francisdeckhaunt
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mercoledì 12 settembre 2012
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la quinta stagione dell'uomo
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AVVISO: Contiene informazioni sul finale del film.
La Cinquième Saison è l'ultimo capitolo della trilogia, dedicata al rapporto uomo-natura, creata dalla coppia di registi Peter Brosens e Jessica Woodworth. La storia è ambientata in una piccola comunità che vive coltivando i prodotti della terra, dipendendo completamente dalla natura; ed è proprio la natura stessa che, fermando il corso delle stagioni (indimenticabile la neve che cade in piena estate), trasformerà un tranquillo villaggio in una caccia al colpevole, o meglio al capro espiatorio. Quest'ultimo altri non poteva essere che lo straniero, un apicoltore, Pol, con un figlio disabile, che viene accusato di tutto quello che sta succedendo.
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AVVISO: Contiene informazioni sul finale del film.
La Cinquième Saison è l'ultimo capitolo della trilogia, dedicata al rapporto uomo-natura, creata dalla coppia di registi Peter Brosens e Jessica Woodworth. La storia è ambientata in una piccola comunità che vive coltivando i prodotti della terra, dipendendo completamente dalla natura; ed è proprio la natura stessa che, fermando il corso delle stagioni (indimenticabile la neve che cade in piena estate), trasformerà un tranquillo villaggio in una caccia al colpevole, o meglio al capro espiatorio. Quest'ultimo altri non poteva essere che lo straniero, un apicoltore, Pol, con un figlio disabile, che viene accusato di tutto quello che sta succedendo. Altro personaggio interessante è quello di Alice, un'innocente ragazzina che, con il peggiorarsi delle condizioni di vita, finisce con il prostituirsi in cambio di poche provviste. Ma la vera protagonista di questo film è la natura che, con la sua maestosità e imprevedibilità, riesce a modificare completamente la vita degli uomini. A sottolineare ciò i pochi dialoghi che in tutto il film vengono scambiati tra i personaggi e le inquadrature dalla forte componente fotografica, se non pittorica. Unendo riprese statiche costruite alla perfezione, lenti movimenti di macchina e lunghi piani sequenza, i registi hanno reso un possente ritratto del paesaggio fiammingo. Significative le scene, tra cui quella di apertura, dell'uomo che cerca di far cantare il suo gallo, senza successo, finendo per ucciderlo. Come se la natura intendesse farla pagare all'uomo e non volesse più dargli retta (che sia, appunto, un gallo che si rifiuta di cantare o un inverno che si rifiuta di finire), trasformandolo in una bestia. Così come l'uomo uccide il gallo, infatti, gli abitanti del villaggio finiscono per “sacrificare” Pol nella folle speranza di poter scacciare l'inverno una volta per tutte. Interessante la sequenza finale: dopo la morte di Pol e quella (che rimane in dubbio) di Alice, assistiamo all'arrivo di un gruppo di struzzi, l'ultimo dei quali si ferma a guardare verso di noi. Il film termina. Finale enigmatico che può figurare il ritorno della natura, quindi la tanto attesa primavera, che nel film non arriva mai. In diverse simbologie lo struzzo rappresenta, infatti, la rinascita, la resurrezione. In araldica, invece, raffigura la possibilità di dominare le difficoltà più dure. Che si apra un barlume di speranza sul futuro dell'uomo, fin'ora rappresentato nei suoi lati più oscuri?
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peer gynt
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venerdì 7 settembre 2012
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la natura espelle l'uomo dalla terra
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Bell'idea iniziale, che ricorda alla lontana film come "E venne un giorno" di Night Shyamalan: il genere umano castigato dalla Natura. In un paese della campagna belga all'improvviso la Natura cessa di fare ciò che ha sempre fatto: creare, dare la vita. Tutto muore, le mucche non danno latte, le api scompaiono e il falò che dovrebbe bruciare il fantoccio dell'inverno non si accende. Un horror quieto, dalla bella fotografia che mostra paesaggi aridi e freddi, nebbie che inglobano e addormentano la vita, alberi secchi che cadono inesorabilmente. Ma dopo un ottimo inizio, incominciano a fioccare immagini allegoriche e simboli che si ispirano alle ataviche paure di una cultura contadina ancora pagana.
