Brandon, trentacinque anni, uomo d’affari, New York. Dipendente dal sesso. Riviste, internet, prostitute, incontri occasionali. Un uomo malato e conscio di esserlo. Si disprezza Brandon, detesta la sua natura incontrollata e incontrollabile, che lo spinge all’emarginazione sentimentale, impossibilitato ad avere dei rapporti normali ed emozionali. L’arrivo della sorella Sissy potrebbe salvarlo, e invece crea ancora più attrito («Sei un peso per me»), guidandolo in una metaforica discesa negli inferi (la scena del club sotterraneo omosessuale) mentre la sorella si taglia i polsi.
Brandon è una piccola amnesia della vita. Un uomo assente, fumoso, nel quale la malattia è solo una parte del suo squallore. Steve McQueen tratteggia un personaggio penoso, che non ispira alcun sentimento se non, appunto, pena e infelicità. Ecco, forse è proprio questa la parola: infelice. Il passato, che si intuisce essere stato problematico per entrambi i fratelli, piomba nella sua vita nella figura di Sissy, l’unica che riesce a strappargli una lacrima di emozione, nella splendida scena in cui canta una sofferta e struggente New York, New York. Il resto è assenza, è corpo, è morte. Un desiderio ossessivo di carne che non riempie, ma svuota, non colora, ma cancella, non scalda, ma congela. Non è un caso che nell’unica speranza di un rapporto normale, scandito dal primo appuntamento, da chiacchere, risate, semplicità, il protagonista vada in bianco. Una scena di una tristezza inaudita: i sentimenti come ostacolo. Un battito d’amore che suona come l’ascia di un boia.
McQueen inserisce Brandon e il suo carico di nulla in una New York bellissima e luccicante, dipinta attraverso una splendida fotografia. L’appartamento del protagonista è moderno, pulito, di un architettura senz’anima e senza calore. Freddo e disaccato, come senza ossigeno, l’ambiente e la personalità di Brandon si fondono in un tutt’uno, compiendo un’ interessante contrapposizione tra ciò che dovrebbe arroventare (il sesso) e l’effetto che invece ne deriva: una raggelante forma di affetto, una sorta di contatto corporeo estraniante senza alcun coinvolgimento emotivo che non può che portare all’autodistruzione.
Tutto questo sarebbe impossibile da rappresentare senza due variabili: l’indubbia eleganza stilistica di McQueen e la straordinaria interpretazione di Michael Fassbender (Coppa Volpi a Venezia).
Il regista inglese dimostrò in Hunger di avere un innato talento nell’accostare uno stile garbato e colmo di finezza ad un contesto duro e sporco come quello di una prigione. Anche qui, non scadendo mai nella volgarità, riesce a muoversi sinuosamente sull’orlo dell’abisso, con grazia e maestria, accostando immagini e musiche (una colonna sonora incantevole, di una malinconia esplosiva) in un esperimento sonoro di grande impatto. L’attore irlandese, probabilmente uno dei più talentuosi nel panorama mondiale odierno, lavora splendidamente sull’espressività celata, sul dettaglio e sull’interiorizzazione e sull’annullamento dei sentimenti. Una recitazione che nasconde più che mostrare, per poi esplodere nel finale in un pianto che non ha nulla di liberatorio. Lacrime di un uomo che si è visto per la prima volta allo specchio e si è accorto di essere un mostro.
Shame è un film provocante ma non scandaloso. Le scene, i nudi, sono un pretesto per mostrare un uomo moderno, per il quale il sesso è solo una delle tante droghe che potrebbero imprigionarlo. Un consumatore di morte. E il film, così esplicito, ha il merito di nascondere ciò che più di ogni altra cosa dovrebbe essere chiara: la fine. Sta a noi decidere di salvare Brandon, oppure di mollare la presa e lasciarlo precipitare. Forse, per dimostrarci davvero diversi, dovremmo afferrare quella mano e stringere forte.
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