Pietà |
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Un film di Kim Ki-Duk.
Con Jung-Jin Lee, Jo Min-Su
Titolo originale Pieta.
Drammatico,
durata 104 min.
- Corea del sud 2012.
- Good Films
uscita venerdì 14 settembre 2012.
- VM 14 -
MYMONETRO
Pietà
valutazione media:
3,73
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Metafora onirica del lavoro e della vitadi RescartFeedback: 8315 | altri commenti e recensioni di Rescart |
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martedì 25 giugno 2013 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Il cinema migliore rimanda sempre a qualcosa di altro e di oltre perché rappresentare la realtà significa fotografarla mettendosi dalla parte dei soggetti ripresi, che in questo caso sono i lavoratori. Ki-Duk ha fatto molti lavori nella sua vita e quindi ha sperimentato sulla sua pelle che cosa significa la fatica del lavoro quotidiano ed il suo rischio, nella duplice e speculare veste del rischio fisico e dell’azzardo morale. L’operaio che lavora con macchinari potenzialmente invalidanti se usati male anche una sola delle milioni di volte in cui il gesto produttivo viene ripetuto, non può perdere mai la concentrazione neanche per un solo istante. Sa che questo è impossibile e che quindi il caso, la “Tuche” di omerica memoria, sarà per otto e più ore al giorno la sua divinità guida e sarà quindi portato a continuare ad onorarla anche nelle periodi di riposo dal lavoro. L’unica possibilità per affrancarsi da questa idolatria, che lo pone ogni giorno su uno spietato campo di battaglia di una guerra tra lui e la macchina, è la carriera. Ma per fare carriera l’operaio ha come unico ascensore sociale l’obbedienza cieca al padrone, l’asservimento totale. E così passa dall’adorare la dea Tuche ad adorare la “Ananche”, la necessità che lo obbliga ad essere più realista del re. Kang-do è passato da questa parte della barricata. Non sappiamo se prima abbia adorato anche lui la Tuche. Forse sì vista l’abilità con cui lui stesso maneggia le macchine. Lo vediamo all’opera nella sua personale ed efferata idolatria dell’Ananche, una divinità che proprio per la sua natura alla fine arriva a non aver più bisogno neanche del suo servizio. Tuche e Ananche in questo pari sono, come i fratelli della stessa madre (nulla si sa del padre) che fanno la stessa fine. La cultura coreana coreana autentica è qui rappresentata dalla madre rediviva. Anche sotto il giogo di un capitalismo d’importazione, individuabile nella skyline metropolitana che contrasta con la brulicante favela sottostante, lo spirito ancestrale del popolo cova sotto le ceneri e riemerge nell’indomabile figura della madre e nel suo certosino piano di nemesi fortissimamente voluto e liberamente realizzato. Il suo piano, a differenza di quello dei due figli, è sottratto all’idolatria delle due sorellastre Tuche e Ananche, ha solo apparentemente lo stesso epilogo. Perché il vero male non è il suicidio in sé, ma l’inganno che porta con sé quando è attuato come una liberazione. Nella donna il suicidio è una vendetta, un contrappasso una lezione, che il regista coreano ci vuole dare concludendo il film nello stesso modo con cui era iniziato. “In medio stat virtus”, la virtù sta nel mezzo, cioè nel suicidio della madre. Ma il suo film paradossalmente come la realtà è tutt’altro che equilibrato.
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