antonello chichiricco
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giovedì 4 ottobre 2012
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senza speranza?
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Senza speranza?
Se trasferissimo questa storia nella frenetica, paranoica cornice sociale dell’alta finanza della City di una qualunque metropoli del Pianeta (nell’economia globale non esiste più Oriente e Occidente) avremmo personaggi sostanzialmente identici a quelli del film di Kim Ki-Duk, con uguali dinamiche e meccanismi mentali: indifferenza, disprezzo, egoismo, gratuita crudeltà, criminogena mancanza di scrupoli, ma… supportati e veicolati da ingannevole bon ton, canonici minuetti, edulcorazioni e imbellettamenti vari. Un elogio dell’ipocrisia elevato a motore-valore indispensabile per sopravvivere/affermarsi a qualunque costo nella giungla umana (sono d’altronde i torbidi leit motiv riscontrabili in millenni di storia del potere).
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Senza speranza?
Se trasferissimo questa storia nella frenetica, paranoica cornice sociale dell’alta finanza della City di una qualunque metropoli del Pianeta (nell’economia globale non esiste più Oriente e Occidente) avremmo personaggi sostanzialmente identici a quelli del film di Kim Ki-Duk, con uguali dinamiche e meccanismi mentali: indifferenza, disprezzo, egoismo, gratuita crudeltà, criminogena mancanza di scrupoli, ma… supportati e veicolati da ingannevole bon ton, canonici minuetti, edulcorazioni e imbellettamenti vari. Un elogio dell’ipocrisia elevato a motore-valore indispensabile per sopravvivere/affermarsi a qualunque costo nella giungla umana (sono d’altronde i torbidi leit motiv riscontrabili in millenni di storia del potere). Viceversa nella feccia disperata e miseranda, nelle putride asfittiche bidonville, tali paradigmi esistenziali allignano crudi e sfrondati da qualunque parvenza di ethos. Nello svolgersi e delinearsi del dramma in molti hanno ravvisato analogie con la tragedia greca, ma mentre nei tragos i personaggi sono eroi mossi da esasperati valori morali qui siamo nel puro essenziale abbrutimento.
Azzeccata la forte simbologia quasi kafkiana dei debitori vessati e storpiati, sempre lavoratori metalmeccanici schiacciati nelle loro stesse presse, torchi, punzonatori idraulici, simboli di un sistema capitalistico che oltre a sfruttarli e alienarli né stravolge e distrugge gli affetti.
Un diffuso istinto di morte o di annichilimento permea tutti i protagonisti del film. Quasi come nell’Edipo a Colono di Sofocle, dove il coro ripete «la sorte migliore è non nascere».
Tra i due protagonisti vedo più spaventoso il lucido cinismo distruttivo della madre più che la gratuita crudeltà del figlio (che via via si sgretola) è terrificante la maschera monoespressiva della donna che nel figlio odia se stessa e non esita ad accanirsi maramaldeggiando sul povero storpiato che ha osato maledirlo, che attribuisce al denaro un valore totale, che inscena per due volte una recita per ingannarlo.
Al contrario degli stucchevoli mielismi e del buonismo retorico a lieto fine di certa rassicurante commedia (di cui più o meno tutti ci compiacciamo) il cineasta coreano ci sbatte in faccia la nostra parte più oscura, trasfigurandola in un cornice così smaccatamente espressionista che in fondo in fondo - apparendoci esagerata - ce la rende altrettanto inverosimile.
Il momento per me più agghiacciante è stato quando, alla scena della madre che canta la ninna nanna, si è aggiunto - nel buio della sala - lo squillo di un cellulare… uno squillo che mi è suonato come una piccola tromba di Gerico…
Antonello Chichiricco
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orazio leotta
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mercoledì 12 settembre 2012
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un finale da tragedia greca
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Kang-do è uno spietato trentenne alle dipendenze del boss dell’usura del quartiere. A chi non restituisce le somme pattuite riserva trattamenti di una violenza inaudita, ma non uccide le sue vittime, le storpia, per poi incassare i soldi dell’assicurazione. Non ha mai conosciuto i genitori e nonostante i guadagni conduce un’esistenza parca e solitaria. Un giorno si presenta al suo cospetto una donna che si spaccia per essere sua madre. Dopo le titubanze iniziali e le prove a cui sottopone la donna per testare la veridicità di quanto afferma, giorno dopo giorno, la accoglie sia fisicamente nella sua dimora che nel suo cuore. Per lui diventa un riferimento irrinunciabile; lei dal suo canto si mostra amorevole, ottima cuoca e difende a spada tratta il ragazzo partecipando anche alle sue spietate scorribande.
