Holy Motors |
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Un film di Leos Carax.
Con Denis Lavant, Edith Scob, Eva Mendes, Kylie Minogue, Elise Lhomeau.
continua»
Drammatico,
durata 110 min.
- Francia, Germania 2012.
- Movies Inspired
uscita giovedì 6 giugno 2013.
MYMONETRO
Holy Motors
valutazione media:
3,00
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Il fascino ricorsivo del metacinemadi slowfilmFeedback: 11234 | altri commenti e recensioni di slowfilm |
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lunedì 1 luglio 2013 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Holy Motors di Leos Carax, film apparentemente sui generis, ha riscosso l’entusiasmo di molti cinefili e teorici. Con certo cinema francese ho sempre avuto problemi, con autori che puntualmente pretendono di evocare il fantasma puro e distillato della settima arte, e confezionano l’ennesimo prodotto metanarrativo. Solitamente eccentrico, segmentato, ostenta una noncuranza aristocratica e decadente nei confronti della propria esistenza.
In primo luogo una performance di Denis Levant, nei panni indefiniti di monsieur Oscar – quanto ammiccamento artificiosamente incurante dell’ovvietà già in questo nome – che incarna personaggi sporchi, mutevoli, atletici, omicidi, violenti, menomati, ordinari, per mettere in scena, negli interni, esterni e nel sottosuolo di Parigi, delle microstorie, o semplici gesti e presenze. Naturalmente non è dato conoscere i confini (diegetici) della scena, né il beneficiario degli “appuntamenti” (così vengono chiamate le esibizioni), e tanto meno i committenti degli stessi. La stessa identità di Oscar è indefinita, lo vediamo giustificare la sua attività per la realizzazione della “bellezza del gesto”, e in quel momento anche il suo volto nudo rientra, con ogni probabilità, nella galleria di personaggi.
Questo garbuglio intellettuale può risultare intrigante, o sterile. In meno di due ore traccia una fenditura attraverso i generi e le professionalità del cinema, attraverso lo sfilacciamento della narrazione, l’ambiguità della recitazione e del rapporto col pubblico, la confusione degli spazi, la classicità della provocazione, concentrata nell’erezione del protagonista compres(s)o nella sua maschera più spiacevole, quel monsieur Merde che dalle fogne aveva già visto la luce in un episodio di Tokyo!.
Le rappresentazioni per assumere lineamenti astratti e riflessivi dichiarano la loro artificiosità, ricalcando pagine di teoria del linguaggio filmico, e supponendo che la destrutturazione degli elementi possa restituire al tempo stesso il contenuto tipico della pellicola, banalmente destinata alla proiezione e all’osservazione, e la sua evoluta negazione.
Un cinema che ogni volta pretende di essere qualcosa di diverso da un’opera normalmente immedesimata in sé, e che ha una smisurata ammirazione verso le possibilità di letture autoriflessive. In una scrittura che finisce però per confluire nell’unica idea della frammentarietà e dell’osservazione del modello, ancora più semplice e ripetitiva degli schemi che pretende di stravolgere. L’attività digestiva del regista finisce per uniformare strumenti e codici che avrebbero fra loro valori e significati differenti, in una declinazione monotòna di uno sperimentalismo situazionista che ha radici tutt’altro che fresche.
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