Decide di mostrare il regista britannico Steve McQueen (Hunger, Shame), mostrare l’indicibile che scava dentro l’animo umano. Mostrare è il verbo che regge l’impianto di 12 anni schiavo, un predicato che s’avvinghia strenuamente alle sue radici etimologiche di monere: avvertire, ricordare. Ricordare con l’evidenza delle immagini quel che è stata la schiavitù dei neri.
Un colore della pelle che diventa contrasto razziale nell’America delle libertà da venire, di un Paese che attorno alla legge abolizionista di Lincoln edifica una delle più cruenti guerre civili della storia: americani che massacrano americani. Un quadro terribile che nasce nelle piantagioni di Alabama, Florida, Louisiana, Mississippi, Carolina del Sud, Texas, Georgia, là dove nella metà del XIX secolo i campi di cotone, tabacco, zucchero diventano forzosamente la casa di “negri”, di uomini acquistati, scambiati, impegnati da altri uomini come loro proprietà.
In quei campi dove si ritrova d’un tratto precipitato anche Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor), uomo libero, musicista, sposato e con due figli, residente a Saratoga (New York), e negro. Rapito con l’inganno da due sedicenti opportunisti, marchiato da frustate che ne vogliono azzerare il passato e l’identità, mutato soltanto in Platt, schiavo negro proveniente dalla Georgia. Comincia così la storia vera di un uomo libero ridotto in schiavitù e raccontata nella sua eloquente brutalità dalle dettagliate inquadrature di Steve McQueen.
Scene esplicite nelle quali scorre l’abiezione verbale e fisica perpetrata dai padroni bianchi, qui sussunti nella sballata sadica figura di Edwin Epps (Michael Fassbender): con quel ghigno da pazzo e la sua ossessione per la giovane schiava Patsey (Lupita Nyong’o), ridotta allo sfinimento e continuamente vessata a causa delle crudeli gelosie della signora Epps (Sarah Paulson). E sarà proprio Platt a doverla frustare davanti a tutti su ordine del padrone Epps. Sarà lui a dover incidere sulla schiena nuda di Patsey l’insopportabile dolore della prevaricazione, l’inestinguibile peccato dell’uomo che violenta l’uomo e che il regista decide di rendere esplicito in un lancinante piano sequenza con lo scopo di svegliare tutti davanti all’abominio di chi si appropria di altri uomini e donne come fossero cose. Una volenza che per i sudisti era principio legittimato dalla legge, un comportamento istituzionalizzato che emerge in tutta la sua dissonanza nel serrato dialogo di Epps con il bracciante Bass (Brad Pitt), poi salvifico aiuto per Platt/Solomon nel riconquistare la sua libertà.
12 anni schiavo sa mostrarci i perversi meccanismi di questa malattia che ammorba l’America, scegliendo di farlo con la gravità dei pensieri distorti, con la ferocia delle azioni violente, con le atrocità subite da persone destinate soltanto a sopravvivere. Lo fa con grande potenza visiva, letteralmente portando lo spettatore fra quei campi macchiati di sangue, nelle atmosfere della Louisiana gravide d’ingiustizia; in quegli Stati avvolti dalla natura, solo elemento capace di donare attimi di una levità che ci arriva in dono nei controcampi tra primissimi piani e ondeggianti panoramiche alla Terrence Malick.
Camminiamo così ad occhi spalancati dentro un film che vuole renderci terribilmente consapevoli di quel che è stata (e di quel che in molti Paesi ancora è) la schiavitù: seguendo l’incredibile vera vicenda di Solomon Northup: uomo libero, per dodici anni sopravvissuto da schiavo, infine ritornato a vivere.
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