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Kang-do è uno spietato trentenne alle dipendenze del boss dell’usura del quartiere. A chi non restituisce le somme pattuite riserva trattamenti di una violenza inaudita, ma non uccide le sue vittime, le storpia, per poi incassare i soldi dell’assicurazione. Non ha mai conosciuto i genitori e nonostante i guadagni conduce un’esistenza parca e solitaria. Un giorno si presenta al suo cospetto una donna che si spaccia per essere sua madre. Dopo le titubanze iniziali e le prove a cui sottopone la donna per testare la veridicità di quanto afferma, giorno dopo giorno, la accoglie sia fisicamente nella sua dimora che nel suo cuore. Per lui diventa un riferimento irrinunciabile; lei dal suo canto si mostra amorevole, ottima cuoca e difende a spada tratta il ragazzo partecipando anche alle sue spietate scorribande. Lavora a maglia un pullover rosso e bianco, che una volta pronto omaggia a un felice Kang-do. La complicità che si instaura tra i due porta la donna a indicare al giovane l’esatto punto del terreno ove un giorno vorrà essere sepolta. Quando la donna si rende conto di essere riuscita nell’intento di legare a sé il ragazzo, di farlo diventare dipendente da un’altra persona, di avere in lui seminato il germe dell’amore passa alla sua personale vendetta: simulando di essere vittima di un’aggressione sulla terrazza di un palazzo, precipita volutamente, e si schianta al suolo davanti agli occhi del giovane, che soffre così e patisce le stesse pene che lui era solito infliggere agli altri. Nel seppellirla ove le aveva suggerito la donna rinviene il corpo di un uomo (..con indosso un maglione bianco e rosso), uno dei tanti che aveva condotto alla morte. Finale da tragedia greca ove la nemesi si abbatte sul carnefice grazie allo scientifico sacrificio di una donna, la bravissima Cho Min-soo. Film ove si intrecciano amore e odio, maternità presunta e vendetta, fallimento del capitalismo e ricerca di sentimenti nobili e duraturi. Tragedie greche che a differenza di quello che si potrebbe credere sono molto conosciute in Corea (Elettra, la più famosa) e Kim Ki-duk, cavallo di ritorno a Venezia, noto in patria per essere il regista che piace all’Europa, si dimostra in grande forma con questo suo diciottesimo film, ove incastona un’appropriata colonna sonora con riferimenti lirico-religiosi inneggianti alla pietà (kirie eleison e christe eleison che si levano alti come richiesta ultima e solenne di perdono).
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(di effepi)
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writer58
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sabato 22 settembre 2012
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la vendetta di giocasta
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Di Kim ki-duk avevo visto, anni fa, Ferro3: la casa vuota, un'opera che sprigionava una levità quasi soprannaturale, la storia di un giovane uomo che si muove con tanta discrezione da diventare praticamente invisibile. "Pieta" invece, è un'opera a tinte forti, quasi espressionista,che narra una vicenda di crudeltà e vendetta. Kang-do, il protagonista del film, è un sicario che opera per conto di una banda di usurai. Se i debitori non sono in grado di restituire il prestito, a tassi di interesse stratoferici (anche il 1000% in tre mesi), lui li mutila per riscuotere il premio dell'assicurazione. Kang do si muove con sicurezza e ferocia nei ghetti miserabili dove opera, sostanzialmente indifferente a tutto, tranne che al suo compito di esattore-macellaio.
