio che la regia conferisce all’estetica (sacrificandone l’etica), resta il fatto che le interpretazioni degli attori non sono affatto magistrali, complice una dimensione a tratti caricaturale dei personaggi, specie in Edwin Epps (Michael Fassbender), il bianco cattivo, così come in Samuel Bass (Pitt), il salvifico bianco buono. Per quanto riguarda il ruolo del protagonista, Solomon, risulta discutibile la stessa scelta di Chiwetel Ejifor, incapace persino di essere inespressivo.
Concludendo, un’occasione mancata. 12 anni schiavo è un film debole, freddo e piatto, che non coinvolge e non emoziona, perché evita la complessità e la profondità della riflessione a favore di una sceneggiatura semplicisticamente lineare in cui alcuni dialoghi risultano talmente didascalici da sfiorare la banalità. Uniche note positive quelle della colonna sonora (per cui non è candidato all’ambita statuetta dorata) ed, evidentemente, la scenografia. Non dubitate, dunque. Il film sarà un successo agli Academy Awards, ma noi potremo consolarci con il pensiero che Queimada, nel lontano 1969, non ottenne nemmeno una candidatura agli Oscar.
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giandrewe
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lunedì 13 gennaio 2014
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un capolavoro già entrato nella storia
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Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) è un violinista nero, ma soprattutto un uomo libero. Un giorno, con un inganno, viene venduto come schiavo e da lì vivrà dodici anni da schiavo lavorando prima per il gentile Ford (Benedict Cumberbatch) finendo poi nella piantagione di cotone del perfido Edwin Epps (Michael Fassbender). Terzo film per Steve McQueen, terzo capolavoro, terza opera d'arte.
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Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) è un violinista nero, ma soprattutto un uomo libero. Un giorno, con un inganno, viene venduto come schiavo e da lì vivrà dodici anni da schiavo lavorando prima per il gentile Ford (Benedict Cumberbatch) finendo poi nella piantagione di cotone del perfido Edwin Epps (Michael Fassbender). Terzo film per Steve McQueen, terzo capolavoro, terza opera d'arte. "12 Years a Slave" ha una splendida storia toccante, ma non buonista, che merita di essere conosciuta soprattutto perchè è presentata con una regia di gran classe, raffinata, suggestiva, elegante e spesso cruda che solo Steve McQueen sa fare. Sicuramente è il suo film più alla portata di tutti, anche se diverse scene sono per stomaci forti. Cast di livello ineccepibile a partire dal protagonista Chiwetel Ejiofor fino ai cammei di Alfre Woodard e Brad Pitt. Ejiofor, attore teatrale, regge alla grande il ruolo di Solomon e riconferma il suo talento da tempo sottovalutato, bravissimi Paul Dano e Benedict Cumberbatch, ma appena entra in scena il perfido Edwin Epps di Michael Fassbender gli occhi sono tutti su di lui. Un ruolo da cattivo con la c maiuscola, molto sfaccettato dove Fassbender mostra qui come non mai cosa significhi indossare un personaggio e calzarlo alla perfezione. Bravissima Sarah Paulson in un ruolo molto strano: materna con gli schiavi, ma in un millesimo di secondo perfida (anche lei con la p maiuscola) nei confronti della giovane schiava Patsey, del quale il personaggio di Fassbender è palesemente attratto. Superba Lupita Nyong'o (Patsey) che al suo debutto cinematografico interpreta Patsey in modo magistrale. Un ruolo toccante, ma soprattutto indimenticabile, come questo film. "12 Years a Slave" cattura sin dal primo secondo e lo spettatore non riesce a staccargli gli occhi di dosso per tutti i 130 minuti. Musiche di Hans Zimmer non molto presenti, ma efficaci. Come in "Hunger" ed in "Shame" anche qui McQueen colpisce molto di più con i lunghi silenzi.
Qualsiasi premio è decisamente meritato. Speriamo faccia incetta di Oscar!
Un must see, un grande capolavoro che verrà sicuramente ricordato nei secoli dei secoli. Amen.
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m.petter
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domenica 16 febbraio 2014
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la schiavitù in primo piano.
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Certamente non è un film per deboli di cuore: commuove, irrita e mette anche in un certo imbarazzo.
Mentre in Django, di Tarantino, il nero è l'eroe della vicenda, colui che combatte contro l'ordine prestabilito degli stati del sud, per salvare la sua donna, Salomon è, invece, la vittima di questo mondo assurdo, ingiustificato e crudele (rapito e fatto schiavo da uomo libero). Mentre in Tarantino il mondo della schiavitù resta sullo sfondo, funzionando come pretesto solamente narrativo delle varie vicende, Mcqueen porta questo mondo in primo piano: ce ne fa sentire l'atmosfera, gli umori e persino ci fa immaginare l'odore che poteva sprigionare da quel degrado.
