fabiofeli
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giovedì 2 maggio 2013
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una ferita insanabile lungo i binari della vita
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Muffa di Ali Aydin
Da una decina di anni, ogni settimana, le madri dei cittadini turchi – in gran parte di etnia curda –, scomparsi durante la dura repressione degli anni tra il 1991 e il 1997, si riuniscono in piazza Galatasaray a Istambul: una protesta simile a quella delle ‘Madres Locas’ di Plaza de Mayo a Buenos Aires.
Nel film di Aydin, regista e sceneggiatore, è un ferroviere, Basri (Ercan Kesal), che ha perso le tracce del figlio da 18 anni, a suo tempo studente universitario e oppositore del regime di Ankara.
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Muffa di Ali Aydin
Da una decina di anni, ogni settimana, le madri dei cittadini turchi – in gran parte di etnia curda –, scomparsi durante la dura repressione degli anni tra il 1991 e il 1997, si riuniscono in piazza Galatasaray a Istambul: una protesta simile a quella delle ‘Madres Locas’ di Plaza de Mayo a Buenos Aires.
Nel film di Aydin, regista e sceneggiatore, è un ferroviere, Basri (Ercan Kesal), che ha perso le tracce del figlio da 18 anni, a suo tempo studente universitario e oppositore del regime di Ankara. Nell’immaginario mediterraneo (e cattolico) il dolore di una madre per la perdita di un giglio è ineguagliabile, come quello di Maria: il sentimento di lutto del padre Giuseppe non viene indagato e sottolineato allo stesso modo.
Basri ha il compito di controllare integrità e funzionalità della ferrovia; lo vediamo in lunghissimi piani sequenza, mentre percorre a piedi interminabili tratti di binario fino a notte fonda e siamo consci che i suoi pensieri sono fissi lì, sul figlio scomparso senza più notizie. Il ferroviere ha tutto il tempo di macerare nell’animo dubbio e timore, e la sua speranza trova nuova linfa nell’incertezza. Ogni mese, con esasperante puntualità, scrive a una lettera alla Polizia del suo paese per avere notizie del figlio. E’ diventato una specie di favola tra i colleghi di lavoro, che bollano questa azione come inutile, ridicola originalità. L’arrivo del nuovo commissario di polizia, Murat (Muhammet Uzuner), rafforza la volontà dell’uomo di andare fino in fondo. Nell’ufficio governativo i due protagonisti si fronteggiano, separati da una massiccia scrivania, con parole laconiche, scambiandosi con rispetto sguardi indagatori. Basri è a due anni dalla pensione, ma non cede: teme una risposta che recida il tenue filo di speranza, ma continua il suo lavoro metodico, scrupoloso, certosino nonostante una grave malattia ne mini la salute. I suoi occhi rassegnati e i suoi baffi spioventi raccontano costantemente il peso che si trascina addosso nei gesti di tutti i giorni. Una mano spietata serra il suo (e il nostro) cuore. Sappiamo che ancora più spietata sarà la burocrazia, crudelmente formale e distratta nell’annuncio atteso e temuto.
Un film intenso, tutto giocato sull’espressione e sui gesti dello straordinario attore principale. Un grido di dolore contro uno stato poliziesco e un destino già scritto. Qui il grido è muto ma non meno assordante che in Yol (1982) del compianto regista turco Ylmaz Guney, (Palma d’oro a Cannes ex-aequo con Missing di Costa Gavras nel quale, sorprendente coincidenza, Jack Lemmon è alla ricerca del figlio scomparso nel Cile di Pinochet). Nonostante il dialogo sia ridotto all’osso, lo spettatore penetra nel significato della perdita del proprio futuro, come accade con la lettura del bel libro “Bambini nel tempo” di Mc Ewan. La magistrale lezione di C’era una volta in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan è ben appresa e messa a frutto da Aydin negli ampi spazi deserti dalla Turchia.
Un film bellissimo.
Valutazione ****
FabioFeli
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eugenio
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sabato 30 novembre 2013
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il marciume spirituale della turchia contemporanea
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Mai una premiazione fu più appropriata. Leone del futuro al festival del cinema di Venezia del 2012, Muffa questo il titolo della pellicola dell’esordiente Ali Aydin, è un film che ci ricorda da vicino il neorealismo italiano del dopoguerra con tematiche assai più intimiste.