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Di Kim ki-duk avevo visto, anni fa, Ferro3: la casa vuota, un'opera che sprigionava una levità quasi soprannaturale, la storia di un giovane uomo che si muove con tanta discrezione da diventare praticamente invisibile. "Pieta" invece, è un'opera a tinte forti, quasi espressionista,che narra una vicenda di crudeltà e vendetta. Kang-do, il protagonista del film, è un sicario che opera per conto di una banda di usurai. Se i debitori non sono in grado di restituire il prestito, a tassi di interesse stratoferici (anche il 1000% in tre mesi), lui li mutila per riscuotere il premio dell'assicurazione. Kang do si muove con sicurezza e ferocia nei ghetti miserabili dove opera, sostanzialmente indifferente a tutto, tranne che al suo compito di esattore-macellaio. Quando appare una donna che si presenta come sua madre, la madre che l'ha abbandonato fin dalla nascita, lui reagisce con furore e disprezzo, la violenta e cerca di espellerla dal suo orizzonte di vita. La donna, tuttavia, rimane ostinatamente al suo fianco, gli chiede perdono, anche dopo aver subito violenze atroci, poco a poco riesce a legarlo a sé e a diventare affettivamente necessaria. La scorza impenetrabile del protagonista si sfalda, non riesce più a storpiare le proprie vittime e, soprattutto, diventa emotivamente vulnerabile. A quel punto, la "madre" potrà consumare una vendetta che assomiglia nei suoi esiti a un mito di Edipo rovesciato.
Il film è molto efficace nel narrare una società in cui il valore-guida, il totem è rappresentato dal denaro ("la fine e l'inizio di tutte le cose", dice la madre in risposta a una domanda di Kang-do). Lo è meno per quanto riguarda la parabola dei personaggi che appaiono troppo dicotomici e manichei. La transizione del protagonista dalla ferocia alla devozione è narrata in modo un po' sbrigativo e senza chiaroscuri.
Ciononostante, "Pieta" appare come un lavoro interessante e maturo e il Leone d'oro a Venezia non risulta immeritato.
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francesca meneghetti
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giovedì 20 settembre 2012
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l'educazione del dolore
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Pietà è un film imperdibile per gli amanti del cinema: ha pienamente meritato un premio prestigioso come il Leon d’oro. Tuttavia è un film durissimo, cui è bene giungere preparati. Anzi, da sconsigliare alle persone sensibili nelle ore che precedono il sonno. E’ una storia sotto il segno di una violenza raccapricciante, per quanto non esibita, ma piuttosto suggerita dall'espressione dei volti: anche lo spettatore dalla scorza più dura ne esce turbato. Ragionare su questo film, prima e dopo lo spettacolo, può aiutare a proteggere la parte più indifesa ed emotiva del proprio io: è come avvolgersi in un bozzolo, che ci aiuta ad attutire gli urti.
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Pietà è un film imperdibile per gli amanti del cinema: ha pienamente meritato un premio prestigioso come il Leon d’oro. Tuttavia è un film durissimo, cui è bene giungere preparati. Anzi, da sconsigliare alle persone sensibili nelle ore che precedono il sonno. E’ una storia sotto il segno di una violenza raccapricciante, per quanto non esibita, ma piuttosto suggerita dall'espressione dei volti: anche lo spettatore dalla scorza più dura ne esce turbato. Ragionare su questo film, prima e dopo lo spettacolo, può aiutare a proteggere la parte più indifesa ed emotiva del proprio io: è come avvolgersi in un bozzolo, che ci aiuta ad attutire gli urti.
Nel tentativo di prendere le distanze dalla materia emotiva, si potrebbero individuare tre chiavi di accesso: una sociologica, una psicologica, una psicanalitica.
La prima chiave ci introduce negli antri periferici di un mondo avviluppato dal capitalismo globale: nei laboratori artigiani di un sobborgo popolare di Seul (ma potrebbe essere lo stesso o in altre favelas degradate, sporche, grigie, sommerse dai rifiuti e soggette a controlli mafiosi). Qui i lavoratori soffrono la crisi, s’indebitano, finiscono per cadere nelle mani dell’usura, e, non potendo onorare gli interessi pazzeschi del 1000 per cento, finiscono preda di vendette crudeli e inenarrabili da parte del racket. Già questo tema di denuncia, che evidenzia l’impegno civile del regista Kim Ki-Duk, è condotto in modo magistrale, con inquadrature cupe, dai toni freddi, metallici. Con stridori agghiaccianti.