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Certamente non è un film per deboli di cuore: commuove, irrita e mette anche in un certo imbarazzo.
Mentre in Django, di Tarantino, il nero è l'eroe della vicenda, colui che combatte contro l'ordine prestabilito degli stati del sud, per salvare la sua donna, Salomon è, invece, la vittima di questo mondo assurdo, ingiustificato e crudele (rapito e fatto schiavo da uomo libero). Mentre in Tarantino il mondo della schiavitù resta sullo sfondo, funzionando come pretesto solamente narrativo delle varie vicende, Mcqueen porta questo mondo in primo piano: ce ne fa sentire l'atmosfera, gli umori e persino ci fa immaginare l'odore che poteva sprigionare da quel degrado. I personaggi del film si muovono in questo mondo sfiniti, privati della loro dimensione umana, ma non senza speranza e fede. Una speranza di salvezza che alla fine, però, coinvolge solo il singolo. E non è una salvezza preannunciata o comunque resa esplicita, avviene come un miracolo come un qualcosa di inaspettato. La grazia divina si manifesta, ma può salvarne solo uno. Ma quell'uno è il simbolo di una vittoria, che per ora è solo temporanea, ma che preannuncierà quella vera dell'abolizione della schiavitù con Lincoln. Infatti nel finale siamo contenti per Salomon, ma non abbiamo il "cuore in pace". Sappiamo benissimo che molti altri aspettano di essere salvati e non possiamo che pensare anche a loro quando Salomon abbraccia la sua famiglia. Un abbraccio d'amore che rivolge anche a quanti continueranno a sopravvivere in quella situazione ancora per molto tempo.
Il film ci colpisce anche per il fatto di essere una storia vera, basata sul libro scritto dal protagonista, uscito in america negli anni 50 dell'800.
"Lincoln" di Spelberg, potrebbe benissimo essere un ideale proseguimento di questo film, sia per l'accostamento alla storia, sia per l'intento realistico, con il quale si cerca di narrare la storia.
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shiningeyes
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domenica 26 gennaio 2014
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il viaggio di mcqueen nella schiavitù
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Saratoga 1841. Solomon Northup è un bravissimo violinista di colore, che seppur sia povero, vive una dignitosa esistenza con la sua famiglia. Non immaginerebbe mai che a lì a poco sarà truffato da due loschi individui che lo sfrutteranno per guadagnare soldi tramite i suoi spettacoli dal vivo per poi venderlo come schiavo. Solomon trascorrerà dodici anni in schiavitù, sperimentando in particolar modo le difficili condizioni di vita, il razzismo e le violente torture che passano gli schiavi neri d’America, conoscendo l’aberrazione degli schiavisti come Edwin Epps, il cui non perde occasione nel punire i suoi schiavi e di approfittare della povera Patsey.
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Saratoga 1841. Solomon Northup è un bravissimo violinista di colore, che seppur sia povero, vive una dignitosa esistenza con la sua famiglia. Non immaginerebbe mai che a lì a poco sarà truffato da due loschi individui che lo sfrutteranno per guadagnare soldi tramite i suoi spettacoli dal vivo per poi venderlo come schiavo. Solomon trascorrerà dodici anni in schiavitù, sperimentando in particolar modo le difficili condizioni di vita, il razzismo e le violente torture che passano gli schiavi neri d’America, conoscendo l’aberrazione degli schiavisti come Edwin Epps, il cui non perde occasione nel punire i suoi schiavi e di approfittare della povera Patsey. La disavventura di Solomon è diretta magistralmente dall’astro nascente della regia, Steve McQueen, che intinge di violento realismo il male che ha fatto l’America alla gente di colore, disumanizzandoli e maltrattandoli ripetutamente, tanto da considerare i neri affini alle scimmie. Non fa sconti McQueen, con la sua cinepresa implacabile da un perfetto ritratto all’America perbenista e cristiana che è la prima a macchiarsi dei gravi peccati che commette su quei poveri diavoli, perfettamente rappresentata dalla violenza dello schiavista Epps, che usa le parole della Bibbia come scusa per il destino infame fatto di flagellazione che spetterà a coloro che lavoreranno per lui. Il vantaggio di Solomon è di essere nato libero e di saper combattere per riaffermare la sua libertà, cosa ben più difficile per altra gente di colore, nata, cresciuta e abituata alla schiavitù, che non sa come fare per liberarsi dalla sua terribile condizione, sennonché, aspettare che la morte li tolga dalle loro sofferenze. Con una fotografia naturale che esalta la bellezza dei posti in contrasto con quanto avviene in essi, McQueen ci accompagna in un viaggio di sofferenza, ma anche di speranza e di religione, i quali temi son ben esposti in un ottimo adattamento. Perno centrale della validità della pellicola, oltre l’ottima regia, è il bravissimo Chiwetel Ejiofor, con una prova non troppo sopra le righe ma efficace e sentita, l’attore inglese si riesce a ritagliare un posto in primo piano tra i migliori attori del momento e rende forte il pronostico che lo vuole come vincitore per l’Oscar; breve e sofferente nella sua parte, Lupita Nyong’o riesce a strappare molti consensi, facendo notare un indubbio talento; attore feticcio di McQueen, Michael Fassbender riesce a convincere in una parte che riesce a farcelo odiare con tutto il cuore, dimostrazione che l’attore ha fatto un gran bello studio nel personaggio e si è dimostrato veramente adatto nell’interpretazione dello schiavista Epps. Credo che “12 Years of Slave” si debba meritare il più prestigioso riconoscimento della cerimonia del Kodak Theater, benché non risulti rivoluzionario o innovativo, il film di McQueen possiede una fortissima forza d’urto che colpirebbe il più insensibile degli spettatori e, soprattutto, ci fa capire la potenza che può avere una compagine sempre più emergente come quella del cinema indipendente.
