Cesare deve morire |
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Un film di Paolo Taviani, Vittorio Taviani.
Con Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti.
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Docu-fiction,
durata 77 min.
- Italia 2012.
- Sacher
uscita venerdì 2 marzo 2012.
MYMONETRO
Cesare deve morire
valutazione media:
3,75
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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'na cosa miadi gianmarco.diromaFeedback: |
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martedì 31 luglio 2012 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
"Chesta è 'na cosa mia!", dice Bruto/Salvatore Striano, rivolgendosi rabbioso al suo regista, quando il racconto che sta interpretando inizia a coinvolgerlo troppo. Mentre Marco Antonio/Antonio Frasca, preda dello stesso malore (frutto dei rischi insiti in una recita giocata in prima persona) risponde con un mutismo assordante, che lascia intuire spazi bui di un'anima che ha conosciuto l'inferno di chissà quali interrogatori. La frase/battuta "chesta è 'na cosa mia!", pronunciata da Bruto/Salvatore ed il silenzio di cui si nutre la rabbia di Marco Antonio/Antonio, sono i due estremi entro i quali si muove il dramma shakespeariano (o scespiriano) del Giulio Cesare filmato tra le mure di Rebibbia dai fratelli Taviani. Nello spazio di una "cheba" (come si direbbe a Venezia), che per associazione evoca l'immagine di una gabbia qual è lo spazio della prigione, s'inscena il tempo dell'arte. Esiste il tempo dell'arte diceva Sun Tzu. Ed esiste il tempo della guerra. Curioso come l'Italia abbia rivoluzionato i codici linguistici dell'arte nel secolo scorso poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale (con il Futurismo), e subito dopo la fine della Seconda (con il Neorealismo). Curioso come questi personaggi possano incarnare con tale intensità le parole del Bardo: sono detenuti nella vita prestati al cinema verità dei fratelli Taviani, persone che non solo hanno vissuto delle guerre durissime che si possono solo immaginare (e che hanno perso), ma che vivono in una condizione di guerra permanente (in guerra con il proprio passato, rappresentato dall'"essersi fidate di persone sbagliate" in un sistema-malavita in cui "anche i gabbiani hanno scelto di (o sono costretti ad) andarsi a sfamare nelle discariche", in guerra con il proprio presente, rappresentato dallo spazio angusto di un "buso", e con il proprio futuro, in cui diventa difficile pensare di potersi reintegrare). E tra la pieghe di questa macabra curiosità, in cui si cela un qualcosa di masturbatorio, si cela quella stellina mancante per giudicare (con tutta l'umiltà possibile e con il rispetto necessario che Paolo e Vittorio Taviani meritano) questo film un capolavoro. Perché il film si chiude con questa battuta (più o meno), pronunciata da Cosimo Rega/Cassio: "Da quando ho conosciuto l'arte, questa stanza è diventata veramente una prigione". Perché chiudendo il film con questa battuta si è voluto elogiare la forza liberatrice dell'arte, trascurando però le cause che hanno permesso a questo film di essere un'opera d'arte a tutti gli effetti: la prigionia forzata dei suoi protagonisti, ovvero la condizione necessaria per la riuscita di questa operazione! E quindi diventa ancora più curioso constatare una reale corrispondenza tra i personaggi e i detenuti scelti per interpretarli. Se ne scelgono due in questa sede: Bruto e Marco Antonio. Bruto è una sorta di "pasionaria" repubblicana che quando il gioco si fa duro, non si riesce a trattenere ed urla al proprio regista, "chesta è 'na cosa mia!". Marco Antonio sceglie la via del silenzio quando il dolore della sua interpretazione si fa troppo pressante ed interpreta colui che con grande abilità politica obbligherà Bruto (e Cassio) alla fuga e alla battaglia (e alla sconfitta e al suicidio). Da una parte lo sfogo femmineo quindi, dall'altra il rigore del silenzio. Da una parte quindi la biografia spettacolarizzata di Salvatore Striano. Dall'altra il silenzio di Antonio Frasca.
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