A volte ritorni. E se poi sei il secondo super-eroe più glorificato di tutti tempi, secondo solo all ‘in-super-abile superman, ti capita davvero di tornare molto spesso. E allora, les jeux son fait, siamo all’ ottava apparizione cinematografica del superpipistrello giustiziere, passaggio dovuto, stando all’ esigenza di Christopher Nolan, che aveva ancora qualcosa da raccontarci, a chiusura della sua trilogia dark, amatissima ad ogni latitudine.
Ci sono voluti otto lunghi anni di crimini e misfatti malcelati per convincere il filantropo million dollar man Wayne a ricoprire il corpo macho di Christian Bale con la tutona da cavaliere oscuro e tornare a svolazzare nei cieli di Gotham, ma ne è probabilmente valsa la pena. Ne avevamo bisogno noi, spettatori depressi e avidi di eroi, ne aveva bisogno la sua amata città, ormai ridotta ad una Gomorra destabilizzata dalla guerra civile aizzata da un altro cavaliere pelato che vive nei bassifondi e gioca a fare il terrorista post-atomico.
Ne viene fuori un lungo action-movie imbottito di azione kolossale, ma reso prezioso da tanta intellettualità di contorno. Un castello di rimandi alla decadenza sociale, al crollo dei valori, di Borsa e non, ed un fitto primo piano narrativo dedicato ad un eroe, che ormai eroe non è più, minato dagli acciacchi dell’artrite e dalla lotta autodistruttiva contro se stesso. L’antagonista di Batman questa volta non sembra essere neppure il nerboruto Bane, intenerito dalla prima maschera analgesica della storia di Hollywood, quanto il suo passato e le sue paure.
Nolan sembra avere bisogno di riscrivere l’etica tradizionale delle strisce fumettistiche, portandola fuori dal duello consueto tra Buoni e Cattivi, in favore di una sua visione dolorosa e dark, in senso, però, moderno.
L’ oscuro non è solo il regno della notte dove il benemerito paladino può cavalcare a suo agio il suo velivolo ipertrofico e corazzato, è semmai il lato inesplorato del suo vissuto, insieme con il nero della sporcizia morale che copre ogni buco di Gotham City, finanche nel sottosuolo.
Godiamoci il film nei suoi aspetti di guerriglia ludica da videogame, e nell’ ironia del rapporto inspiegabile tra Wayne e il sexy catalizzatore Miss occhi di gatto e tacchi a spillo Hathaway, ma stiamo attenti a non lasciarci sfuggire la densa fuliggine di fondo. Perché il regista lavora di cesello per raccontarci una storia che si riallaccia in continuum con il racconto degli episodi precedenti, in quella che è una trilogia vera e non di cassetta, e non dimentica per nulla un percorso di cinema cerebrale e nerd già messo in scena con The Prestige o Inception.
Belle e brave tutte le stelle di un cast dovutamente all-fame, con un debito di riconoscenza particolare al delizioso invecchiare di Michael Caine, un Alfred all’altezza dell’ indimenticato Alan Napier, che diede volto al maggiordomo in quella serie TV, ricordo di molte infanzie batmaniane. Scene da ricordare, molte, come si deve ad una pellicola che sfiora le tre ore. Bella la battaglia troglodita finale tra i proletari armati di Bane, i poliziotti imbecilli agli ordini di Nixon/ Matthew Modine e gli annessi super-eroi svolazzanti. Quasi un’ eco del tutti contro tutti tra le bande di straccioni mercenari di Gangs of New York.
Nella mente, però, resta inciso un fotogramma su tutti, ed è una maschera spaccata. Lì crolla l’eroe così come l’avevamo conosciuto. Lì tutte le crepe vengono al dunque. Lì si spacca l’ idillio. Lì Batman diventa uomo, diventa uno qualunque degli spettatori, diventa paura e vulnerabilità. Lì capiamo che quest’ ultimo ritorno è, in realtà, il vero punto di non ritorno.
Sempre che… la storia non riparta da Robin e dalla Caverna. Aspettiamo fiduciosi, perché Batman ci ha sempre regalato un colpo d’ali. Di pipistrello, ovviamente.
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