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federico agnellini
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venerdì 21 febbraio 2014
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pugno allo stomaco
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Forse chi dice che questo film non è da Oscar avrà anche ragione ma Steve McQueen si dimostra sempre e comunque uno dei migliori registi contemporanei. In tutto il film ci sono scelte registiche interessantissime, che se anche vanno a discapito dell'intattenimento del pubblico generalista e danno al film quel suo stile inconfondibile già visto sia in Hunger sia in Shame. Oggi però non voglio fare una recensione globale del film ma mi voglio solo soffermare sulla scena dell'impiccagione. Riassumendo si può dire che il protagonista rimane appeso con il cappio al collo e con il piedi che sfiorano terra in modo tale da non morire e consentirgli di sopravvivere.
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Forse chi dice che questo film non è da Oscar avrà anche ragione ma Steve McQueen si dimostra sempre e comunque uno dei migliori registi contemporanei. In tutto il film ci sono scelte registiche interessantissime, che se anche vanno a discapito dell'intattenimento del pubblico generalista e danno al film quel suo stile inconfondibile già visto sia in Hunger sia in Shame. Oggi però non voglio fare una recensione globale del film ma mi voglio solo soffermare sulla scena dell'impiccagione. Riassumendo si può dire che il protagonista rimane appeso con il cappio al collo e con il piedi che sfiorano terra in modo tale da non morire e consentirgli di sopravvivere. Il regista decide però in questo caso di rendere tale scena interminabile per lo spettatore che trovandosi in sala e non potendo intervenire si trova infastidito da tale situazione. Secondo me è una scelta voluta per mettere lo spettatore nei panni degli altri schiavi intorno a lui che potevano solo guardare il loro compagno soffrire per minuti e minuti senza poter far nulla. Trovo appunto geniale questa immedesimazione tanto che anche io in sala ho provato un senso di rassegnazione tale che al cinema poche volte ho provato. Un vero e proprio pugno allo stomaco.
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laurence316
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martedì 26 dicembre 2017
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un film storico potente ed essenziale, imperdibile
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Dopo Hunger e Shame, il 3° film di Steve McQueen (omonimo del noto attore) si rivela essere un altro ottimo film, sicuramente migliore del suo secondo.
12 anni schiavo è un lungo (più di due ore), lento (ma non noioso) e angoscioso racconto, tragico e potente, che si propone di descrivere senza mezzi termini le terribili condizioni a cui erano sottoposti gli schiavi nelle tremende piantagioni di cotone (un proposito, questo, che per quanto non originalissimo, rimane pur sempre più che nobile). Ma non solo, è talmente realistico nella sua feroce denuncia, da rendere talvolta persino difficile la visione.
Crudissimo e a tratti insostenibile, narra dei soprusi quotidiani, delle sevizie, delle punizioni corporali, degli stupri a cui gli schiavisti costringevano i loro schiavi.
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Dopo Hunger e Shame, il 3° film di Steve McQueen (omonimo del noto attore) si rivela essere un altro ottimo film, sicuramente migliore del suo secondo.
12 anni schiavo è un lungo (più di due ore), lento (ma non noioso) e angoscioso racconto, tragico e potente, che si propone di descrivere senza mezzi termini le terribili condizioni a cui erano sottoposti gli schiavi nelle tremende piantagioni di cotone (un proposito, questo, che per quanto non originalissimo, rimane pur sempre più che nobile). Ma non solo, è talmente realistico nella sua feroce denuncia, da rendere talvolta persino difficile la visione.