Ambientato durante il conflitto tra turchi e curdi, in un contesto sociale in cui la Turchia fu protagonista di atti inaccettabili come le sparizioni forzate perpetrate dalle forze militari coadiuvate da un governo di estrema destra nei confronti degli oppositori, Muffa scava nelle pieghe nascoste dell’animo di Basri, il protagonista dostoejvskiano della pellicola, nella sua perenne ricerca del suo caro, della sua salma da compiangere.
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Mai una premiazione fu più appropriata. Leone del futuro al festival del cinema di Venezia del 2012, Muffa questo il titolo della pellicola dell’esordiente Ali Aydin, è un film che ci ricorda da vicino il neorealismo italiano del dopoguerra con tematiche assai più intimiste.
Ambientato durante il conflitto tra turchi e curdi, in un contesto sociale in cui la Turchia fu protagonista di atti inaccettabili come le sparizioni forzate perpetrate dalle forze militari coadiuvate da un governo di estrema destra nei confronti degli oppositori, Muffa scava nelle pieghe nascoste dell’animo di Basri, il protagonista dostoejvskiano della pellicola, nella sua perenne ricerca del suo caro, della sua salma da compiangere. Cammina Basri lungo i binari della ferrovia con l’ostinazione che non gli manca, tra i caratteristici colleghi del suo travagliato lavoro, quello di guardiano delle ferrovie, trascinandosi un bagaglio di sofferenza e di dolore nell’utopistica illusione di poter capire il destino di un figlio e di un ministero degli interni che mal lo respinge mensilmente con inutili interrogatori.
Basri però non si arrende: nel suo silenzio cova un tormento interiore immane segnato da un territorio che è reso manifesto dal regista attraverso desolate inquadrature e lunghi piani sequenza di città industriali consumate dall’aurea progressista del tempo sempre uguale come la routine quotidiana del protagonista, una “lenta agonia in movimento” attorno a quei binari dove cerca di dare una spiegazione a quella impudicizia, quella muffa del titolo, un agente esterno naturale che si insinuerà in lui come un male incurabile compromettendone sempre più l’esistenza stessa.
Nel personale travaglio interiore di Basri, lo spettatore subisce passivamente sulla sua pelle, “gli umiliati e offesi” della Turchia moderna, esseri del sottosuolo isolati, miserevoli, stupratori che ruotano come un satellite attorno all’orbita del protagonista, antieroe per eccellenza, dalle profonde e improvvise crisi epilettiche, silenzioso ma mai sornione,abulico sventatore di violenze sessuali (come quella perpetrata dal suo collega di turno a una giovane donna),incapace di mantenere il controllo dinanzi a “idioti” che infangano la memoria del figlio.
Un figlio che pur mai presente, è il co-primario della pellicola; c’e’ ma non si vede, è lui l’artefice-con il suo arresto e la sua sparizione- della coscienza di Basri, del suo senso ineluttabile di colpa,solitudine e perdita. E’ un fantasma che emerge prepotentemente in vivide scene come il lungo,lunghissimo piano sequenza di oltre venti minuti che ripercorre il silenzioso interrogatorio di Basri con il questore, un dialogo quasi spinto all’essenziale dove il non detto è emblema del dolore, della perdita, della denuncia contro una società che preferisce insabbiare piuttosto che “rivelare”, mettere alla luce, denunciare. E’ proprio di denuncia che il film malgrado l’atmosfera rarefatta delle inquadrature, presenta il suo punto forte: raccontando il dramma condizione sociale in cui vive il protagonista Muffa lancia apertamente al pubblico un messaggio forte sulla situazione politica successiva al periodo della guerra civile turco-curda, sul’omertà, il sotterfugio e la voluta indifferenza delle istituzioni statali e politiche nei confronti di umanità lasciate allo sbando.
Nonostante il ritmo lento a primo acchito “coadiuvato” da una trama priva di qualsiasi evento significativo, una sorta di “accozzaglia di eventi drammaticamente tristi sulla depravazione della Turchia contemporanea”, il personale stile registico di Aydin coinvolge per la bravura introspettiva di Basri, per la scarna povertà di un telaio apparentemente debole che si rivela al contrario riflessivo e acuto. La decomposizione, la muffa, l’eredità che il figlio di Basri lascerà all’affranto padre è universale in grado di parlare a tutti i cuori, tutte le coscienze attraverso una lingua comune e semplice che non necessita di traduzioni. Quella del dolore.