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Bell'idea iniziale, che ricorda alla lontana film come "E venne un giorno" di Night Shyamalan: il genere umano castigato dalla Natura. In un paese della campagna belga all'improvviso la Natura cessa di fare ciò che ha sempre fatto: creare, dare la vita. Tutto muore, le mucche non danno latte, le api scompaiono e il falò che dovrebbe bruciare il fantoccio dell'inverno non si accende. Un horror quieto, dalla bella fotografia che mostra paesaggi aridi e freddi, nebbie che inglobano e addormentano la vita, alberi secchi che cadono inesorabilmente. Ma dopo un ottimo inizio, incominciano a fioccare immagini allegoriche e simboli che si ispirano alle ataviche paure di una cultura contadina ancora pagana. E qui il film perde il terreno sotto i piedi, si fa astratto, forzato e citazionista (gli struzzi buñueliani della scena finale). Avremmo preferito che non avesse cercato di spiegare nulla, nemmeno metaforicamente, per lasciare in una verosimiglianza di tipo shyamalaniano una vicenda memorabile per l'inquietante terrore che ispira in tutti noi: la Natura che si vendica e ci espelle dalla Terra.
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bio24
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lunedì 10 settembre 2012
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candidi cieli per cupe emozioni
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La prima parte del film è effettivamente spensierata e il candore del cielo ammira dall’alto il rincorrersi di due giovani innamorati nella foresta. E’ inverno, come ci annuncia una scritta sullo schermo e l’assenza di foglie sugli alberi, e nel villaggio sono ormai ultimati i festosi preparativi per il consueto rito che saluta la stagione più fredda dell’anno per dare il benvenuto alla primavera. La comunità è unita, tutti ridono e ballano e se qualcuno si dimostra violento nel linguaggio viene isolato. Ma qualcosa va storto. La piramide di legna, altare predisposto per il sacrificio di Zio Inverno, non ne vuole sapere di bruciare.
Da questo momento l’umore dei personaggi, gli episodi narrativi e la tonalità della musica subiscono un’accelerazione lenta ma costante e inesorabile verso il dramma più profondo.
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La prima parte del film è effettivamente spensierata e il candore del cielo ammira dall’alto il rincorrersi di due giovani innamorati nella foresta. E’ inverno, come ci annuncia una scritta sullo schermo e l’assenza di foglie sugli alberi, e nel villaggio sono ormai ultimati i festosi preparativi per il consueto rito che saluta la stagione più fredda dell’anno per dare il benvenuto alla primavera. La comunità è unita, tutti ridono e ballano e se qualcuno si dimostra violento nel linguaggio viene isolato. Ma qualcosa va storto. La piramide di legna, altare predisposto per il sacrificio di Zio Inverno, non ne vuole sapere di bruciare.
Da questo momento l’umore dei personaggi, gli episodi narrativi e la tonalità della musica subiscono un’accelerazione lenta ma costante e inesorabile verso il dramma più profondo. La natura si rifiuta di continuare il suo regolare ciclo, l’inverno diventa nei fatti perenne e i prodotti agricoli sono solo un ricordo degli anni passati. L’equilibrio naturale si è rotto e l’animo umano non impiega molto tempo a regredire. Il popolo diventa sordo di fronte alla razionalità e l’avidità non gli permette di ascoltare il consiglio del filosofo forestiero, custode oltretutto di un figlio in sedia a rotelle, che saggiamente vorrebbe dividere le scorte di cibo rimaste in modo da garantire la sopravvivenza di tutti. L’homo homini lupus di Hobbes avrebbe dovuto insegnare qualcosa al filosofo che solo quando la situazione si fa critica decide di tentare la fuga. Il cielo che sembrava accarezzare il tenero e giovane amore in procinto di sbocciare tra la coppia di ragazzi diventa invece apatico e indifferente. I dolci sentimenti lasciano il posto alla lotta e l’inseguimento giocoso diventa una strisciante fuga nel fango.
