THE ARTIST
Un film muto girato ai nostri giorni può essere solo una pellicola d’autore o di ricerca puramente estetica. Nel primo caso avremmo probabilmente un prodotto eccentrico, nell’altro ci troveremmo di fronte ad un’operazione nostalgia, forse al tentativo di ripercorrere un cammino dagli inizi per scoprire soluzioni rimaste inesplorate. Confessiamo di avere assistito alla proiezione di The Artist con parecchia trepidazione. Eccoci già arrivati al capolinea della 7° Arte e alla sua rivisitazione – come sembra talora accadere nella Musica o nell’arte figurativa – questo era il nostro pensiero in sala.
The Artist non è un esperimento contemporaneo totalmente privo di sceneggiatura o un tentativo intellettualistico di esasperare il concetto d’incomunicabilità. È, invece, un piccolo scrigno da cui escono soluzioni originali, un gioiellino che ripercorre sì una strada, ma al tempo stesso ci mostra come contemperare il ricordo del passato con idealità presenti, come sfuggire alle sguaiatezze contemporanee con modalità poetiche, ci sa convincere che quello che un tempo era un limite tecnico penalizzante, oggi possa essere riconsiderato come una possibilità. Certo, non è che ora si debba auspicare l’avvento di una nuova era del ‘muto’: sarebbe ridicolo. Però, ci sembra stimolante questa fotocopia di un’epoca, di un mondo che non esiste più, con tutte le sue caratteristiche ritrovate, gli sguardi drammatici e i sorrisi al posto giusto, dove esattamente uno si aspetta di trovarli. Pensiamo quasi ad un’esercitazione di tecnica della sopravvivenza. Un’immagine rovesciata dei contemporanei reality televisivi. Il regista deve riuscire a ‘superare’ la barriera dei 100 minuti, quanto è la durata del film, senza l’ausilio della ‘civiltà’, avendo a disposizione i mezzi minimi di sussistenza, costretto nei panni di uomo della pietra, ma avendo tutta la manuale incapacità dell’uomo contemporaneo, abituato a premere bottoni o a sfiorare comandi per avere il mondo ai propri piedi.
Il regista Michel Hazanavicius è bravissimo a districarsi in tali meandri. Siamo immersi in qualcosa di simile ad un pastiche letterario o in una musicale à la manière de. Tutto è poi reso più credibile perché, con la tecnica del film nel film, viene rappresentata la storia del trapasso dal ‘muto’ al ‘sonoro’. Si rappresenta la fine di un’epoca, la sua messa in soffitta e con abile contrappasso la si va, allo stesso tempo, a rispolverare con risultati davvero sorprendenti. Si sogna il mondo di King Vidor o di Murnau proprio alla vigilia dell’annunciata fine della pellicola che sarà sostituita dai files digitali.
George Valentin, il re del muto, vede scorrere dietro lo schermo le immagini del suo ultimo film di successo. La sala è piena, il pubblico applaude divertito, un’orchestra sotto il palcoscenico suona le musiche che accompagnano il film. Ecco la prima ‘anomalia’, un effetto di straniamento. Il pubblico del muto sentiva sì la musica, eseguita in sala da un’orchestra o da un pianista, ma era un pubblico reale, esterno alla storia. Qui ne è parte integrante. Il vero pubblico siamo noi che guardiamo, immaginiamo e leggiamo meccanicamente i sottotitoli, anche se non ce ne sarebbe bisogno e ascoltiamo le sottolineature della colonna sonora. In questo modo, il film scorre volutamente ambiguo davanti ai nostri occhi, ma l’effetto è quasi impercettibile, latente. L’eroina femminile da Cenerentola si trasforma a poco a poco in Principessa e scalza dal suo trono il Principe. È notevole questo tragitto progressivo, quasi un trascolorare in uno scambio di ruoli, in un passaggio di consegne fino al raggiungimento di una ritrovata parità che, se cinematograficamente è rappresentata con la mediazione del ballo (George e Peppy si trasformano in Fred e Ginger), ai fini dello scioglimento del plot si risolve nel trionfo dell’amore.
Perfetti nello straniamento Jean Dujardin (George Valentin) e Bérénice Bejo (Peppy Miller).
Enzo Vignoli
12 gennaio 2012.
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