I colori della passione

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Un film di Lech Majewski. Con Rutger Hauer, Michael York, Charlotte Rampling, Oskar Huliczka, Joanna Litwin Titolo originale The Mill and the Cross. Drammatico, durata 97 min. - Svezia, Polonia 2011. - CG Entertainment uscita venerdì 30 marzo 2012. MYMONETRO I colori della passione * * * 1/2 - valutazione media: 3,73 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Un viaggio molto onirico nella pittura fiamminga Valutazione 5 stelle su cinque

di francesca meneghetti


Feedback: 7276 | altri commenti e recensioni di francesca meneghetti
giovedì 5 luglio 2012

Questo non è un bel film come tanti altri. Questo è il frutto di un appassionato lavoro di ricerca che merita un particolare rispetto. Duplice: sia per l’approfondita e diversificata documentazione, spaziando tra storia, arte, filosofia, e, naturalmente, cinema; sia per il risultato ottenuto dominando la tecnica digitale con esiti originali.
Al primo impatto – ma il film andrebbe rivisto – l’impressione è di visitare la sezione fiamminga di una prestigiosa galleria nazionale europea: ogni singolo fotogramma è un pezzo da incorniciare, studiato nei minimi dettagli, dalla composizione dei volumi delle forme alla profondità spaziale, dai colori alla luce.  E’ un riquadro che imita perfettamente la pittura fiamminga, caratterizzata dallo spirito analitico e realistico, dalla cura quasi maniacale del dettaglio (ottenuta grazie alla nuova tecnica della velatura), dal gioco decisivo della luce, spesso laterale e non diffusa, così da creare effetti fotografici di chiaro e scuro. I colori sono naturali, come quelli della pittura a olio dell’età rinascimentale: pigmenti ricavati da sostanze naturali, come terre, erbe, pietre, sangue, mescolati all’olio di lino o al tuorlo d’uovo. E i colori della passione sono, in effetti, molto terrosi. L’azzeramento quasi totale del sonoro – che pure, nella successione del film, risulta un po’ pesante – è funzionale all’enfasi del tratto visivo. Si aggiunga poi la particolare stratificazione degli spazi: i primi piani, spesso collocati in ambienti interni debolmente e obliquamente illuminati; i secondi piani, di raccordo tra il primo livello e lo sfondo, in cui si muovono personaggi “secondari” (secondo le gerarchie comuni), che spiccano però per la loro perfetta messa a fuoco e quindi per l’alta definizione; gli sfondi, paesaggistici, spesso nebbiosi o sfumati, che ci riportano ai quadri di Peter Bruegel il vecchio.
Tutto ciò appare di una tale perfezione da risultare per ciò spesso imperfetto: vale a dire algido, manieristico, troppo studiato. A volte sembra, infatti, che la cura messa nell’allestire la bellezza delle singole sequenze sia andata a scapito della coesione narrativa.
Ma c’è anche un altro piano, più profondo, ed è quello simbolico. Bruegel è un autore che, pur nel suo straordinario realismo, attento alla vita quotidiana dei contadini, ricorre molto ai simboli, affolla in modo inverosimile i suoi dipinti e gioca con gli accenti come se avesse letto Freud e la sua interpretazione dei sogni: in una scena onirica, infatti, il primo piano svolge solo una funzione di copertura del significato profondo del sogno, che è collocato ai margini, in zone poco illuminate e remote (nel quadro il luogo del supplizio è non a caso in alto a destra, non davanti e al centro). Il regista Lech Majewski, da una parte svolge tutto un lavoro di decodifica del codice simbolico di Bruegel, anche avvalendosi della collaborazione di Gibson, autore del libro “The mill and the cross”: ecco allora la contrapposizione tra simboli di vita e di morte, il mugnaio equiparato a Dio (ma un dio che osserva quasi indifferente ciò che accade sulla terra), e così via. Ma a sua volta ricorre a una nuova codificazione, ad esempio: la passione di Cristo come simbolo di universale di tutti gli eretici perseguitati dal potere, la dolente impotenza delle madri di tutte le guerre o l’enfatizzazione della ruota per esporre allo scempio dei corvi i cadaveri. E’ un’immagine che compare al margine destro del dipinto “La salita al Calvario”, ma anche nel quadro “Il trionfo della morte”. Ma su di essa Majewski costruisce uno degli episodi più inquietanti: la condanna a morte di un giovane contadino, anticipazione del sacrificio di Gesù, ma anche sequenza di una potenza narrativa straordinaria. Forse è questo gioco con il livello simbolico a rendere il film indimenticabile, perché certe scene s’imprimono fortemente nella memoria inconscia e ci tornano a galla, al pari di certe scene del “Settimo sigillo”, su cui non risulta sia stato impostato finora un confronto: eppure la dialettica vita/morte, l’assenza di Dio, l’impotenza di fronte all’intolleranza, la scena dell’esecuzione di una strega o eretica sono elementi comuni.

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