Gli animali osservano indifferenti il collasso del villaggio ridotto alla fame. Ad introdurre l’episodio più drammatico della storia ci pensano ancora una volta la strana coppia di narratori che finora aveva aperto con simpatia ogni capitolo, Fred il gallo (o quel che ne rimane) e il suo padrone. La soluzione finale adottata dal popolo è ovviamente quella di trovare un capro espiatorio, da colpire celandosi dietro l’anonimato fornito da inquietanti maschere. E chi poteva essere la vittima se non il razionale filosofo da poco arrivato nel villaggio?
La coppia Brosens-Woodworth alla regia inscena magistralmente la caduta libera della società colpita da un evento insolito quanto futuribile. La natura si ribella all’uomo per metterlo alla prova e la risposta che riceve è un vigliacco tentativo di colpire se stesso con il volto coperto e le orecchie protette per evitare le grida provocate dal dolore inflitto. Tanti sono i messaggi che il film lascia trapelare dietro le sue inquadrature. Carrelli che rivelano minacce nascoste, rallenty del volo degli uccelli, inquadrature grandangolari in cui il movimento frenetico e la rabbia dividono la scena con la tranquillità e la rassegnazione. Colonna sonora, montaggio, attori. In questo film ho adorato ogni particolare alla prima visione. Un ulteriore esame probabilmente farà calare il mio entusiasmo, ma il livello raggiunto da questo piccolo gioiello belga, che fonde Haneke con Shyamalan, resterà di certo alto.
Il finale confonde e lascia spazio a mille interpretazioni. La speranza sanguina ma non viene definitivamente uccisa.
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pensierocivile
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lunedì 5 agosto 2013
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uno struzzo è per sempre
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In un piccolo e isolato villaggio delle Ardenne il rito di saluto all'inverno è andato male, la natura perde la ciclicità delle stagioni ammantando le vite degli abitanti di grigiore, pioggia e morte: le mucche non danno più latte, i semi non germogliano più, gli alberi muoiono. La reazione umana è lo scoramento, la resa, la follia, la violenza di gruppo che si scaglia su un uomo in roulotte e su suo figlio disabile; non hanno alcun legame con la terra e per questo, identificati come causa della sventura. Ma LA QUINTA STAGIONE non è solo questo, non è solo l'eterno conflitto con l'altro, il diverso, lo straniero, è anche la ragazzina che si prostituisce in cambio di zucchero o poco altro, il commerciante che comincia a conservare insetti in barattoli per potersi sfamare o ricavare ancora denaro, il rapporto di un uomo col suo gallo.
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In un piccolo e isolato villaggio delle Ardenne il rito di saluto all'inverno è andato male, la natura perde la ciclicità delle stagioni ammantando le vite degli abitanti di grigiore, pioggia e morte: le mucche non danno più latte, i semi non germogliano più, gli alberi muoiono. La reazione umana è lo scoramento, la resa, la follia, la violenza di gruppo che si scaglia su un uomo in roulotte e su suo figlio disabile; non hanno alcun legame con la terra e per questo, identificati come causa della sventura. Ma LA QUINTA STAGIONE non è solo questo, non è solo l'eterno conflitto con l'altro, il diverso, lo straniero, è anche la ragazzina che si prostituisce in cambio di zucchero o poco altro, il commerciante che comincia a conservare insetti in barattoli per potersi sfamare o ricavare ancora denaro, il rapporto di un uomo col suo gallo. C'è tanto, molto da scoprire e andare a fondo, purtroppo gli autori non fanno molto per aiutare lo spettatore nella visione, innalzano un muro di lentezza, un passo pachidermico e decorano con inferriate di autorialità. Molti piani sequenza sono affascinanti, sorprendenti, altri insopportabili con pozzanghere in primo piano per minuti, o "oasi" di alberi che si abbandonano al vento senza influenze nel racconto. Privato di tutto il "superfluo" artistico, brillerebbe un gioiello. La scena finale è la sinossi perfetta del film: un'orda di struzzi arriva al villaggio, gli occhi degli animali sembrano accrescere il mistero sulla ribellione della natura, ma allo stesso tempo sono ancora una volta l'espressione di un sigillo autoriale pesante.
