A distanza di quattro anni dalla sua opera prima, il nostrano Umberto Carteni torna ad imbracciare la macchina da presa e lo fa per dirigere questo “Studio illegale”, prodotto abbastanza scialbo e prevedibile.
Già da un primo sguardo alla locandina, infatti, si può intuire il plot di base: l’avvocato Andrea Campi, personaggio che non avrebbe sfigurato nella “ricerca della felicità” di Mucciniana memoria, ovvero un vero stakanovista dalla vita consacrata al lavoro ed alla ostinata ricerca del successo economico, interpretato da un Fabio Volo dotato di inediti baffetti - forse pensati per conferirgli più cinismo - che, dopo una serie di peripezie legali, tra un comma ed un cavillo, finirà per cedere al fascino dell’amore, del sentimento, e di una vita finalmente più vera.
Nonostante questa banalità di fondo, gli aspetti positivi non mancano: primo tra tutti, la colonna sonora, davvero ben selezionata e assolutamente in linea con gli umori che il film vuole proporre.
Si prosegue con la volontà di porre l’accento sull’inutilità di una vita condotta solamente in nome del lavoro e del successo: giacca, cravatta e macchina pulita regalano sensazioni piacevoli e un minimo di auto gratificazione, ma cedono del tutto il passo quando ci si rende conto della propria solitudine e del proprio vuoto interiore. Il film vuole mettere in evidenza come la società odierna, incredibilmente omologatrice di stili, ci proponga degli standard sociali che tendono pericolosamente a renderci tutti uguali: smartphone, videofonini, abbigliamento, auricolare all’orecchio... ci fanno forse sentire belli e soddisfatti, ma quella che ne deriva è vera felicità? La pellicola è ostinata nel proporci scene di persone identiche: sul pullman, per strada, alla stazione, in ufficio: ad un primo colpo d’occhio si fatica a cogliere delle differenze sostanziali, salvo poi scoprire l’infelicità che regna in ciascun personaggio: il suicidio mostrato all’inizio del film, dell’avvocato che sulla scrivania teneva la foto di una pubblicità a colmare l’assenza di una vera famiglia, vuole comunicarci proprio questo. Così come il sorriso che compare sui volti di Andrea ed Emilie, avvocati anche loro in rampa di lancio verso il successo professionale ma emotivamente aridi, quando si immergono nella quotidianità di Gallarate e passano un pomeriggio a giocare a bocce con un gruppo di anziani del posto. Il senso è chiaro: la vera felicità può derivare solo da emozioni autentiche, non replicate da un modello sociale che ci viene proposto, sicuramente esteticamente attraente ma freddo ed artificiale.
Terzo aspetto valido del film, le interpretazioni di Fabio Volo, sempre più a suo agio davanti alla macchina da presa, e soprattutto di un brillante Ennio Fantastichini, il vero valore aggiunto della pellicola. Nota di merito anche per il giovane Nicola Nocella, che si conferma a suo agio nel vestire i panni del giovane un po’ impacciato (si pensi al Figlio più piccolo di Pupi Avati).
Infine, la volontà di proporre un finale abbastanza “aperto”: il penetrante sguardo di Volo - alias Campi - in macchina da presa, verso lo spettatore, che insinua il dubbio: sarà davvero “ravveduto”, o la vita lo ricondurrà sulla strada del cinismo?
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