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flyanto
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lunedì 6 maggio 2013
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quando l'immobilismo e la solitudine diventano pro
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Film in cui si racconta di un anziano controllore dei binari della ferrovia che continuamente ed ostinatamente chiede allo Stato notizie sulla scomparsa del figlio avvenuta durante la guerra civile tra turchi e curdi. Ciò è diventata e diventa per lui un'ossessione poichè nessuna risposta, anche dopo tanti anni, gli viene data mentre per altri, come per un suo strafottente collega più giovane, diventa motivo di scherno. Gli animi di entrambi si inaspriranno sino alla morte di quest'ultimo causata dallo stesso ferroviere e finchè la sua situazione di immobile attesa ed incertezza finalmente si sblocca rivelandogli la vera e tragica fine del figlio, sicuramente ucciso dalla fazione politica opposta.
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Film in cui si racconta di un anziano controllore dei binari della ferrovia che continuamente ed ostinatamente chiede allo Stato notizie sulla scomparsa del figlio avvenuta durante la guerra civile tra turchi e curdi. Ciò è diventata e diventa per lui un'ossessione poichè nessuna risposta, anche dopo tanti anni, gli viene data mentre per altri, come per un suo strafottente collega più giovane, diventa motivo di scherno. Gli animi di entrambi si inaspriranno sino alla morte di quest'ultimo causata dallo stesso ferroviere e finchè la sua situazione di immobile attesa ed incertezza finalmente si sblocca rivelandogli la vera e tragica fine del figlio, sicuramente ucciso dalla fazione politica opposta. Il film è quello di esordio del giovane regista turco Ali Aydin che, raccontando questa storia o, più precisamente, la condizione, in cui vive il protagonista denuncia apertamente al pubblico la situazione politica in Turchia contemporanea ed immediatamente successiva al periodo della guerra civile turco- curda. Pertanto dalla pellicola si evince lo stato generale di omertà, di sotterfugio e di dittatura in cui la Turchia vive unito allo stato di persecuzione o semplicemente di voluta indifferenza nei confronti di coloro che hanno opinioni e posizioni politiche differenti dal Governo in carica o sono solo degli affiliati o loro congiunti. Nel suo intento, affermerei, Ali Aydin ha perfettamente raggiunto il proprio obiettivo, riuscendo anche a concentrare la vicenda in non più di 95 minuti, nonostante il ritmo lento sia della trama che è caratterizzata dalla mancanza totale di qualsiasi avvenimento od azione singolare che dal suo personale stile registico, caratterizzato da immagini ferme ed isolate. Interessante e per riflettere su certe situazioni politiche esistenti al mondo.
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renato volpone
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lunedì 20 maggio 2013
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il rumore del silenzio
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Il silenzio è la colonna sonora di questo film, il silenzio fa da sfondo ai sentimenti, alle umane debolezze, alle depravazioni, alla povertà, alla compassione. Il silenzio rotto sola dal ticchettio dell’orologio nella casa fatta di umiltà dove Basri vive la sua solitudine dopa la scomparsa del figlio, per la quale non si da pace, e la morte della moglie. Il protagonista penando le pressioni della giustizia scrive una petizione ogni quindici giorni per avere notizie del figlio. Attorno a lui ruotano personaggi di umana disperazione in un mondo contemporaneo ma che si può calare benissimo un secolo fa. Paesaggi desolanti, ma anche luminosi nella freschezza dei colori e della splendida fotografia, inquadrature lente che scorrono sulle ferite sempre più dolorose di un colpo inferto, di una malattia che non si arresta, tutto nitidamente verosimile, quasi da voler soccorrere il protagonista nella moribonda sofferenza di una crisi epilettica.
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Il silenzio è la colonna sonora di questo film, il silenzio fa da sfondo ai sentimenti, alle umane debolezze, alle depravazioni, alla povertà, alla compassione. Il silenzio rotto sola dal ticchettio dell’orologio nella casa fatta di umiltà dove Basri vive la sua solitudine dopa la scomparsa del figlio, per la quale non si da pace, e la morte della moglie. Il protagonista penando le pressioni della giustizia scrive una petizione ogni quindici giorni per avere notizie del figlio. Attorno a lui ruotano personaggi di umana disperazione in un mondo contemporaneo ma che si può calare benissimo un secolo fa. Paesaggi desolanti, ma anche luminosi nella freschezza dei colori e della splendida fotografia, inquadrature lente che scorrono sulle ferite sempre più dolorose di un colpo inferto, di una malattia che non si arresta, tutto nitidamente verosimile, quasi da voler soccorrere il protagonista nella moribonda sofferenza di una crisi epilettica. Il significato di una vita che non ha più la forza di discernere il bene e il male, lasciando il destino nel suo corso ineluttabile, ma caricandosi di colpe che la verità, infine affiorata, diventa, nel piccolo, il più grande fardello.