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[+] xenofobia e natura moribonda
(di giorgio robino)
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angelo umana
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domenica 4 agosto 2013
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la natura che si fa gioco degli uomini
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La quinta stagione è un tempo che non esiste, inventato dalla natura in un paesino del Belgio, è un inverno che rifiuta di essere scacciato via per mezzo di quella cerimonia comune a tanti luoghi dove si vive d’agricoltura (la catasta di legna bruciata con i pupazzi di cartapesta), che a latitudini venete si chiama “brusar la vecia”. E’ una piccola fine del mondo, la natura che si rifiuta di andare avanti, forse si prende gioco degli umani che nei bisogni sviluppano maggiormente le loro inimicizie e i pregiudizi, diventano l’un l’altro avversi.
Nel paesino del film accade che la comunità cerchi e individui il capro espiatorio nell’allevatore d’api e “filosofo” Pol, che ha un giovane figlio in sedia a rotelle, Octave, dal papà chiamato “il giudice, l’angelo custode”.
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La quinta stagione è un tempo che non esiste, inventato dalla natura in un paesino del Belgio, è un inverno che rifiuta di essere scacciato via per mezzo di quella cerimonia comune a tanti luoghi dove si vive d’agricoltura (la catasta di legna bruciata con i pupazzi di cartapesta), che a latitudini venete si chiama “brusar la vecia”. E’ una piccola fine del mondo, la natura che si rifiuta di andare avanti, forse si prende gioco degli umani che nei bisogni sviluppano maggiormente le loro inimicizie e i pregiudizi, diventano l’un l’altro avversi.
Nel paesino del film accade che la comunità cerchi e individui il capro espiatorio nell’allevatore d’api e “filosofo” Pol, che ha un giovane figlio in sedia a rotelle, Octave, dal papà chiamato “il giudice, l’angelo custode”. Loro e due giovani del paese, Alice e Thomas, sembrano le creature più innocenti, le più buone, quelle che inevitabilmente subiranno la violenza comune. Eppure Pol ha avvertito la piccola comunità, “Quando le api scompaiono anche il resto scompare”.
Il tema di questo film ha una somiglianza forte con “Il sospetto”, ambientato nella vicina Danimarca, dove un maestro viene pure additato a diverso, nemico, emarginato, perché sospettato di pedofilia coi suoi piccolissimi alunni. E’ il bisogno del “diverso” che si ha a tutte le latitudini, il nemico a cui rivolgere i nostri sfoghi più violenti. “La solidarietà è effimera” viene detto, infatti, nel film. La presunta giustizia gli abitanti del luogo se la faranno celandosi sotto delle maschere – la violenza commessa in massa è anonima se non si è riconosciuti - uguali a quelle che i medici veneziani usavano per visitare gli appestati e non farsene infettare, riempivano il naso lungo della maschera con spezie ed erbe. Peccato, in un luogo così vicino alla natura, ben raffigurato da sembrare un quadro animato di Bruegel, dove un mezzo matto ha il tempo e la voglia di imitare il suo gallo (che poi “giustizierà” come nemico, anch’egli), dove Alice e Thomas si amano semplicemente e si cercano imitando i richiami degli uccelli. Peccato, l’uomo che non merita la natura.
Pur dotato di temi importanti il film pecca in lungaggine, lentezza, esagera in contemplazione, citazioni filosofiche inutili o incomprensibili (ricorda Nostalghia di Tarkovskij, per questo). C’è in tanti film, così sembra anche in questo, l’autocompiacimento del regista per l’opera che crea piuttosto che per il donare allo spettatore una storia e delle emozioni. Film colmo di tristezza, che è già un’emozione.
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[+] la violenza commessa in massa è anonima
(di angelo umana)
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giorgio robino
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lunedì 14 settembre 2015
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xenofobia e natura moribonda
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Già mentre guardavo questo "horror quieto" o film di fantapolitica", come è stato definito, ho pensato che il fim piacerebbe a registi come Bergman, a Buñuel, a Godard, a Jodoroskij (sicuramente! ed a cui si potrebbe chiedere).
