Le riletture "polemiche" della fiaba dei Grimm in Biancaneve e il cacciatore.
di Roy Menarini
Rispetto al film di Tarsem, questa seconda variazione in pochi mesi della favola di Biancaneve sembra, se
possibile, ancora più eclettica quanto a fonti e modelli. Molto si è già detto a proposito delle modifiche
alla storia originale, e della trasformazione cristiana della principessa interpretata da Kristen Stewart,
scontornata come una Giovanna d’Arco in salsa fantasy. Meno si è notata l’apparente astuzia dei
realizzatori, che hanno cercato una sorta di catalogo repentino dell’immediata contemporaneità: e dunque
in Biancaneve e il cacciatore i casati muovono guerra come le famiglie di "Game of Thrones", i sette nani
puntano chiaramente all’effetto elfo della saga del Signore degli anelli (tanto per anticipare di qualche
mese Lo Hobbit di Peter Jackson), il cacciatore con il volto di Chris Hemsworth viene avvicinato, senza
nemmeno troppi imbarazzi, a Thor, e persino Kristen Stewart è chiamata a ripetere gli archi narrativi di
Twilight, divisa tra due giovani innamorati, e pronta a pagare il fio per aver baciato il ragazzo sbagliato,
quando questi le porge una mela. La sessuofobia espressa dalla virginea Biancaneve dovrebbe, sulla carta,
essere bilanciata dalla femminilità vendicativa e prepotente di Ravenna, alias Charlize Theron. I sottotesti
della sfida tra la Regina cattiva e la Principessa buona sono piuttosto evidenti: la sfida nella sfida tra dive
vedrebbe vincitrice narrativa Kristen Stewart, che combatte la precedente generazione delle attrici, ma
trionfante Charlize Theron quanto a fascino e carisma, come spesso accade ai bad guys e bad girls nel
cinema.
In verità, a ben vedere, del femminismo tanto citato dai realizzatori e dalle stesse interpreti del film in
questi mesi, se ne vede ben poco. Ravenna è semplicemente una donna vendicatrice, i cui atti ostili verso
tutto ciò che è buono e naturale, sia pure in qualche modo giustificati da un’infanzia traumatica, vengono
messi in scena con tutta la sgradevolezza necessaria a rendere odioso il personaggio. Quando la donna
seduce il padre di Biancaneve, promette eros e procura thanatos, senza nemmeno lasciar intrecciare i
due emblemi per più di pochi secondi. La crudeltà di Ravenna non nasce mai, come invece nel noir o nel
melodramma, da un abisso di passione, ma solo da un presente magico e misterioso, le cui potenzialità
soprannaturali sono spiegate a singhiozzo, e il cui evidente vampirismo – succhiare la vita delle giovani
donne – tradisce sempre brama, mai nostalgia. A sua volta, la trasformazione di Biancaneve, che sulla carta
avrebbe dovuto riscattare la passività misogina della fiaba attraverso una riappropriazione dello spazio
d’intervento soggettivo, pare del tutto strumentale: è la prescelta, e tanto basta a vestirla di un’armatura
più grande di lei, quasi un involucro maschile su un corpo femmineo in fondo sempre passivo. Persino il
gesto conclusivo dello scontro finale, che non riveliamo a chi non ha ancora visto il film di Rupert Sanders,
le viene insegnato da un uomo d’armi, come a ribadire che protagonisti si nasce, non si diventa.