La seconda chiave è di tipo psicologico e ci riporta a un tema classico nella letteratura e nel cinema: quello del delitto e del bisogno di espiare (basti pensare a Dostoevskij e a McEwan, e al film, tratto dal libro omonimo dello stesso, Espiazione). Un tema di respiro universale, che va oltre la cultura cristiana del senso di colpa. Solo che, per scontare una colpa in modo liberatorio, bisogna avere la coscienza del proprio torto, e del male fatto agli altri. Invece il protagonista, incapace di empatia, è del tutto indifferente agli altri, è disumano, tanto che appare un’incarnazione fisica del Male o del diavolo. Lo è, però, fino a un certo punto: fino a quando non compare in scena sua madre (quella che lo aveva abbandonato alla nascita). La donna gli insegna prima l’amore (che non ha mai conosciuto, e, che, in quanto negato, lo ha indurito e incattivito) e poi , con estrema durezza ed astuzia, il dolore e la pietà. Questi sono i passaggi obbligati per approdare all’espiazione e alla liberazione. In conclusione, il film declina il genere del racconto di formazione, ma senza facili ottimismi, ed, anzi, in una prospettiva nichilistica.
La terza ci riporta al complesso edipico e alla complessità del rapporto madre-figlio, accresciuta dal fatto che al protagonista questa relazione fondamentale è mancata: la madre, portatrice di un senso di colpa grande come un macigno, va incontro alla sofferenza, anche brutale, per pagare il suo peccato. Il figlio la odia e la ama. Lei, a sua volta, non può che amare il figlio ritrovato e odiare l’uomo terribile che è diventato. Il volto della madre, bello e tragico come una maschera giapponese, rigato di lacrime non abbandona facilmente lo spettatore.
Peccato che nel film il regista non sia riuscito a incorporare la scena della locandina, un’evidente rivisitazione del capolavoro di Michelangelo.
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antonio canzoniere
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mercoledì 11 settembre 2013
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il leone violato
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La Pietà, non riguarda tanto il film, quanto il regista. Kim Ki Duk, negli anni passati, aveva costruito il suo cinema su un trittico magico: Sesso-Violenza-Crudeltà. In questo film li ritroviamo tutti...ma cos è cambiato? La storia prometteva bene sulla carta: un sicario sanguinario che scopre il Bene attraverso una donna misteriosa, la Madre, il cui arrivo sovverte i principi e l'insano equilibrio della sua esistenza. Nel descrivere il microcosmo della baraccopoli coreana dove il protagonista svolge il ruolo di "Angelo Tentatore", assillando i clienti per la riscossione dei debiti -sottotrama chiaramente presa da L'argent di Bresson-, il regista inietta di sua volontà risvolti parossistici, ridondanti -fin troppo compiaciuti-, cercando di (far) riflettere sui risvolti sociopolitici che si mischiano tragicamente all'intimità del focolare.
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La Pietà, non riguarda tanto il film, quanto il regista. Kim Ki Duk, negli anni passati, aveva costruito il suo cinema su un trittico magico: Sesso-Violenza-Crudeltà. In questo film li ritroviamo tutti...ma cos è cambiato? La storia prometteva bene sulla carta: un sicario sanguinario che scopre il Bene attraverso una donna misteriosa, la Madre, il cui arrivo sovverte i principi e l'insano equilibrio della sua esistenza. Nel descrivere il microcosmo della baraccopoli coreana dove il protagonista svolge il ruolo di "Angelo Tentatore", assillando i clienti per la riscossione dei debiti -sottotrama chiaramente presa da L'argent di Bresson-, il regista inietta di sua volontà risvolti parossistici, ridondanti -fin troppo compiaciuti-, cercando di (far) riflettere sui risvolti sociopolitici che si mischiano tragicamente all'intimità del focolare. Non che gli riesca...