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theophilus
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lunedì 2 dicembre 2013
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il dolore si fa monotonia
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KÜF
Basri lavora lungo i binari ferroviari e segnala eventuali guasti sulla linea. Vive solo. Il figlio, un giorno è scomparso e, dopo poco, la moglie ne è morta. L’uomo scrive ripetute petizioni al governo turco per avere notizie, senza ricevere mai risposte. Anzi, è convocato di tanto in tanto dalla polizia locale, che ne controlla le mosse. Finché, un giorno, il funzionario con cui ha instaurato un rapporto meno teso, gli mostra un documento d’identità che potrebbe essere del figlio. Ai riscontri positivi del controllo dei DNA, all’uomo viene consegnata una cassetta contenente dei resti, accompagnata dalle condoglianze di prammatica.
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KÜF
Basri lavora lungo i binari ferroviari e segnala eventuali guasti sulla linea. Vive solo. Il figlio, un giorno è scomparso e, dopo poco, la moglie ne è morta. L’uomo scrive ripetute petizioni al governo turco per avere notizie, senza ricevere mai risposte. Anzi, è convocato di tanto in tanto dalla polizia locale, che ne controlla le mosse. Finché, un giorno, il funzionario con cui ha instaurato un rapporto meno teso, gli mostra un documento d’identità che potrebbe essere del figlio. Ai riscontri positivi del controllo dei DNA, all’uomo viene consegnata una cassetta contenente dei resti, accompagnata dalle condoglianze di prammatica.
Tutto qui. Il film scorre doloroso, asciutto e monotono, come è nelle intenzioni di chi scrive mostrare con queste laconiche note iniziali.
Basri ripensa fra sé durante le sue lunghe giornate lavorative (come si ascolta nel trailer del film) o quando si trova negli uffici della polizia (come avviene durante la proiezione integrale) che doveva essere destino che lui dovesse vivere così, sopravvivere a tutto e a tutti per sapere che cosa ne è stato del figlio. In ogni caso, il suo è un mondo di prigionia da cui l’uomo non ha speranza di evadere e questa condizione ci ha fatto pensare al carcerato protagonista di Après le trou, l’opera prima del regista spagnolo Antonio Llorens (Valencia, 2002).
Una breve didascalia iniziale fa riferimento all’instabilità politica turca e alla frequente scomparsa di giovani oppositori del regime agli inizi degli anni novanta. La storia di Muffa – così nelle sale italiane – si articola a partire da quei momenti, ma va avanti fino ai nostri giorni per inerzia. La vita di Basri si ripete invariabilmente uguale a se stessa ogni giorno. Egli cammina per circa venti chilometri all’interno del suo quotidiano percorso lavorativo, ma tutto è immobile, senza un reale presente o una speranza di futuro ed un passato sconosciuto. Tutto intorno si ha una sensazione di abbandono e miseria da cui non vanno esenti brevi scene campestri. Ad un tratto, dalla radio dell’uomo escono per pochi istanti le note della Toccata per arpa e orchestra di Paradisi, la musica che riempiva i nostri intervalli televisivi negli anni 60/70. Strane reminiscenze, del tutto prive di fondamento - al di là di una casuale somiglianza di alcune immagini - se non altro per la giovane età del regista.
È sì mostrata una reazione di Basri quando si trova ad assistere alle sevizie imposte da un operaio delle ferrovie ad una prostituta. Sembra, però, frutto di un istintivo automatismo e non di una personale etica ribellione. Il dramma che segue, infatti, si risolve in una penosa condizione di abulia che impedisce a Basri di salvare quel persecutore da una morte imminente, ricavandone la misera condizione di sentirsi un assassino.
Nemmeno saltuari attacchi di epilessia sembrano poter minare questa paralisi totale. Allora, forse, l’unica possibilità di farla finita è quella di fabbricare una morte falsa. Tale potrebbe essere la soluzione finale che d’un sol colpo farà cessare il fastidio di ricevere le continue richieste epistolari dell’uomo e, pietosamente, una vita senza alcun domani, una muffa che si forma inesorabilmente su una mente e un corpo in decomposizione.
Cupa e intensa l’interpretazione di Ercan Kesal. Alla regia l’esordiente Ali Aydin.
Enzo Vignoli
10 agosto 2013
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