Quello che mi è piaciuto ma allo stesso tempo mi ha dato fastidio è la FOTOGRAFIA, ricerca troppo perfetta e statica della pittura quasi in ogni fotogramma, nei movimenti di macchina lenti e sempre con movimenti lineari non-conformi al punto di vista umano (orrizzontale): dal basso all'alto, dall'alto al basso, orrizzontali ma circolari; tutto bello c'è però un pò di autocompiacimento nel lento procedere del procedere fotografico semistatico. Sta cosa dopo un pò non la sopportavo più, ma forse poco importa perchè inquest'opera è interessante il messaggio.
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Già mentre guardavo questo "horror quieto" o film di fantapolitica", come è stato definito, ho pensato che il fim piacerebbe a registi come Bergman, a Buñuel, a Godard, a Jodoroskij (sicuramente! ed a cui si potrebbe chiedere).
Quello che mi è piaciuto ma allo stesso tempo mi ha dato fastidio è la FOTOGRAFIA, ricerca troppo perfetta e statica della pittura quasi in ogni fotogramma, nei movimenti di macchina lenti e sempre con movimenti lineari non-conformi al punto di vista umano (orrizzontale): dal basso all'alto, dall'alto al basso, orrizzontali ma circolari; tutto bello c'è però un pò di autocompiacimento nel lento procedere del procedere fotografico semistatico. Sta cosa dopo un pò non la sopportavo più, ma forse poco importa perchè inquest'opera è interessante il messaggio.
Questa "favola" simbolica, nella sua antichità (vedi santa inquisizione e l'uccisione delle streghe) è però una protesta POLITICA molto attuale: Il fim denuncia la devastazione ambientale sulla Terra e l'abbruttimento conseguente dell'uomo che ridotto allo stremo della soppravivenza, cerca capi espiatori, in chi ? Ovviamente nello STRANIERO. Quindi parla ovviamente di un tema MOLTO ATTUALE ora nel 2015 qui da noi, ma certamente non è un tema nuovo e perfettamente a tempo già nel 2012 quando il film uscì.
Ecco quello che critico del film, a parte le questioni di estetizzazione, che sono un peccato minore dai, è non avere approfondito un pò meglio le ragioni per cui la Natura smette di vivere, di produrre; Ok, si può ben intuire, immaginare le ragioni, che potrebbero essere un inquinamento globale, una qualche catastrofe ecologica, etc. etc. ma l'ambigiuità (sicuramente voluta) è che tutta la storia riguarda un piccolo paesino rurale, che vive di agricoltura e piccoli commerci sempre agricoli, con metodi di vita, di coltivazione pure antichi, a-tecnologici... Ed anche le ragioni della desertificazione della coscienza umana sono lasciate all'immaginazione dello spettatore, che ha come mezzi per capire solo le allegorie psichedeliche ed i simbolismi... le maschere, i fiori di plastica.
Ultima nota: anche se a me appaiono evidenti i richiami all'Inquisizione della Chiesa Cattolica... ai riti stile Ku Klux Klan,non c'è nessun riferimento esplicito al potere religioso. Il film è quindi volutamente astratto, "laico" da ogni riferimento contingente, religioso, sociale (la xenofobia non è quella che ci si potrebbe aspettare rappresentata, dell'"invasione" del terzo mondo all'Europa (rurale e bianchissima), ma lo straniero è rappresentato da un colto tedesco, ridottosi ad essere apicoltore home-less!).
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stefanocapasso
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domenica 9 febbraio 2014
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cosa accade se non si chiudono le stagioni
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Attraverso il racconto di piccole storie individuali all’interno di una comunità rurale della campagna belga, “La quinta stagione” con un linguaggio paradossale di citazioni e simboli descrive cosa accade quando, per un incidente, la vita rimane imprigionata dentro l’inverno. Le stagioni che seguono, pur mantenendo il loro carattere, portano a sviluppi inaspettati. Tutto comincia d’inverno, un periodo di speranza, fertile; in questo senso, il freddo e la neve aiutano la vicinanza della comunità, gli amori sono teneri, si creano relazioni e se ne rafforzano altre. La festa che simbolicamente dovrebbe bruciare lo zio inverno pero va male; il falò non si accende.