Un esempio: Hitchcock stesso disse che Psycho era un capolavoro perchè non frutto di trovate eccessivamente virtuosistiche: il tutto stava nel saper utilizzare bene il materiale quanto la storia. Questa divenne la Regola Massima del cinema, ma, per ironia, Kim Ki Duk ha perso, con questo film, sia la sua versatilità quanto il buon senso, quindi il "Genio". Come riuscire a raccontare una storia così torbida, funerea, allucinante, senza il savoir faire? Forse inquadrando i protagonisti con delle riprese così scadenti che un ragazzo di 15 anni sarebbe capace di rifare nel migliore dei modi solo col suo iPhone? Costringendo la sua attrice ad entrare anima e corpo in un personaggio umiliante, manco stessimo vedendo un porno o un film di Von Trier? Usando un'ironia sporca quanto ridicola in alcune parti? Non saprei. Ma questo non è certo il modo. Chissà che avrà mai visto Michael Mann -presidente della giuria a Venezia- dietro queste immagini...
P.S: Spero che la povera Jo-Min Su sia andata da uno strizza cervelli per tutto quello che le ha fatto passare il regista, anche se l'hanno ricoperta di premi in Asia.
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olgadik
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lunedì 24 settembre 2012
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humana pietas
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Alla fine della proiezione vorresti che qualcuno avesse pietà di te ed il primo impulso è quello di considerare volutamente esagerato tutto quel campionario di violenze per far passare un messaggio semplice ed antico: il vendicarsi si rivela, per chi vuole provarne il gusto estremo, meno soddisfacente di quanto si pensi. In questo caso è una sorta di “humana pietas” per il nemico, l’elemento inatteso che altera il sapore della vendetta per la protagonista. Bene e male, mischiati in un intrico doloroso, fanno parte della nostra natura. Sin dalla prima scena del film lo sconcerto è tanto, perché le immagini violente, oltre che vedersi, si “sentono” e fare da guardona a delle torture crudeli non è piacevole.
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Alla fine della proiezione vorresti che qualcuno avesse pietà di te ed il primo impulso è quello di considerare volutamente esagerato tutto quel campionario di violenze per far passare un messaggio semplice ed antico: il vendicarsi si rivela, per chi vuole provarne il gusto estremo, meno soddisfacente di quanto si pensi. In questo caso è una sorta di “humana pietas” per il nemico, l’elemento inatteso che altera il sapore della vendetta per la protagonista. Bene e male, mischiati in un intrico doloroso, fanno parte della nostra natura. Sin dalla prima scena del film lo sconcerto è tanto, perché le immagini violente, oltre che vedersi, si “sentono” e fare da guardona a delle torture crudeli non è piacevole. Dopo la prima parte però, entra in scena, a fianco dell’efferato Kang-Do, il protagonista, un secondo personaggio, la madre fino allora sconosciuta. La sua assenza, fin dalla nascita del piccolo, ha contribuito a riempirlo di rabbia, voglia di potere, osceno compiacimento per le vittime. Il giovane è l’esattore di un usuraio e fa convintamente (anche andando oltre il volere del suo mandante) quel lavoro; a chi non paga toccano mutilazioni o morte per incassare l’assicurazione e per il gusto di esercitare il proprio furore sugli inermi, uomini o animali. Ma una mattina il giovane, uscito per le strade squallide, piene di rottami e di sporcizia senza redenzione, si vede seguito da una figuretta di donna che non lo lascia e lo aspetta sulla soglia di casa quando lui esce al mattino reduce da un'altra notte di “amore”, fatto di masturbazioni sul cuscino. La storia si ripete per qualche giorno fino a che si viene a sapere che quella donna è sua madre. Niente sarà per lui come prima. Ben presto Kang-Do si arrende alla cura, alla dolcezza, al pranzo trovato pronto, in una parola all’affetto di quella persona che accetta anche l’estremo oltraggio dello stupro dal figlio ritrovato. Scene fortissime, lacrime continue, orientale dismisura lasciano lentamente il posto ai sorrisi, al ritrovarsi insieme, al regalino affettuoso. Tutto è nuovo e insperato per il protagonista, ma niente è come sembra. La falsa madre rivelerà alla fine il suo piano vendicativo ed il cerchio si chiude perché al suicidio della prima scena corrisponde il suicidio squallido e strano della fine. Come si sarà capito, la vena polp-pulp o da sceneggiata partenopea, è portata alle estreme conseguenze da questo maestro del cinema alla sua diciottesima prova, dopo quattro anni di silenzio e una vita piena di esperienze approdate a una sorta di misticismo anch’esso vissuto fino in fondo. Ma la mano del regista che sa fare il suo mestiere non si discute e regala a tratti la dolente poesia di altri suoi film. Kim Ki-Duc sa scegliere le inquadrature e i primi piani, sa esaltare il colore, usa magnificamente la bravura e la bellezza da fiore calpestato dell’attrice che impersona la finta madre, lascia spazio nei momenti meno enfatici a una critica tagliente del dio-denaro che cancella l’umano, abbrutisce le città, rende la realtà di oggi di un tristissimo color ruggine.