Crudissimo e a tratti insostenibile, narra dei soprusi quotidiani, delle sevizie, delle punizioni corporali, degli stupri a cui gli schiavisti costringevano i loro schiavi. Perché difatti, Epps e gli altri, come ogni “buon schiavista”, considerano quelle vite umane come loro esclusiva proprietà, come un oggetto, un qualcosa che si possa vendere e comprare, e, dopotutto, come afferma proprio il personaggio di Fassbender: “Un uomo fa quel che vuole con ciò che gli appartiene”. Ci si cala nell’anima nera degli uomini, si descrive con puntiglio quasi documentaristico a quali bassezze siano in grado di arrivare.
12 anni schiavo è un film potente e atroce, che punta tutto sul coinvolgimento emotivo dello spettatore, lasciando da parte l’approfondimento di diversi personaggi, a cominciare dallo stesso protagonista, di cui non vengono rivelati diversi aspetti della personalità o del rapporto con la famiglia e con gli altri schiavi. Il regista punta, al contrario, tutto sul lato “spettacolare”, sul tentare, con ogni mezzo, di colpire duro, suscitando un inevitabile sentimento di indignazione e rabbia nei confronti dei fatti narrati. E’ un film che porta, più che alla compresione, allo sdegno. Ma nonostante tutto rimane un film importante e assolutamente da vedere, un film diretto con tocco classico, lasciando scorrere lentamente la narrazione in modo che, per l’appunto, lo spettatore abbia il tempo di immedesimarsi, di commuoversi, di indignarsi. Un film tanto più necessario ai tempi che corrono.
Candidato a 9 Premi Oscar, vince quelli per il miglior film (su annucio niente poco di meno che di Michelle Obama), miglior sceneggiatura non originale (Ridley) e miglior attrice non protagonista (la straordinaria Lupita Nyong'o) che, per una volta, sono assegnati ad un film che se li merita davvero. 12 anni schiavo è un film essenziale e imprescindibile, sicuramente uno dei migliori della stagione.
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filippo catani
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lunedì 24 febbraio 2014
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la schiavitù senza censure
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Saratoga 1841. Un violinista di colore vive tranquillamente la propria vita tra concerti in giro per il paese e l'amata famiglia. Una sera, due finti impresari di un circo gli promettono un notevole ingaggio. Una volta a cena i due fanno ubriacare l'uomo che al risveglio si ritrova incatenato in una nave: inizieranno per lui 12 anni di schiavitù. Da una storia vera.
McQueen ci ha ormai abituato al suo stile asciutto che non risparmia nulla allo spettatore vuoi che si tratti di sesso (Shame) vuoi che si tratti di digiuno politico (Hunger). Pure in questo caso nulla viene lasciato all'immaginazione: le piaghe delle frustate sono ben visibili tanto che lo spettatore stesso trema in sala a sentire schioccare la frusta.
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Saratoga 1841. Un violinista di colore vive tranquillamente la propria vita tra concerti in giro per il paese e l'amata famiglia. Una sera, due finti impresari di un circo gli promettono un notevole ingaggio. Una volta a cena i due fanno ubriacare l'uomo che al risveglio si ritrova incatenato in una nave: inizieranno per lui 12 anni di schiavitù. Da una storia vera.
McQueen ci ha ormai abituato al suo stile asciutto che non risparmia nulla allo spettatore vuoi che si tratti di sesso (Shame) vuoi che si tratti di digiuno politico (Hunger). Pure in questo caso nulla viene lasciato all'immaginazione: le piaghe delle frustate sono ben visibili tanto che lo spettatore stesso trema in sala a sentire schioccare la frusta. La storia è terribile e lascia senza parole soprattutto perché è una storia vera. questo non significa affatto che se fosse stata un'opera di finzione avrebbe fatto meno impressione. Il fatto è che lo spettatore, rapito dalla storia e dalla bravura dei suoi interpreti, immagina sulla propria pelle quello che gli sarebbe successo se un giorno risvegliandosi da una sbornia si ritrovasse incatenato mani e piedi in direzione di una piantagione di cotone. Il film mostra in maniera cruda e realistica quella che era la condizione di schiavitù. Non per entrare nella polemica in corso ma a mio avviso nessuno dei precedenti film sulla schiavitù aveva mostrato così duramente quale fosse la reale condizione degli schiavi. Detto questo un plauso va al cast completo dove per forza di cose spiccano Ejiofor e un mefistofelico Fassbender ma che ha proprio nella cifra complessiva del cast uno dei suoi punti di forza. Un film che non può lasciare indifferenti.
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