Due ragazzi diciottenni, Joseph e Yacine, e due famiglie, una israeliana e l’altra palestinese.
Vivono a pochi chilometri di distanza ma, probabilmente, non si incontreranno mai perché tra di loro c’è un muro. O meglio, ce ne sono molti. Muri e barriere materiali, come quello imponente che divide Israele dai territori occupati della Cisgiordiania o i numerosi checkpoint presidiati dall’esercito e dal filo spinato.
Ci sono poi i muri psicologici, quelli innalzati dai pregiudizi e dall’odio ancestrale, fossilizzati da decenni di guerra e violenza, soprusi e vendette. La vita dell’israeliano Joseph, con le sue velleità artistiche, il benessere economico e le giornate in spiaggia con gli amici, è antitetica rispetto a quella di Yacine, che pur cresciuto nella precarietà e nella povertà del villaggio palestinese ha avuto la forza e il coraggio di andare a studiare medicina a Parigi, preservando il sogno d’infanzia di aprire un ospedale nella sua terra. La loro vita e quella delle rispettive famiglie, i loro mondi, così diversi e incompatibili, apparentemente destinati a non incrociarsi, si trovano invece all’improvviso l’uno di fronte all’altro. Un evento tanto incredibile quanto dirompente sconvolge la serenità delle loro esistenze: la scoperta che nel 1991 durante l’evacuazione dell’ospedale di Haifa per un bombardamento aereo le culle dei due neonati sono state scambiate per errore. Joseph non è ebreo ma figlio di un ingegnere palestinese costretto a lavorare come meccanico dal blocco della mobilità nei territori occupati.
L’arabo Yacine è invece ebreo, il vero padre è un alto ufficiale dell’aeronautica e la madre un affermato medico. La drammaticità della situazione non investe solo i ragazzi ma anche i genitori e i fratelli; la capacità di reagire, però, è differente e varia secondo la sensibilità e i valori di ciascuno. La reazione immediata dei padri è di aperta ostilità, si rifiutano di accettare la nuova situazione, temendo di “perdere” il proprio figlio.
Nell’incontro tra le due coppie si rinfacciano responsabilità politiche, dialogando con astio e pregiudizi in modo conflittuale. Le madri, invece, si fanno guidare dal cuore, anche quando restano in silenzio parlano con gli occhi, l’umanità del sentimento materno non teme di “perdere” un figlio ma spera di ritrovarne un altro. E’ grazie all’amore e all’aiuto delle madri che Joseph e Yacine sapranno incontrarsi senza paura e confrontarsi sulle loro vite, diventando amici e accettando la nuova identità di ebreo-palestinese.
Il messaggio forte e toccante dell’incredibile storia dei due neonati scambiati per errore, ispirata tra l’altro a un fatto realmente accaduto durante la guerra israelo-palestinese, è che l’affermazione della propria identità non può prescindere dall’accettazione e dalla comprensione dell’altro, dal confronto con ciò che è diverso da noi. Perché il figlio dell’altra non deve essere inteso solo come il figlio di un’altra madre, ma anche come il figlio di un’altra cultura o di un’altra generazione. Partendo dal coraggio e dalla sensibilità delle madri, Leila e Ourith, lo splendido film di Lorraine Levy ci invita a guardare “l’altro” con occhi diversi, cercando di capirne le ragioni e le motivazioni, anteponendo l’umanità degli individui all’appartenenza sociale e religiosa. E ancora una volta una voce di speranza e di pace per la martoriata terra palestinese arriva proprio dalle donne, ricordo per esempio lo sguardo femminile di Rula Jebreal e Nadine Labaki in “Miral” o “E ora dove andiamo?”, presentati nelle rassegne degli anni scorsi.
E’ un cinema che non ha bisogno di eclatanti scene di violenza o di improvvisi e drammatici colpi di scena, tanto meno vuole affrontare e spiegare le ragioni del conflitto. Il figlio dell’altra commuove e fa pensare raccontando con delicatezza e sensibilità storie di persone, la loro umanità e le loro sofferenze. Ci riesce innanzitutto per la grande bravura e l’abilità registica della Levy, capace di girare scene cinematograficamente stupende, si pensi ai silenzi e agli sguardi delle due coppie di genitori riunite per la prima volta, o la camminata notturna dell’ufficiale lungo il muro in cerca del figlio. Ma anche per aver saputo riunire un cast multietnico straordinario, nel film si parlano 4 lingue, che si è dimostrato molto affiatato e solidale durante la difficile lavorazione.
“La speranza” afferma la regista francese “non può che passare dalle donne e dalle nuove generazioni, resistendo con la perseveranza dell’amore di una madre”.
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