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(di retentissement)
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giovanna
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mercoledì 19 settembre 2012
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soldi e sentimenti (malati)
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Tostissima fulminea educazione sentimentale di un giovane delinquente anafettivo, al servizio della lobby cravattara coreana, e di una madre che, sconvolta dal dolore sceglie di vendicarsi in modo grottesco e, se si vuole, con fine implacabile intuizione psicologica .
Lo spettatore immerso nei maleodoranti vicoli di un’anonima infernale città, tra reiterate scene di inaudita aggressività frutto del nichilismo del protagonista e dell’ambiente che lo circonda e determina, è sottoposto ad un forte disagio.
Ad un certo punto, sollecitato a rifletter su “cosa sono i soldi” , speranzoso, assiste ad un progressiva presa di coscienza del protagonista Kang-do, che comincia a dimostrare, con sollievo degli astanti, segni di timida umanità.
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Tostissima fulminea educazione sentimentale di un giovane delinquente anafettivo, al servizio della lobby cravattara coreana, e di una madre che, sconvolta dal dolore sceglie di vendicarsi in modo grottesco e, se si vuole, con fine implacabile intuizione psicologica .
Lo spettatore immerso nei maleodoranti vicoli di un’anonima infernale città, tra reiterate scene di inaudita aggressività frutto del nichilismo del protagonista e dell’ambiente che lo circonda e determina, è sottoposto ad un forte disagio.
Ad un certo punto, sollecitato a rifletter su “cosa sono i soldi” , speranzoso, assiste ad un progressiva presa di coscienza del protagonista Kang-do, che comincia a dimostrare, con sollievo degli astanti, segni di timida umanità.
Inutile.
Kim-Ki Duk non molla la presa e la tensione si sposta svelando abissi di inquietudine e tormentata tormentosa umanità, nell’ infruttuoso tentativo di comprendere l’incomprensibile.
Tra lacrime, sangue, orrore autolesionista, la parabola sull’egemonia della legge economica e la speculare desertificazione dei valori, corre dritta all’epilogo di morte.
Ma anche chissà forse può essere rinascita.
Almeno così ci ha suggerito, dopo la corsa notturna sull’autostrada, l’immagine di un’alba primordiale sulla quiete delle immutabili colline coreane.
Simboliche icone del correre e rincorrersi delle stagioni, che riportano al nucleo emozionale di quel «Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera» del 2003, che rese famoso, non solo tra i cultori del cinema asiatico, Kim-Ki Duk .
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ennas
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mercoledì 26 settembre 2012
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non solo "pietà'
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Per me, il filo conduttore del film è “l’impero del dio denaro” con gli effetti nefasti qualora questo dominio diventa estremo.
La squallida Seul dove si svolge la storia può essere sì qualsiasi sobborgo sparso sul pianeta. Dove domina il “denaro” si perverte per esso ogni altro valore, si supera ogni limite e si può fare di tutto, compreso lo strozzino cinico e malvagio impersonato dal protagonista.
Questo mi è parso il primo messaggio del film. Per che cosa questo giovane fa in questa maniera questo turpe lavoro? Per avere qualche agio e comodità in più delle sue vittime, una maggiore libertà di movimento? Lui disprezza le sue vittime e questo disgusto trova degli appigli nella realtà: il dominio del denaro rende le vittime ottuse e impotenti.