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Attraverso il racconto di piccole storie individuali all’interno di una comunità rurale della campagna belga, “La quinta stagione” con un linguaggio paradossale di citazioni e simboli descrive cosa accade quando, per un incidente, la vita rimane imprigionata dentro l’inverno. Le stagioni che seguono, pur mantenendo il loro carattere, portano a sviluppi inaspettati. Tutto comincia d’inverno, un periodo di speranza, fertile; in questo senso, il freddo e la neve aiutano la vicinanza della comunità, gli amori sono teneri, si creano relazioni e se ne rafforzano altre. La festa che simbolicamente dovrebbe bruciare lo zio inverno pero va male; il falò non si accende. Il conflitto rimane irrisolto. La primavera porta i suoi cambiamenti ma in peggio. I terreni non producono raccolti, gli amori vivono conflitti, e tutti gli equilibri cominciano ad alterarsi in modo incontrollato. E l‘estate porta a maturazione e quindi a compimento i processi in corso provocando in questo caso una serie di rotture definitive. L’autunno sarà il momento della pulizia, che in questo caso è drammatica perché coincide con un grossolano giustizialismo, e che risponde a confusi intenti punitivi. A questo punto non può esserci un nuovo inizio, un nuovo inverno. E cosi arriva la quinta stagione, che è quella che non c’è, la fine. Questa è la mia chiave di lettura di questo film, minimalista in tutta la sua forma espressiva, fino a diventare ermetico. Dove c’è un conflitto irrisolto, dove la chiusura di un ciclo non si compie nel modo corretto, si generano conseguenze negative a catena. Molto suggestiva la fotografia.
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stefanocapasso
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domenica 9 febbraio 2014
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cosa accade se non si chiudono le stagioni
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Attraverso il racconto di piccole storie individuali all’interno di una comunità rurale della campagna belga, “La quinta stagione” con un linguaggio paradossale di citazioni e simboli descrive cosa accade quando, per un incidente, la vita rimane imprigionata dentro l’inverno. Le stagioni che seguono, pur mantenendo il loro carattere, portano a sviluppi inaspettati. Tutto comincia d’inverno, un periodo di speranza, fertile; in questo senso, il freddo e la neve aiutano la vicinanza della comunità, gli amori sono teneri, si creano relazioni e se ne rafforzano altre. La festa che simbolicamente dovrebbe bruciare lo zio inverno pero va male; il falò non si accende.
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Attraverso il racconto di piccole storie individuali all’interno di una comunità rurale della campagna belga, “La quinta stagione” con un linguaggio paradossale di citazioni e simboli descrive cosa accade quando, per un incidente, la vita rimane imprigionata dentro l’inverno. Le stagioni che seguono, pur mantenendo il loro carattere, portano a sviluppi inaspettati. Tutto comincia d’inverno, un periodo di speranza, fertile; in questo senso, il freddo e la neve aiutano la vicinanza della comunità, gli amori sono teneri, si creano relazioni e se ne rafforzano altre. La festa che simbolicamente dovrebbe bruciare lo zio inverno pero va male; il falò non si accende. Il conflitto rimane irrisolto. La primavera porta i suoi cambiamenti ma in peggio. I terreni non producono raccolti, gli amori vivono conflitti, e tutti gli equilibri cominciano ad alterarsi in modo incontrollato. E l‘estate porta a maturazione e quindi a compimento i processi in corso provocando in questo caso una serie di rotture definitive. L’autunno sarà il momento della pulizia, che in questo caso è drammatica perché coincide con un grossolano giustizialismo, e che risponde a confusi intenti punitivi. A questo punto non può esserci un nuovo inizio, un nuovo inverno. E cosi arriva la quinta stagione, che è quella che non c’è, la fine. Questa è la mia chiave di lettura di questo film, minimalista in tutta la sua forma espressiva, fino a diventare ermetico. Dove c’è un conflitto irrisolto, dove la chiusura di un ciclo non si compie nel modo corretto, si generano conseguenze negative a catena. Molto suggestiva la fotografia.
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