Intingete una pellicola nello squallore. Aggiungete un tonnellata di stereotipi, un canile di attori e l’imprevedibilità di un sasso. Mescolate il tutto e avrete: La Moglie del Sarto.
In un cinema popolato solamente da quattro anime sbadiglianti, ci siamo sorbiti un polpettone melenso di rara bruttezza. La storia sta in piedi come un ubriaco sui pattini. Non ci credete? Allora eccola qui.
Paese del Sud Italia (ragazzi in coppola, nonne sedute ad annusare frutta, uomini che giocano a carte). Il sarto del villaggio muore. La vedova, assieme alla figlia, eredita il negozio. Ma il cattivo assessore, spalleggiato da un losco imprenditore settentrionale, vuole impossessarsi dell’immobile per trasformarlo in un albergo. Poi arriva un burattinaio che si innamora della figlia della nostra vedova. I due si sposano, ma i compaesani, che vivono di pane e cazzi degli altri, mettono loro i bastoni tra le ruote. Tra colpi di scena come starnuti, colpi di tosse e inquadrature degne di un filmino sulle vacanze a Foggia di una famiglia di Latina, giungiamo al finale. Il burattinaio e la figlia della vedova non riescono ad avere un figlio, ma poiché la nostra eroina in lutto si concede al ragazzo, avremo infine un pargoletto da spacciare come figlio della giovane coppia. L’assessore e l’imprenditore verranno arrestati e linciati dalla folla. E, otto anni dopo, scopriremo che se si prendono a pallonate i negozi si viene assaliti dal villaggio.
La regia: inesistente, quando non nociva. Il regista si addormenta davanti a paesaggi da cartolina sbiadita, occhi pieni di gavettoni di lacrime, primi piani intensi come un bicchiere d’acqua. Il ritmo è talmente incalzante che si vive l’intero film nella fase REM. La musica sembra partorita dall’orchestra di suicidi seriali, sponsorizzata dalla Prozac. A questo va aggiunta sicuramente la scelta geniale del cast, tra cui spiccano una segretaria sciapa, un poliziotto talmente sopra le righe da rasentare la schizofrenia e una specie di maga Magò fissata con Dio e il trucco pesante.
Vorremmo stringere calorosamente la mano allo sceneggiatore. C’è del talento nella sua capacità di rendere noiosi anche i saluti. E nella sua ossessione di ricordarci che siamo nel Sud Italia: minchia!
La ragazza del botteghino ci porge i biglietti con gli occhi sgranati: non ci crede neanche lei. Anzi, ci schernisce dicendoci chiaramente che nessuno ha chiesto di vedere questo capolavoro. Lo stesso computer si rifiuta di certificare l’acquisto dei ticket.
Usciamo dalla sala frastornati come un criceto nella lavatrice. Gli altri due presenti, un vecchio assieme alla badante, guadagnano barcollando l’uscita. Lui non arriverà al giorno dopo. Noi invece arriviamo alla macchina, e sfrecciamo via.
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