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Per me, il filo conduttore del film è “l’impero del dio denaro” con gli effetti nefasti qualora questo dominio diventa estremo.
La squallida Seul dove si svolge la storia può essere sì qualsiasi sobborgo sparso sul pianeta. Dove domina il “denaro” si perverte per esso ogni altro valore, si supera ogni limite e si può fare di tutto, compreso lo strozzino cinico e malvagio impersonato dal protagonista.
Questo mi è parso il primo messaggio del film. Per che cosa questo giovane fa in questa maniera questo turpe lavoro? Per avere qualche agio e comodità in più delle sue vittime, una maggiore libertà di movimento? Lui disprezza le sue vittime e questo disgusto trova degli appigli nella realtà: il dominio del denaro rende le vittime ottuse e impotenti.
Altro elemento da maestro del cinema è a mio avviso,l’odio palpabile che la regia sa far rendere dai suoi personaggi: delle vittime l’odio della disperazione , dello strozzino l’odio che gli alimenta l’efferatezza del suo ruolo.
C’è un primo episodio significativo che precede la comparsa della presunta “madre” dove la granitica crudeltà del “mostro” ha un primo lieve cedimento. E’ allorché la vittima, un ragazzo in procinto di diventare padre si “offre” di mutilarsi entrambe le mani proponendo allo strozzino la divisione degli utili. Quando la vittima raggiunge l’abiezione toccando il fondo nel “mostro” cede per un attimo la ferrea identità del sadico.
Altro elemento che mi ha colpito è l’insistenza del regista sulla figura materna.
Non solo la “madre” di Kang-do ma le madri dolenti ed a tratti inferocite di cui è disseminato il film: anche questo per me, insieme all’epilogo è stato parte del messaggio potente del film. L’attrice bravissima che impersona la madre la quale, umiliata, offesa, stuprata, lo nutre, lo segue, loasseconda e lo giustifica e le altre figure materne annientate dalla perdita prefigurano una sorta di archetipo, una “simbolica” “madre natura” e insieme mi sono parse l’altro polo in cui si snoda il messaggio del film.
Infatti mi è sembrata implicita una domanda: se prevale la logica del denaro cosa può salvare l’umano? L’amore? Anche questo può essere una chimera se si varcano tutti i limiti di umanità.
Infatti l’epilogo non lascia spazio a facili illusioni: può essere tardi anche per l’amore se si intreccia alla perdita , al pericolo, al dolore.
Nel film è proprio la “madre “ a mettere in atto la più terribile delle vendette rendendo insopportabili al protagonista la perdita e il dolore. A quel punto non servirà più di tanto indossare i panni della vittima ( nella sepoltura Kang-do e anche gli spettatori scoprono per chi era il maglione che il ragazzo voleva per se -è piccolo disse alla madre- e solo da quel punto in poi lo vedremo indossarlo a sua volta.)
Ultimo pezzo da capolavoro del cinema: chi è che trascina per chilometriil corpo del”mostro” suicida senza accorgersene nonostante la scia di sangue interminabile? Colei, fra le sue vittime che avrebbe voluto schiacciarlo con la sua macchina. Tale era l’odio immenso che l’epilogo finale non gratifica ma rende vano, assolutamente inutile.
Un grandissimo film da non perdere.
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luxlux
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lunedì 1 ottobre 2012
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un po' di delusione
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Non è uno dei migliori film del regista, la narrazione simbolica lascia un po' spiazzati, ma col passare del tempo i difetti vengono a galla, tra cui un certo uso smodato di stereotipi. Ottima la prova attoriale dei protagosnisti.
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aloisa clerici
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sabato 20 ottobre 2012
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pietà: alla ricerca del limite
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Il linguaggio cinematrografico al quale è avvezzo il pubblico italiano è lontato da qui, anche se il coreano Kim Ki Duk è già riuscito a farsi largo in occidente con il poetico Ferro 3, (Leone d’Argento 2004), La sararitana, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Time, per arrivare fino a Pietà, il suo diciottesimo (Leone d’oro Venezia 2012).
Girato in un sobborgo di Cheonggyecheon, a Seoul, luogo che il regista ha conosciuto e vissuto realmente per alcuni anni della sua vita, il film racconta la storia di Kang-do, trentenne spetato e violento, che alle dipendenze di un usuraio, riscuote i suoi debiti tra la povera gente facendo sfoggio di metodi feroci e sadici.
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Il linguaggio cinematrografico al quale è avvezzo il pubblico italiano è lontato da qui, anche se il coreano Kim Ki Duk è già riuscito a farsi largo in occidente con il poetico Ferro 3, (Leone d’Argento 2004), La sararitana, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Time, per arrivare fino a Pietà, il suo diciottesimo (Leone d’oro Venezia 2012).
Girato in un sobborgo di Cheonggyecheon, a Seoul, luogo che il regista ha conosciuto e vissuto realmente per alcuni anni della sua vita, il film racconta la storia di Kang-do, trentenne spetato e violento, che alle dipendenze di un usuraio, riscuote i suoi debiti tra la povera gente facendo sfoggio di metodi feroci e sadici. È un uomo gelido, crudele, pericoloso e temuto. Improvvisamente appare nella sua vita una donna che afferma di essere sua madre e gli chiede perdono (o pietà) per averlo abbandonato alla nascita, un torto che ha visto il ragazzo costruirsi una vita in solidudine, in balia di una devastante ignoranza emotiva che lo ha condotto verso la disumanità e il male. Kang-do inizialmente si appella a tutta la sua spietatezza per offenderla, ma dopo avere cercato verifiche, prove sulla sincerità della donna, è costretto a rimettere in discussione tutto, e nemmeno troppo gradualmente, finisce per aprirsi e accettarla.
Pietàè un film indubbiamente importante e soprattutto potente, la cui partenza è la denuncia della perdita dei valori della società contemporanea vittima del denaro, attraversa uno stile che sfiora la tragedia greca per approdare ad un elevato grado di spiritualità, la ricerca della redenzione e del perdono. Perché dove finisce la pietà inizia la vendetta, ma anche viceversa.
La narrazione è fluida, di grande intensità e potenza espressiva e vanta una fotografia impeccabile, curata nei colori, grigi e polverosi, nella materialità dell’acciaio delle botteghe, nella vischiosità del fango dei vicoli, nella simbologia di alcuni oggetti che a tratti, fanno da elementi-conduttori (il coltello violenza/pietà, il coniglio speranza/destino, il maglione destino/vendetta, l’albero vita/morte).
Lo spettatore è chiamato a partecipare, a compiere uno sforzo emotivo non da poco, resistendo alla costante sensazione di disturbo che si sviluppa durante il dipanarsi della storia, che si fa assai più complessa e ardita nella seconda parte. Qui i meccanismi di pietà e vendetta si incastrano, si collegano, si sdoppiano e costringono a ragionare, a riflettere su più tematiche, una delle quali è il limite. I personaggi sono vittime e carnefici, si muovono nelle loro vite come burattini senza memoria, guidati dalle diaboliche conseguenze che il malaccorto uso del denaro porta nelle relazioni umane nella società contemporanea capitalista. L’espressività dello stile visivo del film si esprime definitivamente nell’ultima scena, in un’immagine di straordinaria forza.
Il fascino di questo film, sta nel riuscire a svelare e identificare il bene, individuare quale possa essere il confine tra speranza-amore e il male-destino, la delicatezza di dettagli che muovono sentimenti di strazio talmente profondi da creare sgomento e fermarsi a pensare.
C’è da augurarsi che, a questo giro, la gente non si faccia intimorire dall’”imponenza” di quest’opera, già intuibile dal titolo, dalla locandina ispirata chiaramente al capolavoro di Michelangelo, opera che simboleggia il dolore umano. Ci si augara invece, che sia proprio lo stesso coraggio e lo stesso fervore che è stato necessario al regista per crearla, a condurne alla visione il pubblico. Perché come si evince dalle sue parole "Per spiegare il buio, il nero, bisogna presentare la luce, il bianco. La violenza e la crudeltà nei miei film serve a questo, a poter raggiungere il bianco".
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